Corte di Cassazione, sez. III Civile, Ordinanza n.9056 del 12/04/2018

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In tema di attività medico-chirurgica, la manifestazione del consenso informato alla prestazione sanitaria costituisce esercizio di un diritto soggettivo del paziente all'autodeterminazione, cui corrisponde, da parte del medico, l'obbligo di fornire informazioni dettagliate sull'intervento da eseguire, con la conseguenza che, in caso di contestazione del paziente, grava sul medico l'onere di provare il corretto adempimento dell'obbligo informativo preventivo, mentre, nel caso in cui tale prova non venga fornita, è necessario distinguere, ai fini della valutazione della fondatezza della domanda risarcitoria proposta dal paziente, l'ipotesi in cui il danno alla salute costituisca esito non attendibile della prestazione tecnica, regolarmente eseguita, da quella in cui, invece, il peggioramento della salute corrisponda a un esito infausto prevedibile ex ante, nonostante la corretta esecuzione della prestazione tecnico-sanitaria che si rendeva comunque necessaria, nel qual caso, ai fini dell'accertamento del danno, graverà sul paziente l'onere di provare, anche tramite presunzioni, che il danno alla salute è dipeso dal fatto che egli, ove fosse stato compiutamente informato, avrebbe verosimilmente rifiutato l'intervento.

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Cassazione Civile Ord. Sez. 3 Num. 9056 Anno 2018

Presidente: TRAVAGLINO GIACOMO

Relatore: DI FLORIO ANTONELLA

Data pubblicazione: 12/04/2018

ORDINANZA

sul ricorso 28421-2015 proposto da:

XXXX, elettivamente domiciliato in ROMA, VIA MALCESINE 30, presso lo studio dell'avvocato GIOVANNI PORCELLI, che lo rappresenta e difende giusta procura speciale in calce al ricorso;

- ricorrente

contro

YYYYYY, elettivamente domiciliato in ROMA, VIA FRANCESCO GRIMALDI, 47, presso lo studio dell'avvocato ANDREA DE CADILHAC, rappresentato e difeso dall'avvocato MARCO TIRINI giusta procura speciale in calce al controricorso;

- controricorrente -

avverso la sentenza n. 1077/2015 della CORTE D'APPELLO di BOLOGNA, depositata il 08/06/2015; udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del 29/01/2018 dal Consigliere Dott. ANTONELLA DI FLORIO;

Ritenuto che

1. Il Tribunale di Ravenna respinse la domanda proposta da XXX contro YYY, psichiatra, per il risarcimento dei danni procurati alla propria integrità fisica e causati dall'uso di farmaci neurolettici somministrati, a suo dire incautamente, nel periodo 1994- 1998, dal quale erano derivati gravi effetti collaterali consistenti in fenomeni extrapiramidali di discinesia e distonia tardiva.

2. Il giudice adito respinse la domanda con condanna alle spese di lite, escludendo il nesso causale fra l'assunzione dei farmaci prescritta dall'YYY nel periodo indicato e gli effetti collaterali lamentati: a sostegno della decisione veniva valorizzata la circostanza che l'attore era stato sottoposto ad analoga terapia farmacologica sia prima del 1994 che dopo il 1998, con conseguente impossibilità di accertare il nesso causale fra gli effetti collaterali denunciati e la condotta professionale dello psichiatra convenuto.

3. La Corte d'Appello di Bologna ha riformato la sentenza solo in ordine alla pronuncia di condanna alle spese di lite, compensandole, ma rigettando, per il resto, l'impugnazione.

4. Il Liguerri ricorre per la cassazione della sentenza sulla scorta di quattro motivi, illustrati anche da memoria .

5. L'intimato si è difeso con controricorso.

Considerato che

1. Con il primo motivo , ex art. 360 n. 3 cpc, il ricorrente deduce violazione e falsa applicazione dell'art. 342 cpc: lamenta che la Corte d'appello di Bologna aveva ritenuto inammissibile l'impugnazione per mancanza di specificità dei motivi che, formulati attraverso il rinvio alle difese di primo grado, avevano per oggetto le critiche mosse alla consulenza tecnica d'ufficio ed alla mancanza di specializzazione dell'ausiliare nominato.

Lamenta che il richiamo per relationem agli atti di causa doveva ritenersi consentito anche perché era specificamente riferito ad errori ed omissioni commesse dal Tribunale nella valutazione delle emergenze processuali.

