LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE TRIBUTARIA
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. CRUCITTI Roberta – Presidente –
Dott. GIUDICEPIETRO Andreina – Consigliere –
Dott. CATALDI Michele – Consigliere –
Dott. CONDELLO Pasqualina Anna Piera – Consigliere –
Dott. BERNAZZANI Paolo – rel. Consigliere –
ha pronunciato la seguente:
ORDINANZA
sul ricorso 14154-2013 proposto da:
L.P., domiciliato in ROMA P.ZZA CAVOUR presso la cancelleria della CORTE DI CASSAZIONE, rappresentato e difeso dall’Avvocato WALTER RUSSO;
– ricorrente –
contro
AGENZIA DELLE ENTRATE, in persona del Direttore pro tempore, elettivamente domiciliato in ROMA VIA DEI PORTOGHESI 12, presso l’AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO, che lo rappresenta e difende;
– controricorrente –
avverso la sentenza n. 301/2012 della COMM. TRIB. REG. di NAPOLI, depositata il 21/11/2012;
udita la relazione della causa svolta nella Camera di consiglio del 09/04/2019 dal Consigliere Dott. PAOLO BERNAZZANI.
RILEVATO
Che:
L.P. propone ricorso per la cassazione della sentenza della CTR della Campania n. 301/28/12 del 16.7/21.11.2012 che ha accolto l’appello principale dell’A.F. e rigettato quello incidentale del contribuente avverso la sentenza di prime cure, parzialmente favorevole a quest’ultimo, nell’ambito di una controversia concernente l’impugnazione di avviso di accertamento per Irpef, Iva ed Irap 2005 con il quale venivano ripresi a tassazione maggiori ricavi non dichiarati, per l’importo di Euro 66.812,00, derivanti dall’attività di ristorazione svolta dal contribuente.
La CTR, in particolare, ha affermato la legittimità dell’accertamento analitico – induttivo effettuato dall’Ufficio, in quanto fondato sull’inattendibilità delle scritture contabili dell’impresa; carattere desumibile dall’utilizzazione impropria del conto cassa, che presentava un apporto del titolare di Euro 40.000,00, ritenuto finalizzato a mascherare un reale saldo negativo e tale da far presumere l’omessa fatturazione di operazioni attive, nonchè dal mancato rinvenimento di fatture per l’acquisto di beni indispensabili per lo svolgimento dell’attività di ristorazione (quali alimenti utilizzati per la preparazione di piatti e legna da forno). La CTR ha ritenuto, parimenti, corretta la rideterminazione dei ricavi ripresi a tassazione, avuto riguardo alla loro ricostruzione sulla base dei quantitativi di materie prime occorrenti per confezionare pizze e piatti di pasta.
Il ricorso è affidato a tre motivi, il terzo dei quali assomma in sè la contestazione di distinti vizi. Resiste l’A.d.e. con controricorso.
CONSIDERATO
Che:
1. Con il primo motivo di gravame, il ricorrente deduce violazione dell’art. 112 c.p.c. in relazione all’art. 132 c.p.c. con riferimento al parametro di legittimità dettato dall’art. 360 cod. cit., comma 1, n. 4, per omessa pronuncia in ordine alla denunziata nullità dell’avviso di accertamento per difetto di motivazione, avuto riguardo alla specifica previsione di cui alla L. 8 maggio 1998, n. 146, art. 10, comma 4 bis.
2. Con il secondo motivo, si deduce violazione o falsa applicazione dell’art. 10, comma 4 bis cit., in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, con richiesta di decisione nel merito ex art. 384 cod. cit., commi 2 e 4, nell’ipotesi, logicamente subordinata alla quella illustrata con il primo mezzo di gravame, che la CTR abbia rigettato implicitamente la questione di nullità dell’avviso di accertamento per difetto di motivazione, con riferimento alla L. n. 146 del 1998, art. 10, comma 4 bis.
3. Entrambi i motivi, che possono essere trattati unitariamente attesa la loro stretta connessione sul piano logico, sono infondati.
