Corte di Cassazione, sez. Lavoro, Sentenza n.21419 del 14/08/2019

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LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. NAPOLETANO Giuseppe – Presidente –

Dott. TORRICE Amelia – Consigliere –

Dott. TRIA Lucia – Consigliere –

Dott. DI PAOLANTONIO Annalisa – rel. Consigliere –

Dott. MAROTTA Caterina – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 15613/2017 proposto da:

R.F., elettivamente domiciliato in ROMA, VIA ARRIGO DAVILA n. 43/20, presso lo studio dell’avvocato GIOVANNI FARAGASSO, che lo rappresenta e difende;

– ricorrente –

contro

AZIENDA REGIONALE EMERGENZA SANITARIA – ARES *****, in persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, VIA A. MORDINI n. 14, presso lo studio dell’avvocato MARIA LUDOVICA POLTRONIERI, che la rappresenta e difende;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 5515/2016 della CORTE D’APPELLO di ROMA, depositata il 13/12/2016 R.G.N. 3320/2014;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 19/06/2019 dal Consigliere Dott. ANNALISA DI PAOLANTONIO;

udito il P.M., in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. CIMMINO Alessandro, che ha concluso per inammissibilità in subordine rigetto;

udito l’Avvocato GIOVANNI FARAGASSO;

udito l’Avvocato MARIA LUDOVICA POLTRONIERI.

FATTI DI CAUSA

1. La Corte d’Appello di Roma ha respinto l’appello di R.F. avverso la sentenza del Tribunale della stessa sede che aveva rigettato il ricorso, proposto nei confronti dell’Azienda Regionale Emergenza Sanitaria ARES *****, volto ad ottenere, previa dichiarazione di illegittimità del trasferimento disposto con nota del 14 gennaio 2013, la condanna del datore di lavoro alla reintegrazione nel posto di lavoro in precedenza occupato presso l’Ospedale ***** ed al risarcimento dei danni tutti subiti.

2. La Corte territoriale, riassunti i termini della controversia e richiamata giurisprudenza di questa Corte sull’interpretazione dell’art. 2103 c.c., ha escluso che la norma potesse trovare applicazione nella fattispecie, in quanto le postazioni istituite in Via ***** e presso l’Ospedale ***** facevano entrambe parte dell’unica macroarea *****, a sua volta ricompresa in un’unica unità operativa complessa. L’assegnazione dell’appellante ad una diversa postazione non integrava trasferimento in senso tecnico, perchè avvenuta all’interno della medesima unità produttiva. La stessa, inoltre, non aveva comportato uno spostamento territoriale di rilevante entità nè aveva pregiudicato il R., il quale si era visto assegnare ad una sede di lavoro più vicina al suo domicilio.

3. Il giudice d’appello ha aggiunto che l’art. 51 del c.c.n.l. per il personale del comparto sanità esclude che rientri nella disciplina della mobilità lo spostamento del dipendente all’interno della struttura di appartenenza. Ha evidenziato, inoltre, che l’appellante si era limitato ad affermare il carattere autonomo di ciascuna postazione territoriale, senza però fornire alcun elemento a riscontro dell’allegazione.

4. La Corte romana ha escluso la natura sostanzialmente disciplinare del provvedimento adottato ed ha rilevato che l’incompatibilità ambientale va ricondotta alle esigenze tecniche, organizzative e produttive, rispetto alle quali il controllo giurisdizionale non può spingersi fino a sindacare nel merito le scelte imprenditoriali. Ha aggiunto che l’Azienda aveva fatto leva anche sulla carenza di autisti presso la postazione di via ***** e detta circostanza rafforzava la legittimità del provvedimento adottato.

5. Infine la Corte territoriale ha ritenuto insussistente l’ipotizzata violazione dei principi di correttezza e buona fede ed ha evidenziato che il datore di lavoro non aveva arrecato alcun concreto pregiudizio al R., il quale aveva fatto valere solo l’interesse, personale e non professionale, ad essere assegnato nella stessa sede della collega P..

6. Per la cassazione della sentenza ha proposto ricorso R.F. sulla base di quattro motivi, ai quali l’Azienda Regionale ha replicato con tempestivo controricorso.