2. Con il secondo motivo, il ricorrente deduce, ex art. 360 n. 3 cpc, la violazione e falsa applicazione degli artt. 2043 e 2055 c.c : lamenta che la Corte d'Appello aveva preso in esame fatti storici e circostanze irrilevanti nella concatenazione causale che aveva condotto all'evento dannoso oggetto di richiesta risarcitoria. Assume altresì che l'intervento degli altri medici che lo avevano sottoposto a cure astrattamente idonee ad ingenerare la medesima patologia, lungi dall'escludere la responsabilità dell'YYY, avrebbe semmai imposto l'applicazione della solidarietà nel risarcimento del danno.

3. Con il terzo motivo, il XXX deduce, ex art. 360 n.. 3 cpc, la violazione e falsa applicazione degli artt. 32 e 13 Cost. e dell'art. 5 del Codice Deontologico, in quanto la Corte d'Appello aveva ritenuto falsamente che il consenso informato fosse subordinato al riconoscimento della colpa professionale.

Assume che la mancata acquisizione del consenso era rilevante in se come pregiudizio autonomo senza che, ai fini risarcitori, fosse necessario l'accertamento di un danno alla salute.

4. Con il quarto motivo, il ricorrente deduce, ex art. 360 n° 5 c.c, l'omesso esame di un fatto decisivo oggetto di discussione nel giudizio: lamenta che la Corte aveva trascurato di valutare la dedotta assenza di specializzazione dell'ausiliare incaricato nel primo grado di giudizio e che ciò avrebbe dovuto indurre ad un rinnovo dell'accertamento peritale.

5. Il primo ed il quarto motivo devono essere congiuntamente esaminati per lo stretto collegamento logico - giuridico: entrambi, infatti, criticano la consulenza tecnica d'ufficio sotto il principale aspetto della nomina di un ausiliare privo di adeguata specializzazione rispetto all'accertamento che gli era stato affidato. In più, con il primo motivo, il ricorrente lamenta che dette critiche erano state ritenute erroneamente dalla Corte inammissibili in quanto trasfuse in motivi non sufficientemente specifici. La censura è complessivamente infondata.

Si osserva preliminarmente che la Corte d'Appello ha correttamente applicato l'art. 342 cpc: ha infatti affermato ( v. pag. 4 e 5 sentenza impugnata ) che i motivi proposti non erano sufficientemente specifici, mancando articolate ragioni di doglianza riferite alla motivazione della sentenza di primo grado, ed ha aggiunto che a tal fine non era sufficiente il mero rinvio alle difese svolte in quella sede ed alla comparsa conclusionale ivi depositata.

Questa Corte, al riguardo, ha avuto modo di chiarire che "L'onere di specificazione dei motivi di appello, imposto dall'art. 342 cod. proc. civ., non è assolto con il semplice richiamo "per relationem" alle difese svolte in primo grado, perché per dettato di legge i motivi di gravame devono essere contenuti nell'atto d'impugnazione e, peraltro, la generica "relatio" a tutto quanto prospettato in prime cure finisce per eludere il menzionato precetto normativo, domandando inoltre al giudice "ad quem" un'opera d'individuazione delle censure che la legge processuale non gli affida." ( cfr. Cass. 1248/2013 ; Cass. 4695/2017 ) : i giudici d'appello hanno mostrato di aver correttamente applicato i principi sopra richiamati, tenendo anche conto che la nomina dell'ausiliare rientra nell'insindacabile potere del giudice di merito il quale, oltretutto, nel caso in esame ha dato atto che il CTU si era avvalso, previa autorizzazione, del parere di un ausiliario specialista in psichiatra. La censura, riproposta in questa sede con riferimento al vizio di cui all'art. 360 n° 5 cpc ( nel quarto motivo ), deve perciò dichiararsi inammissibile.

6. Anche il secondo motivo è inammissibile sia perché chiede una rivalutazione del merito della controversia, prospettando una diversa concatenazione causale degli eventi, sia perché introduce un argomento nuovo consistente nell' applicazione del concorso di colpa fra i sanitari che avevano alternativamente sottoposto il ricorrente al trattamento farmacologico contestato, con pretesa violazione dell'art. 2055 c.c..

Al riguardo, in ordine al primo rilievo, deve precisarsi che il XXX, nonostante il formale riferimento al vizio di violazione di legge, contesta

il ragionamento sviluppato dalla Corte sul nesso di causalità e sull'interpretazione, applicata al caso in esame, del principio probabilistico in materia di colpa professionale: ma proprio per questo, trattandosi oltre tutto di una decisione conforme a quella di primo grado, la censura non può trovare ingresso in questa sede perché in tal modo il giudizio di legittimità si trasformerebbe in un inammissibile "terzo grado" di merito.

In ordine alla seconda censura, si osserva poi che la responsabilità concorsuale dei sanitari che hanno avuto in cura il ricorrente non era mai stata in precedenza prospettata: la deduzione risulta nuova e non può, pertanto, trovare ingresso in questa sede.