3.1. Va premesso che la L. n. 146 del 1998, art. 10, comma 4 – bis, introdotto dalla L. 27 dicembre 2006, n. 296, art. 1, comma 17, (e successivamente abrogato dal D.L. 6 dicembre 2011, n. 201, convertito con modificazioni dalla L. 22 dicembre 2011, n. 214) prevedeva che:
“Le rettifiche sulla base di presunzioni semplici di cui al D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, art. 39, comma 1, lett. d), secondo periodo ed al D.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633, art. 54, comma 2, ultimo periodo, non possono essere effettuate nei confronti dei contribuenti che dichiarino, anche per effetto dell’adeguamento, ricavi o compensi pari o superiori al livello della congruità, ai fini dell’applicazione degli studi di settore di cui al D.L. 30 agosto 1993, n. 331, art. 62 – bis, convertito, con modificazioni, dalla L. 29 ottobre 1993, n. 427, tenuto altresì conto dei valori di coerenza risultanti dagli specifici indicatori, di cui alla presente legge, art. 10 – bis, comma 2, qualora l’ammontare delle attività non dichiarate, con un massimo di 50.000 Euro, sia pari o inferiore al 40 per cento dei ricavi o compensi dichiarati. Ai fini dell’applicazione della presente disposizione, per attività, ricavi o compensi si intendono quelli indicati al comma 4, lett. a).
In caso di rettifica, nella motivazione dell’atto devono essere evidenziate le ragioni che inducono l’ufficio a disattendere le risultanze degli studi di settore in quanto inadeguate a stimare correttamente il volume o di ricavi o compensi potenzialmente ascrivibili al contribuente. La presente disposizione si applica a condizione che non siano irrogabili le sanzioni di cui al D.Lgs. 18 dicembre 1997, n. 471, art. 1, comma 2 – bis, art. 5, comma 4 – bis, nonchè al D.Lgs. 15 dicembre 1997, n. 446, art. 32, comma 2 – bis (…)”.
Lamenta il ricorrente che l’avviso di accertamento impugnato (della cui motivazione il ricorso riporta alcuni stralci, affermando che, peraltro, gli stessi riproducono le uniche ragioni poste a fondamento dell’atto impositivo; l’Agenzia controricorrente, a tale riguardo, non ha contestato la completezza di siffatta riproduzione ai fini della decisione della questione che qui occupa) non ha enunciato le specifiche ragioni per cui i ricavi dichiarati, pur conformi agli studi di settore applicabili al contribuente, non sono stati ritenuti adeguati all’attività svolta.
Tale eccezione, per quanto proposta in primo grado ed in appello, secondo il ricorrente non era stata esaminata nè dalla CTP nè, in particolare, dalla CTR; di qui le doglianze illustrate nel primo motivo di ricorso.
3.2. Contrariamente a quanto sostenuto dal ricorrente, dalla lettura dell’impugnata sentenza risulta che la CTR ha puntualmente dato atto nella parte dedicata alla ricostruzione dei fatti processuali che il ricorrente aveva eccepito avanti alla CTP “la carenza di motivazione per violazione della L. n. 146 del 1998, art. 10, comma 4 bis, in quanto, essendosi adeguato agli studi di settore, l’ufficio avrebbe dovuto indicare nell’atto di accertamento le ragioni che l’avevano indotto a disattendere tali risultanze”; aggiungendo, altresì, che il contribuente aveva reiterato nel giudizio di appello “le eccezioni già sollevate col ricorso introduttivo”. Ne consegue che la Commissione regionale ha chiaramente considerato l’esistenza di tale eccezione e, mediante l’adozione di un iter logico – argomentativo che risulta oggettivamente incompatibile con l’accoglimento della stessa, imperniato sul richiamo degli elementi sopra evidenziati che, secondo la CTR, giustificavano l’accertamento analitico – induttivo (ossia l’utilizzo improprio del conto cassa, il mancato rinvenimento di fatture per l’acquisto di beni indispensabili per lo svolgimento dell’attività di ristorazione, nonchè gli elementi che supportano la ricostruzione dei ricavi sulla base dei quantitativi di materie prime occorrenti per confezionare pizze e piatti di pasta), ha mostrato di averla implicitamente, ma non meno chiaramente, rigettata.
