LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE TERZA CIVILE
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. TRAVAGLINO Giacomo – Presidente –
Dott. SESTINI Danilo – rel. Consigliere –
Dott. CIGNA Mario – Consigliere –
Dott. FIECCONI Francesca – Consigliere –
Dott. VINCENTI Enzo – Consigliere –
ha pronunciato la seguente:
SENTENZA
sul ricorso 12386-2017 proposto da:
M.D., elettivamente domiciliato in ROMA, LUNGOTEVERE DEI MELLINI 10, presso lo studio dell’avvocato FILIPPO CASTELLANI, che lo rappresenta e difende unitamente agli avvocati GIULIANO MARCHI, GIORGIA MASELLO;
– ricorrente –
contro
A.M.;
– intimato –
avverso la sentenza n. 516/2017 della CORTE D’APPELLO di VENEZIA, depositata il 06/03/2017;
udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 18/04/2019 dal Consigliere Dott. DANILO SESTINI;
udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. PEPE Alessandro, che ha concluso per il rigetto del ricorso;
udito l’Avvocato MODENA FRANCO.
FATTI DI CAUSA
Il Tribunale penale di Rovigo dichiarò M.D. colpevole dei reati di lesioni personali e minaccia commessi in danno di A.M. e lo condannò anche al risarcimento dei danni in favore della parte civile, rimettendo per la liquidazione avanti al giudice civile competente.
La Corte di Appello dichiarò non doversi procedere nei confronti dell’imputato per intervenuta prescrizione dei reati, confermando le statuizioni civili della sentenza di primo grado.
A seguito di ricorso del M., la Corte di Cassazione annullò la sentenza relativamente alle statuizioni civili, con rinvio al giudice civile competente per valore in grado di appello.
Riassunta la causa dall’ A., la Corte di Appello di Venezia ha respinto l’eccezione di tardività della riassunzione e ha affermato la responsabilità civile del M., condannandolo al risarcimento dei danni liquidati in Euro 500,00, oltre accessori.
La Corte ha affermato che:
l’attendibilità del teste G., che aveva confermato la dinamica dei fatti così come riferiti dalla parte offesa (in riferimento alla circostanza che il M. aveva sferrato un pugno al volto dell’ A.), non era inficiata dal fatto che, in primo momento, l’episodio fosse stato collocato temporalmente in un orario incompatibile con quello di ingresso dell’ A. al Pronto Soccorso, trattandosi di “discrasia temporale” giustificabile dagli anni trascorsi fra i fatti e la deposizione;
non era plausibile che l’ A. si fosse procurato egli stesso la lesione al volto, nè era risultato che tale lesione fosse presente prima dell’alterco;
non risultava attendibile la versione fornita dalla moglie del M., nè risultava rilevante la testimonianza di tale Gr., che aveva dichiarato di non avere seguito l’intero svolgimento della vicenda;
il quadro probatorio che emergeva “dalle dichiarazioni dei testi e dalla documentazione prodotta (referto del Pronto Soccorso e denuncia presentata ai Carabinieri) costitui(va) prova sufficiente ai fini dell’accertamento della responsabilità civile del M. in applicazione del principio generale che governa la causalità civile del “più probabile che non”, anche considerando che, all’opposto, la ricostruzione offerta dal M. e, in particolare, la paventata ipotesi di una simulazione del reato da parte dell’ A., non trova(va) alcun riscontro probatorio, restando mera allegazione di parte”.
Ha proposto ricorso per cassazione il M., affidandosi a tre motivi; l’intimato ha resistito con controricorso.
RAGIONI DELLA DECISIONE
1. Col primo motivo, il ricorrente denuncia la violazione o falsa applicazione dell’art. 392 c.p.c. e della L. n. 69 del 2009, art. 58 censurando la sentenza impugnata per avere ritenuto tempestivo l’atto di riassunzione notificato il 9.10.2015, entro l’anno dalla pubblicazione della sentenza penale della Corte di Cassazione: premesso che la L. n. 69 del 2009 ha ridotto da un anno a tre mesi il termine previsto dall’art. 392 c.p.c. per la riassunzione della causa avanti al giudice di rinvio e che l’art. 58, comma 1 medesima Legge ha stabilito che il nuovo termine si applica ai “giudizi instaurati dopo l’entrata in vigore della legge”, il ricorrente assume che il “giudizio introdotto con la citazione in riassunzione è un vero e proprio giudizio civile, diverso da quello penale che ha ormai esaurito il suo compito”, e deve dunque ritenersi instaurato con la stessa citazione in riassunzione, risultando pertanto “sottoposto al principio “tempus regit actum” con conseguente applicazione del termine trimestrale e non del termine annuale”.