7. Infine, il terzo motivo è infondato.

Il XXX lamenta che la Corte d'Appello aveva respinto la censura, già prospettata in primo grado, concernente la mancata prestazione del consenso informato, definendo la doglianza irrilevante in quanto subordinata alla risoluzione in senso favorevole al paziente del nesso causale fra il danno dedotto e la colpa professionale del medico, ed affermando in tal modo la pregiudizialità dell'accertamento del danno alla salute rispetto al danno da autodeterminazione.

Lamenta altresì la violazione del codice deontologico medico.

Premesso che tale ultimo rilievo deve dichiararsi inammissibile per difetto di autosufficienza, deve precisarsi che questa Corte ha chiarito, con orientamento al quale questo Collegio intende dare seguito, che "in tema di attività medico-chirurgica, la manifestazione del consenso informato alla prestazione sanitaria costituisce esercizio di un diritto soggettivo del paziente all'autodeterminazione, cui corrisponde, da parte del medico, l'obbligo di fornire informazioni dettagliate sull'intervento da eseguire, con la conseguenza che, in caso di contestazione del paziente, grava sul medico l'onere di provare il corretto adempimento dell'obbligo informativo preventivo, mentre, nel caso in cui tale prova non venga fornita, è necessario distinguere, ai fini della valutazione della fondatezza della domanda risarcitoria proposta dal paziente, l'ipotesi in cui il danno alla salute costituisca esito non attendibile della prestazione tecnica, regolarmente eseguita, da quella in cui, invece, il peggioramento della salute corrisponda a un esito infausto prevedibile ex ante, nonostante la corretta esecuzione della prestazione tecnico-sanitaria che si rendeva comunque necessaria, nel qual caso, ai fini dell'accertamento del danno, graverà sul paziente l'onere di provare, anche tramite presunzioni, che il danno alla salute è dipeso dal fatto che egli, ove fosse stato compiutamente informato, avrebbe verosimilmente rifiutato l'intervento (cfr. ex multis Cass. civ. 2854/2015; Cass. civ. 24220/2015; Cass. 24074/2017; Cass. 16503/2017).

E' stata pertanto riconosciuta l'autonoma rilevanza, ai fini dell'eventuale responsabilità risarcitoria, della mancata prestazione del consenso da parte del paziente, con la precisazione che tale violazione può causare due diversi tipi di danni: un danno alla salute, sussistente quando sia ragionevole ritenere che il paziente, su cui grava il relativo onere probatorio, se correttamente informato, avrebbe evitato di sottoporsi al trattamento e di subirne le conseguenze invalidanti; nonché un danno da lesione del diritto all'autodeterminazione in se stesso, il quale sussiste quando, a causa del deficit informativo, il paziente abbia subito un pregiudizio, patrimoniale oppure non patrimoniale (ed, in tale ultimo caso, di apprezzabile gravità), diverso dalla lesione del diritto alla salute.

In relazione a quanto sinora argomentato, la motivazione della Corte di Bologna deve, dunque, essere corretta.

Ma, tanto premesso, il motivo è infondato in quanto nel caso in esame nessuna violazione dei parametri costituzionali invocati può essere ravvisata: la Corte di Bologna, infatti, non poteva giungere a diversa soluzione visto che non solo non è stata fornita dal ricorrente , onerato, alcuna dimostrazione che avrebbe rifiutato il trattamento ove compiutamente informato, ma è emerso addirittura che il medesimo farmaco era stato da lui assunto con prescrizioni di diversi sanitari in epoca sia antecedente che successiva a quella in cui egli si era affidato alle cure dell' YYY, dovendosi con ciò escludere, anche in via presuntiva, che egli si sarebbe determinato ad un diverso trattamento terapeutico, anche ove il controricorrente lo avesse informato degli effetti collaterali del farmaco.

In conclusione, il ricorso deve essere respinto con condanna del ricorrente alle spese del giudizio di legittimità.

Ai sensi dell'art. 13 co. 1 quater dpr 115/2002 da atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente dell'ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso proposto , a norma del comma ibis dello stesso art. 13.

PQM

La Corte,

rigetta il ricorso.

Condanna il ricorrente alle spese del giudizio di legittimità che liquida in Euro 5200,00 per compensi ed C 200,00 per esborsi , oltre accessori e rimborso spese forfettario nella misura di legge.


Ai sensi dell'art. 13 co. 1 quater dpr 115/2002 da atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente dell'ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso proposto , a norma del comma ibis dello stesso art. 13.

Così deciso in Roma nella camera di consiglio della terza sezione civile del 29.1.2018.

IL PRESIDENTE

Giacomo Travaglino

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