Ne consegue che, secondo il consolidato orientamento di legittimità che il Collegio condivide, non può ricorrere il vizio di omessa pronuncia, nonostante la mancata decisione su un punto specifico, quando la decisione adottata comporti una statuizione implicita di rigetto sul medesimo (Sez. 5, n. 29191 del 06/12/2017, Rv. 646290 – 01). Invero, ad integrare gli estremi del vizio di omessa pronuncia non basta la mancanza di un’espressa statuizione del giudice, ma è necessario che sia stato completamente omesso il provvedimento che si palesa indispensabile alla soluzione del caso concreto: ciò non si verifica quando la decisione adottata comporti la reiezione della pretesa fatta valere dalla parte, anche se manchi in proposito una specifica argomentazione, dovendo ravvisarsi una statuizione implicita di rigetto quando la pretesa avanzata col capo di domanda non espressamente esaminato risulti incompatibile con l’impostazione logico-giuridica della pronuncia (Sez. 1, n. 24155 del 13/10/2017, Rv. 645538 – 01).
Tanto basta, dunque, per ritenere infondato il primo motivo di ricorso.
3.3. Per completezza argomentativa, va, altresì, rilevato che la decisione impugnata neppure potrebbe essere censurata sotto il differente profilo, pur non espressamente evocato, della mancanza di motivazione su questione di diritto e non di fatto, in quanto da ritenersi irrilevante ai fini della cassazione della sentenza qualora il giudice del merito sia comunque pervenuto ad un’esatta soluzione del problema giuridico sottoposto al suo esame. In tal caso, la Corte di cassazione, in ragione della funzione nomofilattica ad essa affidata dall’ordinamento, nonchè dei principi di economia processuale e di ragionevole durata del processo, di cui all’art. 111 Cost., comma 2, ha il potere, in una lettura costituzionalmente orientata dell’art. 384 c.p.c., di correggere la motivazione anche a fronte di un “error in procedendo”, quale la motivazione omessa, mediante l’enunciazione delle ragioni che giustificano in diritto la decisione assunta, sempre che si tratti di questione che non richieda ulteriori accertamenti in fatto (Sez. U, n. 2731 del 02/02/2017).
4. Anche a tale profilo, pertanto, si estende il rilievo della erroneità in diritto della eccezione proposta dal ricorrente avanti al giudice di appello, che determina l’insussistenza del vizio di violazione di legge contestato alla decisione impugnata con il secondo motivo di ricorso.
4.1. Va, invero, considerato che la L. 27 dicembre 2006, n. 296, ha disposto, con l’art. 1, comma 18, che la disposizione di cui alla L. n. 146 del 1998, art. 10, comma 4 – bis, ha effetto soltanto a decorrere dal periodo d’imposta in corso alla data del 1 gennaio 2007; in tal senso, deve rimarcarsi come la scelta del legislatore di fissare tale dies a quo per l’operatività della nuova disposizione manifestamente non contrasti con l’art. 3 Cost., come pure adombrato dal ricorrente, atteso che rientra nella discrezionalità del legislatore stabilire, rispetto a tutti i destinatari che versino in una certa situazione, la decorrenza della data di applicazione di una nuova disposizione di legge ed anche differirne l’entrata in vigore per esigenze di ordine generale, senza che ciò possa rappresentare un esercizio di discrezionalità legislativa distorto o arbitrario, così da confliggere in modo manifesto con il canone della ragionevolezza (v. Sez. 1, n. 267 del 10/01/2007, Rv. 595028 – 01).
4.2. In tale prospettiva, con riguardo ad una fattispecie avente ad oggetto, come quella in esame, un accertamento relativo ad annualità precedente al 2007, questa Corte (Sez. 5 n. 32104 del 14.11.2018) ha espressamente affermato che la norma in esame (L. n. 296 del 2006, art. 1, comma 17, che ha introdotto la L. n. 146 del 1998, art. 10, comma 4 bis), “è vigente a decorrere dal 1 gennaio 2007 e non può applicarsi retroattivamente all’anno di imposta 2005, oggetto della presente controversia”. (cfr., altresì, Sez. 5, n. 19803 del 30.1.2017).
Da quanto osservato, discende l’infondatezza del motivo di ricorso rubricato quale violazione dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3.
5. Con il terzo motivo di gravame, il ricorrente deduce promiscuamente la violazione e falsa applicazione degli artt. 2697,2727 e 2729 c.c., D.P.R. n. 600 del 1973, art. 39, comma 1, lett. d), in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3; la violazione degli artt. 112 e 132 c.p.c. in relazione all’art. 360 cod. cit., comma 1, n. 4; infine, il vizio di omessa o insufficiente motivazione ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5.