1.1. Il motivo è infondato: per quanto sia corretta l’affermazione che il giudizio di rinvio avanti al giudice civile è del tutto svincolato dal giudizio penale (ormai definitivamente esaurito), deve tuttavia considerarsi, al fine di verificare la tempestività della riassunzione (e di individuare il termine applicabile ratione temporis) che la controversia civile ha avuto inizio nell’ambito del giudizio penale (la cui sentenza di primo grado risale all’anno 2003) in virtù della costituzione di parte civile dell’ A. e deve altresì ritenersi che la circostanza che, disposto – nell’originaria sede penale – l’annullamento della sentenza ai soli effetti civili, la controversia sia stata riassunta avanti al giudice civile non valga a determinare un’instaurazione ex novo del giudizio nei sensi di cui alla L. n. 69 del 2009, art. 58, comma 1.
E’ pacifico, infatti, che non rileva, ai fini dell’applicazione di tale norma transitoria, l'”instaurazione di una successiva fase” della controversia (Cass. n. 19969/2015) giacchè ciò che rileva è l'”instaurazione originaria del giudizio” (Cass. n. 33168/2018).
Deve pertanto ritenersi che, ai fini dell’individuazione del termine (annuale oppure trimestrale) entro cui deve procedersi alla riassunzione del giudizio avanti al giudice di rinvio a seguito di annullamento della sentenza penale agli effetti civili (ai sensi dell’art. 622 c.p.p.), deve aversi riguardo – in relazione alla modifica dell’art. 392 c.p.c. disposta dalla L. n. 69 del 2009, art. 46, comma 21 e alla norma transitoria di cui all’art. 58, comma 1 medesima Legge – al momento in cui è stata effettuata la costituzione di parte civile nel processo penale, nel quale va individuata l’instaurazione originaria della controversia civile, dovendo pertanto ritenersi operante il termine annuale se detta costituzione sia avvenuta in data anteriore al 4.7.2009.
2. Il secondo motivo deduce la violazione o falsa applicazione dell’art. 116 c.p.c. e dell’art. 2729 c.c. e lamenta “una lettura travisata e non conforme al dettato di legge (…) delle risultanze emerse in sede penale”: premesso che “i dati raccolti nel processo penale debbono essere valutati alla stregua dell’art. 2729 c.c., e pertanto quali elementi meramente presuntivi, non ammissibili se non in quanto gravi precisi e concordanti”, il ricorrente assume che, nel caso di specie, “il quadro probatorio non consente di raggiungere alcuna certezza”.
2.1. Il motivo è inammissibile, in quanto:
la violazione dell’art. 116 c.p.c. non risulta dedotta in conformità ai parametri individuati dalla giurisprudenza di legittimità (cfr. Cass. n. 11892/2016, Cass. n. 27000/2016 e Cass. n. 1229/2019): infatti, un’eventuale erronea valutazione del materiale istruttorio non determina, di per sè, la violazione o falsa applicazione dell’art. 116 c.p.c., che ricorre solo allorchè si deduca che il giudice di merito abbia disatteso (valutandole secondo il suo prudente apprezzamento) delle prove legali oppure abbia considerato come facenti piena prova, recependoli senza apprezzamento critico, elementi di prova soggetti invece a valutazione;
le censure imperniate sulla violazione dell’art. 2729 c.c. sono generiche e – comunque – non pertinenti rispetto al contenuto della sentenza impugnata, che non risulta basata su argomenti di natura presuntiva, bensì sulla analitica valutazione delle prove orali e documentali e sulla ricostruzione della vicenda condotta alla luce delle prove ritenute maggiormente attendibili.
3. Col terzo motivo, viene denunciata l'”omessa valutazione di un fatto decisivo in ordine al quale le parti hanno discusso”: premesso che, ai fini della decisione della causa, era “fondamentale stabilire se, al momento dell’aggressione, la posizione reciproca delle parti fosse tale da giustificare una possibilità di aggressione”, il ricorrente si duole che la Corte di Appello si sia “limitata a ripercorrere le risultanze del giudizio di primo grado solo con riferimento alla presunta ora dell’aggressione ma non alla materiale verificazione e alla dinamica dei fatti”.
3.1. Il motivo è inammissibile: il ricorrente non deduce in quali termini la circostanza che l’ A. non fosse sceso dal trattore sul quale viaggiava fosse stata dedotta in giudizio e se e come la stessa avesse costituito oggetto di discussione fra le parti; nè risulta evidenziata la decisività della circostanza, che è ovviamente correlata all’attendibilità della fonte (che la Corte ha escluso in relazione al teste Gr. e alla moglie del M.); a ben vedere, il motivo risulta dunque volto a sollecitare una diversa ricostruzione della vicenda mediante una lettura alternativa delle risultanze istruttorie, che non è consentita nella presente sede di legittimità.
4. Le spese di lite seguono la soccombenza.
5. Sussistono le condizioni per l’applicazione del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese di lite, liquidate in Euro 700,00 per compensi, oltre alle spese forfettarie nella misura del 15%, al rimborso degli esborsi (liquidati in Euro 200,00) e agli accessori di legge.
Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis.
Così deciso in Roma, il 18 aprile 2019.
Depositato in Cancelleria il 24 settembre 2019