RAGIONI DELLA DECISIONE

1. Con il primo motivo il ricorrente denuncia, ex art. 360 c.p.c., n. 3, violazione o falsa applicazione dell’art. 2103 c.c., dell’art. 51 del CCNL per il personale non dirigenziale del comparto sanità, del D.Lgs. n. 81 del 2008, art. 2, lett. t), artt. 101, 112,113 e 115 c.p.c., artt. 24 e 111 Cost, art. 6 CEDU. Sostiene che, contrariamente a quanto asserito dalla Corte territoriale, nella fattispecie doveva essere applicato l’art. 2103 c.c., perchè il trasferimento aveva interessato diverse unità produttive, ciascuna dotata di autonomia gestionale. Aggiunge che il giudice d’appello non poteva limitarsi a fare propria la tesi difensiva dell’ARES senza valutare se le postazioni inserite nella macro struttura fossero o meno autonome quanto a mezzi, strumenti e gestione del personale. Richiama giurisprudenza di questa Corte per sostenere che l’art. 2103 c.c., tutela il diritto del lavoratore a non essere privato delle relazioni interpersonali instaurate nella sede di lavoro e, quindi, trova applicazione anche nei casi in cui lo spostamento avvenga in un ambito geografico ristretto. Deduce che l’assenza di autonomia funzionale deve essere provata dal datore di lavoro che, nella specie, non aveva assolto all’onere sullo stesso gravante perchè, da un lato, aveva solo depositato un documento non sufficiente a dimostrare quale fosse l’effettiva organizzazione aziendale; dall’altro non aveva contestato in modo specifico le circostanze allegate nelle note conclusive del giudizio di primo grado e nell’appello (diversità della compagine dirigenziale; autonomia gestionale; assegnazione a ciascuna struttura di una propria dotazione strumentale) che smentivano l’asserita appartenenza delle due postazioni di lavoro alla stessa unità produttiva. Ribadisce, pertanto, che si era in presenza di un trasferimento, illegittimo perchè disposto in assenza di ragioni tecniche, organizzative e produttive.

2. La seconda censura, formulata sempre ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 3, denuncia la violazione delle norme di legge e delle disposizioni contrattuali richiamate nel primo motivo nonchè dell’art. 29 del CCNL per il personale del comparto sanità e della L. n. 300 del 1970, art. 15. Sostiene il ricorrente che la Corte territoriale, nell’escludere la natura sostanzialmente disciplinare del provvedimento, non ha considerato alcune decisive circostanze di fatto ed in particolare non ha valutato che l’equipaggio composto dallo stesso R. e dai colleghi di lavoro G. e P. era già stato “sciolto” al momento dell’adozione del provvedimento ed il G., con il quale erano sorti dissidi, aveva chiesto di essere trasferito ad altra unità. Pertanto non sussistevano più le esigenze organizzative, valorizzate, invece, dai giudici di merito.

3. Con la terza critica R.F. si duole della violazione degli artt. 1175,1375,2043 c.c., oltre che degli artt. 101,112,113 e 115 c.p.c., degli artt. 24 e 111Cost., dell’art. 6 CEDU. Rileva che ha errato la Corte territoriale nell’escludere la violazione dei principi di correttezza e buona fede e nel ritenere che l’assegnazione non avesse in alcun modo pregiudicato l’appellante. Al contrario quest’ultimo era stato costretto a svolgere lavori inferiori rispetto a quello di autista ed inoltre non aveva più potuto prestare lavoro straordinario, con evidente pregiudizio economico, provato attraverso la produzione delle buste paga.

4. Infine il quarto motivo denuncia ex art. 360 c.p.c., n. 4, “nullità della sentenza e del procedimento; art. 2697 c.c.; artt. 101,112,113 e 115 c.p.c.; artt. 24 e 111 Cost. – CEDU in particolare art. 6. Omessa motivazione della sentenza di appello in ordine alle richieste istruttorie”. Il ricorrente premette che con l’atto di appello erano state reiterate le richieste istruttorie non accolte dal Tribunale, finalizzate a provare le reali motivazioni del trasferimento. Il giudice d’appello avrebbe dovuto provvedere sulla richiesta ed accoglierla.