5.1. In particolare, vengono specificamente formulati i seguenti rilievi censori:
a) l’affermazione circa la legittimità dell’accertamento in quanto fondato – fra l’altro – sull’inattendibilità delle scritture contabili per utilizzo improprio del conto cassa, “tale da lasciar presumere l’omessa fatturazione di operazioni attive”, violerebbe il principio di corrispondenza fra chiesto e pronunciato di cui all’art. 112 c.p.c., in quanto la CTR avrebbe affermato la sussistenza di un’ipotesi di omessa fatturazione di operazioni attive non dedotta nè contestata dall’Ufficio, il quale si era limitato a supporre che il consistente apporto di liquidità da parte dell’imprenditore avesse il fine di mascherare un saldo negativo di cassa;
b) la medesima affermazione sarebbe in contrasto con gli artt. 2727 e 2729 c.c. ed il D.P.R. n. 600 del 1973, art. 39 (nonchè D.P.R. n. 633 del 1972, art. 54), facendo assurgere ad elemento presuntivo un fatto dal quale non potrebbe evincersi l’esistenza di attività non dichiarate o l’inesistenza di passività dichiarate, ma un semplice apporto di liquidità; analogamente, anche il mancato rinvenimento di fatture di acquisto per beni indispensabili per l’attività di ristorazione farebbe al più supporre l’esistenza di passività non dichiarate e non certo l’Inesistenza di passività dichiarate o l’esistenza di attività non dichiarate, come richiedono le norme codicistiche e le correlate disposizioni in tema di accertamento analitico induttivo;
c) inoltre, la ricostruzione basata sulla quantità di materie prime (pasta e farina) utilizzata, tenendo conto dell’occorrente per confezionare i singoli piatti non spiegherebbe quale sia la prova fornita dall’ufficio circa i quantitativi reali di materie prime effettivamente occorrenti per ciascuna porzione, con violazione delle medesime norme di cui sopra e vizio di motivazione (nell’accertamento, per come riportato nel motivo, l’Ufficio era partito dalla ricostruzione del numero dei coperti serviti, procedendo alla determinazione delle porzioni ritraibili dalla materia prima, dividendo i quantitativi di pasta e riso e farina che dalle scritture risultavano consumate nell’anno per i grammi di pasta – secca o fresca -, riso o farina ritenuti necessari per una porzione di prodotto finito; inoltre non risultava contabilizzato alcun acquisto di trofie o gnocchi, pure nel menù).
5.2. Il motivo è, nel suo complesso, infondato.
Va, in primo luogo, ribadito il costante orientamento di questa Corte secondo cui, in tema di accertamento induttivo del reddito d’impresa ai fini ii.dd. ed Iva, “ai sensi del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 39, e del D.P.R. n. 633 del 1972, art. 54, la sussistenza di un saldo negativo di cassa, implicando che le voci di spesa sono di entità superiore a quella degli introiti registrati, oltre a costituire un’anomalia contabile, fa presumere l’esistenza di ricavi non contabilizzati in misura almeno pari al disavanzo” (Sez. 5, n. 25289 del 25/10/2017, Rv. 645982 – 01; Sez. 5, n. 27585 del 20/11/2008, Rv. 605673 – 01; Sez. 5, n. 656 del 15/01/2014, Rv. 629326 – 01).
5.3. In tale ottica, del tutto destituita di fondamento è, innanzitutto, la censura di violazione del principio di corrispondenza fra chiesto e pronunciato di cui all’art. 112 c.p.c., posto che la CTR ha esattamente tratto dalla gestione del conto cassa, proprio in virtù dell’anomalo versamento della somma di Euro 40.000,00, in quanto teso a coprire un saldo di cassa in realtà negativo, elementi indiziari atti ad avvalorare la sussistenza di un’ipotesi di omessa fatturazione di operazioni attive che, lungi dal rappresentare un elemento eccentrico rispetto alla “res iudicanda”, rimanda all’esistenza di ricavi non dichiarati precisamente contestata dall’Ufficio. 5.4. Parimenti infondata è la censura relativa alla violazione degli artt. 2697,2727,2729 c.c., del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 39, comma 1, lett. d).
Al riguardo, va premesso che, in materia di prova presuntiva, compete a questa Corte, nell’esercizio della funzione nomofilattica, il controllo che i principi contenuti negli artt. 2697,2727 e 2729 c.c. siano applicati alla fattispecie concreta al fine della sua ascrivibilità a quella astratta.