5. E’ fondata l’eccezione di inammissibilità del ricorso sollevata dalla difesa della controricorrente.

Costituisce ius receptum nella giurisprudenza di questa Corte il principio secondo cui le espressioni violazione o falsa applicazione di legge, di cui all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, descrivono i due momenti in cui si articola il giudizio di diritto: a) quello concernente la ricerca e l’interpretazione della norma ritenuta regolatrice del caso concreto; b) quello afferente l’applicazione della norma stessa una volta correttamente individuata ed interpretata. Il vizio di violazione di legge investe immediatamente la regola di diritto, risolvendosi nella negazione o affermazione erronea della esistenza o inesistenza di una norma, ovvero nell’attribuzione ad essa di un contenuto che non possiede, avuto riguardo alla fattispecie in essa delineata; il vizio di falsa applicazione di legge consiste, o nel sussumere la fattispecie concreta giudicata sotto una norma che non le si addice, perchè la fattispecie astratta da essa prevista – pur rettamente individuata e interpretata – non è idonea a regolarla, o nel trarre dalla norma, in relazione alla fattispecie concreta, conseguenze giuridiche che contraddicano la pur corretta sua interpretazione.

Non rientra, pertanto, nell’ambito applicativo dell’art. 360, comma 1, n. 3, l’allegazione di un’erronea ricognizione della fattispecie concreta a mezzo delle risultanze di causa che è, invece, esterna all’esatta interpretazione della norma e inerisce alla tipica valutazione del giudice di merito, sindacabile in sede di legittimità solo nei ristretti limiti indicati dall’art. 360 c.p.c., n. 5, nel testo applicabile ratione temporis (in tal senso fra le più recenti Cass. n. 3340/2019; Cass. n. 640/2019; Cass. n. 24155/2017).

Se ne è tratta la conseguenza che “la deduzione del vizio di violazione di legge consistente nella erronea riconduzione del fatto materiale nella fattispecie legale deputata a dettarne la disciplina (cd. vizio di sussunzione) postula che l’accertamento in fatto operato dal giudice di merito sia considerato fermo ed indiscusso, sicchè è estranea alla denuncia del vizio di sussunzione ogni critica che investa la ricostruzione del fatto materiale, esclusivamente riservata al potere del giudice di merito” (Cass. n. 6035/2018 e negli stessi termini Cass. n. 18715/2016).

5.1. Parimenti consolidato è l’orientamento che, quanto alle modalità di deduzione del vizio di cui all’art. 360 c.p.c., n. 3, valorizza il principio della necessaria specificità dei motivi di ricorso per cassazione di cui all’art. 366 c.p.c., n. 4 e, pertanto, richiede che la denuncia di violazione o falsa applicazione di norme di diritto non si limiti alla indicazione delle norme che si assumono violate, perchè il requisito di ammissibilità è soddisfatto solo qualora il ricorso contenga “specifiche argomentazioni intellegibili ed esaurienti, intese a motivatamente dimostrare in qual modo determinate affermazioni in diritto contenute nella sentenza impugnata debbano ritenersi in contrasto con le indicate norme regolatrici della fattispecie o con l’interpretazione delle stesse fornite dalla giurisprudenza di legittimità, diversamente impedendo alla corte regolatrice di adempiere al suo compito istituzionale di verificare il fondamento della lamentata violazione” (Cass. n. 24298/2016 e negli stessi termini Cass. n. 328/2007; Cass. n. 21611/2013; Cass. n. 20957/2014; Cass. n. 635/2015).

5.2. In applicazione dei principi sopra richiamati i primi tre motivi di ricorso devono essere dichiarati inammissibili, perchè il ricorrente, pur denunciando formalmente nella rubrica violazione di norme di legge, di contratto e del codice di rito, non indica le ragioni di diritto per le quali la Corte territoriale avrebbe fornito un’interpretazione errata della normativa e delle disposizioni contrattuali rilevanti, bensì censura la valutazione delle risultanze processuali, riservata al giudice di merito, e ciò fa, oltretutto, ponendo a fondamento delle doglianze documenti ed atti dei quali, in violazione dell’onere imposto dall’art. 366 c.p.c., n. 6, non riporta nel ricorso il contenuto.

Dalla sintesi dei motivi di cui ai punti che precedono emerge con evidenza che le doglianze, nell’investire la qualificazione dell’atto della cui legittimità si discute, fanno leva su una rappresentazione dei fatti diversa da quella accertata dalla Corte territoriale e, quindi, finiscono tutte per addebitare al giudice d’appello, non un errore nell’interpretazione delle norme e delle clausole contrattuali che vengono in rilievo, bensì l’errato esercizio del potere di cui all’art. 116 c.p.c., che non dà luogo ad alcun vizio denunciabile con il ricorso per cassazione, non essendo inquadrabile nel paradigma dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5 (che attribuisce rilievo all’omesso esame di un fatto storico, principale o secondario, la cui esistenza risulti dal testo della sentenza o dagli atti processuali, abbia costituito oggetto di discussione tra le parti e presenti carattere decisivo per il giudizio), nè in quello del precedente n. 4, disposizione che – per il tramite dell’art. 132 c.p.c., n. 4 – dà rilievo unicamente all’anomalia motivazionale che si tramuta in violazione di legge costituzionalmente rilevante (Cass. n. 11892/2016), non ravvisabile nella fattispecie, perchè la sentenza impugnata dà ampio conto delle ragioni per le quali la Corte territoriale ha ritenuto di dovere respingere l’appello.

6. E’ inammissibile anche il quarto motivo.

Da tempo questa Corte ha affermato (Cass. S.U. n. 15982/2001, Cass. n. 6715/2013, Cass. n. 13716/2016, Cass. n. 24830/2017) che il vizio di omessa pronuncia che determina la nullità della sentenza per violazione dell’art. 112 c.p.c., rilevante ai fini di cui all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4, si configura esclusivamente con riferimento a domande attinenti al merito e non anche in relazione ad istanze istruttorie, per le quali l’omissione è denunciabile soltanto ex art. 360 c.p.c., n. 5.

Il legislatore con il D.L. n. 83 del 2012, convertito con modificazioni dalla L. n. 134 del 2012, da un lato ha riformulato la disposizione, consentendo la denuncia del solo “omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti”; dall’altro con l’art. 348 ter c.p.c., comma 5, ha escluso che il vizio possa essere denunciato “avverso la sentenza d’appello che conferma la decisione di primo grado”. Quest’ultima disposizione trova applicazione ratione temporis nella fattispecie (l’appello di R.F. avverso la sentenza del Tribunale di Roma del 4.6.2014 è stato proposto dopo l’entrata in vigore della nuova normativa) sicchè la censura, in quanto come già detto riconducibile al vizio di cui all’art. 360 c.p.c., n. 5, non poteva essere formulata.

Va ribadito, infatti, che ” nell’ipotesi di “doppia conforme”, prevista dall’art. 348-ter c.p.c., comma 5 (applicabile, ai sensi del D.L. n. 83 del 2012, art. 54, comma 2, conv., con modif., dalla L. n. 134 del 2012, ai giudizi d’appello introdotti con ricorso depositato o con citazione di cui sia stata richiesta la notificazione dal giorno 11 settembre 2012), il ricorrente in cassazione per evitare l’inammissibilità del motivo di cui all’art. 360 c.p.c., n. 5, deve indicare le ragioni di fatto poste a base, rispettivamente, della decisione di primo grado e della sentenza di rigetto dell’appello, dimostrando che esse sono tra loro diverse” (Cass. n. 26774/2016).

Nella specie il ricorrente non ha indicato le ragioni di diversità fra le due pronunce, diversità che va all’evidenza esclusa, avendo la Corte territoriale prestato piena adesione alla ricostruzione operata dal giudice di prime cure.

6.1. Alle considerazioni esposte, già assorbenti, si deve aggiungere che “la censura contenuta nel ricorso per cassazione relativa alla mancata ammissione della prova testimoniale è inammissibile se il ricorrente, oltre a trascrivere i capitoli di prova e ad indicare i testi e le ragioni per le quali essi sono qualificati a testimoniare – elementi necessari a valutare la decisività del mezzo istruttorio richiesto – non alleghi e indichi la prova della tempestività e ritualità della relativa istanza di ammissione e la fase di merito a cui si riferisce, al fine di consentire ex actis alla Corte di Cassazione di verificare la veridicità dell’asserzione” (Cass. n. 9748/2010 e negli stessi termini Cass. n. 8204/2018).

Il motivo non è formulato nel rispetto degli oneri sopra indicati perchè si limita a trascrivere l’atto di appello, che non riporta i capitoli di prova in quanto rinvia per relationem al ricorso introduttivo del giudizio di primo grado.

7. In via conclusiva il ricorso deve essere dichiarato inammissibile con conseguente condanna del ricorrente al pagamento delle spese del giudizio d legittimità, liquidate come da dispositivo.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, come modificato dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, deve darsi atto della ricorrenza delle condizioni previste dalla legge per il raddoppio del contributo unificato dovuto dal ricorrente.

P.Q.M.

La Corte dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di legittimità, liquidate in Euro 200,00 per sborsi ed Euro 5.500,00 per competenze professionali, oltre rimborso spese generali del 15% e accessori di legge.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma del cit. art. 13, comma 1-bis.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio, il 19 giugno 2019.

Depositato in Cancelleria il 14 agosto 2019

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