In particolare, in tema di presunzioni, “qualora il giudice di merito sussuma erroneamente sotto i tre caratteri identificativi della presunzione (gravità, precisione e concordanza) fatti concreti che non sono invece rispondenti a quei requisiti, il relativo ragionamento è censurabile in base all’art. 360 c.p.c., n. 3 (e non già alla stregua dello stesso art. 360, n. 5), competendo alla Corte di cassazione, nell’esercizio della funzione di nomofilachia, controllare se la norma dell’art. 2729 c.c., oltre ad essere applicata esattamente a livello di proclamazione astratta, lo sia stata anche sotto il profilo dell’applicazione a fattispecie concrete che effettivamente risultino ascrivibili alla fattispecie astratta” (Sez. 3, n. 19485 del 04/08/2017, Rv. 645496 – 02).
In tal senso, i giudici di merito hanno correttamente valutato la ricorrenza dei requisiti enucleabili dagli artt. 2727 e 2729 c.c. nel qualificare ai sensi delle predette norme gli elementi di fatto acquisiti (la cui ricostruzione in quanto tale, sulla base delle risultanze di causa, appartiene al merito e non è censurabile in questa sede) quali legittime fonti del ragionamento presuntivo, rispettando, parimenti, il criterio legale relativo al riparto dell’onere della prova – essendosi correttamente ritenuto che, a fronte di un compendio indiziario dotato dei prescritti requisiti normativi, incombesse sul contribuente l’onere di provare che le circostanze su cui si fondavano le presunzioni non corrispondessero alla realtà -, per tale via giungendo correttamente ad affermare la sussistenza dei presupposti per l’accertamento analitico-induttivo alla stregua delle norme tributarie sopra richiamate.
Tanto deve dirsi, in particolare, non soltanto con riferimento alla obiettiva valenza indiziaria della gestione del conto cassa, rilevante nei termini illustrati, ma anche in relazione al mancato rinvenimento di fatture di acquisto per beni indispensabili per l’attività di ristorazione, posto che tale circostanza rimanda, secondo un razionale e riconoscibile criterio logico – accertativo, non soltanto alla mancata documentazione di spese, ma, altresì, alla mancata documentazione dei ricavi ottenuti impiegando le materie prime acquistate senza fattura per la preparazione e somministrazione di vivande verso corrispettivi superiori ai costi e, per tale via, alla mancata evidenziazione di elementi positivi di reddito.
5.5. Quanto, infine, alla censura sunteggiata sub c) ed attinente alle concrete modalità di ricostruzione della materia imponibile da recuperare a tassazione sulla base della quantità di materie prime (pasta e farina) utilizzate, tenendo conto dell’occorrente per confezionare i singoli piatti, occorre ribadire il consolidato orientamento di questa Corte, secondo il quale “l’accertamento con metodo analitico – induttivo, con il quale l’Ufficio finanziario procede alla rettifica di singoli componenti reddituali, ancorchè di rilevante importo, è consentito, ai sensi del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 39, comma 1, lett. d), pure in presenza di contabilità formalmente tenuta, giacchè la disposizione presuppone, appunto, scritture regolarmente tenute e, tuttavia, contestabili in forza di valutazioni condotte sulla base di presunzioni gravi, precise e concordanti che facciano seriamente dubitare della completezza e fedeltà della contabilità esaminata. (Nella specie, la S.C. ha ritenuto corretto l’accertamento effettuato dall’Ufficio nei confronti di impresa operante nel settore della ristorazione, accertamento che aveva desunto il numero di piatti preparati dalla quantità delle materie prime utilizzate, così come risultanti in contabilità e tenuto conto delle normali dispersioni, ed aveva, quindi, proceduto alla determinazione dei relativi ricavi sulla base di un prezzo medio definito a campione)” (Sez. 5, n. 20857 del 05/10/2007, Rv. 601158 – 01).
5.6. In tale ottica, va aggiunto che, rispetto a tale profilo motivazionale, risulta errata, già sul piano astratto, la contestazione del vizio di violazione e falsa applicazione di norme di diritto ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, posto che esso consiste nella deduzione di una erronea ricognizione, da parte del provvedimento impugnato, della fattispecie astratta recata da una norma di legge e quindi implica necessariamente un problema interpretativo (o applicativo) della stessa, mentre l’allegazione di una erronea e carente ricognizione della fattispecie concreta a mezzo delle risultanze di causa è esterna all’esatta interpretazione della norma di legge e inerisce alla tipica valutazione del giudice di merito, la cui censura è possibile, in sede di legittimità, sotto l’aspetto del vizio di motivazione e nei rigorosi limiti in cui questo è prospettabile; il discrimine tra l’una e l’altra ipotesi è segnato, in modo evidente, dal fatto che solo quest’ultima censura, e non anche la prima, è mediata dalla contestata valutazione delle risultanze di causa (da ultimo, Sez. 1, n. 24155 del 13/10/2017, Rv. 645538 – 03; Sez. 6 – 2, n. 24054 del 12/10/2017, Rv. 646811 – 01; Sez. 5, n. 26110 del 30/12/2015; Rv. 638171 01).
Tale è il caso di specie, ove si lamenta in modo palese la insufficiente valutazione delle risultanze di causa da parte della CTR e la mancata considerazione della ricostruzione alternativa fornita dalla parte, fondata su una ritenuta diversa quantità di pasta o riso o farina necessaria per ciascuna porzione di prodotto finito e sul rilievo che la farina era utilizzata anche per la produzione di pasta fresca e pane, con conseguente riduzione del quantitativo utilizzabile per la preparazione di pizze.
Nella specie, peraltro, il vizio non si presta neppure ad essere inquadrato, come pure propone il ricorrente, nell’art. 360 c.p.c., n. 5, perchè deve trovare applicazione ratione temporis l’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, come modificato dal D.L. 22 giugno 2012, n. 83, convertito con modificazioni dalla L. 7 agosto 2012, n. 134. Secondo il consolidato orientamento dr questa Corte, il nuovo testo dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, introduce nell’ordinamento un vizio specifico denunciabile per cassazione, relativo all’omesso esame di un fatto storico, principale o secondario, la cui esistenza risulti dal testo della sentenza o dagli atti processuali, che abbia costituito oggetto di discussione tra le parti e abbia carattere decisivo (vale a dire che, se esaminato, avrebbe determinato un esito diverso della controversia); per converso, il semplice mancato o carente esame di elementi istruttori non integra, di per sè, il vizio di omesso esame di un fatto decisivo qualora il fatto storico, rilevante in causa, sia stato comunque preso in considerazione dal giudice, ancorchè la sentenza non abbia dato conto di tutte le risultanze probatorie (cfr. Sez. 2, n. 27415 del 29/10/2018 Rv. 651028 – 01; Sez. U, n. 8053 del 07/04/2014 Rv. 629831 – 01).
In tale quadro ricostruttivo, la CTR ha mostrato di avere bensì considerato la prospettazione alternativa offerta dal ricorrente e di averne escluso la fondatezza (“nè convince la ricostruzione dei ricavi effettuata dal contribuente che resta priva di qualsiasi elemento probatorio”) nel concludere per la piena attendibilità dell’accertamento dell’Ufficio, che, muovendo dalla ricostruzione del numero dei coperti serviti, aveva proceduto alla puntuale determinazionè delle porzioni ritraibili dalla materia prima, dividendo i quantitativi di pasta e riso e farina che dalle scritture risultavano consumate nell’anno per i grammi di pasta, riso o farina ritenuti necessari per una porzione di prodotto finito e tenendo, altresì, conto che non risultava contabilizzato alcun acquisto di alcune tipologie di pasta pur presenti nel menù.
Non resta che concludere che, nella specie, non ricorre un’ipotesi di omesso esame di “fatti” storico-obiettivi aventi portata decisiva, e che ciò che, in realtà, si contesta è l’apprezzamento di merito svolto dalla CTR in ordine alla valenza dimostrativa delle prove presuntive fornite dall’ente impositore, come tale non sindacabile in sede di legittimità.
6. Il ricorso deve essere, conclusivamente, rigettato. Segue la condanna del ricorrente al pagamento delle spese del giudizio in favore dell’Agenzia delle entrate, che si liquidano in Euro 3.500,00 oltre spese prenotate a debito.
Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, il Collegio dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1 – bis.
P.Q.M.
la Corte rigetta il ricorso. Condanna del ricorrente al pagamento delle spese del giudizio in favore dell’Agenzia delle entrate, che si liquidano in Euro 3.500,00 oltre spese prenotate a debito.
Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1 – bis.
Così deciso in Roma, il 9 aprile 2019.
Depositato in Cancelleria il 25 settembre 2019
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