Corte di Cassazione, sez. VI Civile, Ordinanza n.23911 del 25/09/2019

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LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SESTA CIVILE

SOTTOSEZIONE 3

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. SCODITTI Enrico – Presidente –

Dott. GRAZIOSI Chiara – Consigliere –

Dott. SCRIMA Antonietta – rel. Consigliere –

Dott. CIRILLO Francesco Maria – Consigliere –

Dott. VINCENTI Enzo – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 10229-2018 proposto da:

G.L., elettivamente domiciliato in ROMA, VIALE DELLE MILIZIE 106, presso lo studio dell’avvocato FRANCESCO FALVO D’URSO, che lo rappresenta e difende unitamente agli avvocati STEFANIA FALVO D’URSO, LUIGI FALVO D’URSO;

– ricorrente –

contro

GROUPAMA ASSICURAZIONI SPA, in persona del procuratore pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, VIA ANTONIO DIONISI 73, presso lo studio dell’avvocato MARA MANDRE’, che la rappresenta e difende;

– controricorrente –

contro

M.S.;

– intimato –

avverso la sentenza n. 6008/2017 della CORTE D’APPELLO di ROMA, depositata il 27/09/2017;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio non partecipata del 30/05/2019 dal Consigliere Relatore Dott. SCRIMA ANTONIETTA.

FATTI DI CAUSA

G.L. propose appello avverso la sentenza n. 12393/2015, con la quale il Tribunale di Roma aveva accolto parzialmente la domanda di risarcimento dei danni proposta dal predetto, proprietario e conducente del motoveicolo Honda tg. *****, nei confronti di M.S., proprietario e conducente del ciclomotore Neos tg. ***** (targa così riportata in ricorso, p. 6, e in controricorso, p. 2, ma indicata come ***** nella sentenza di appello, p. 2), e della società assicuratrice Groupama Assicurazioni S.p.a., già Nuova Tirrena S.p.a., attribuendo la responsabilità del sinistro stradale avvenuto a Roma, il *****, nella misura del 30% al convenuto e nella misura del 70% allo stesso attore, in favore del quale aveva liquidato l’importo di Euro 44.365,00, oltre lucro cessante e interessi dalla pubblicazione della sentenza, a titolo di risarcimento del danno per le lesioni fisiche riportate.

L’appellante contestò in particolare: a) la ripartizione di responsabilità secondo quote, a suo avviso, sperequate, in favore dell’appellato; la mancata adozione delle tabelle di Milano; b) il riconosciuto concorso di colpa per il non corretto allacciamento del casco; c) la riduttiva determinazione della percentuale di invalidità permanente (32% invece di quella richiesta del 50%), senza alcuna considerazione del danno da cinestesi lavorativa.

Soltanto la società appellata resistette all’appello.

La Corte di appello di Roma, con sentenza n. 6008/2017, pubblicata il 27 settembre 2017, rigettò il gravame, condannò l’appellante alle spese di quel grado e diede atto, ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1-quater, della sussistenza dei presupposti per il pagamento, da parte dell’appellante, per il versamento di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per l’impugnazione proposta, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis.

Avverso la sentenza della Corte di merito G.L. ha proposto ricorso per cassazione basato su tre motivi, cui ha resistito Groupama Assicurazione S.p.a. con controricorso.

L’intimato non ha svolto attività difensiva in questa sede.

RAGIONI DELLA DECISIONE

1. Con il primo motivo si lamenta violazione o falsa applicazione degli artt. 2043 e 2054 c.c. nonchè degli artt. 40 e 41 c.p. in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3.

Sostiene il ricorrente che il ragionamento seguito dalla Corte di merito per giungere alle sue conclusioni non sarebbe “supportato da logica motivazione e gli elementi fattuali raccolti nel giudizio non sarebbero stati valutati al fine di indagare il nesso di causalità tra tali elementi e la determinazione del sinistro”.

Il G. sostiene che il M. avrebbe violato l’art. 154 C.d.S., che la Corte di merito non avrebbe “esegu(ito)un’indagine su nesso di causalità” e in particolare non avrebbe verificato che “se il ciclomotore non si fosse immesso improvvisamente nella circolazione, senza dare la precedenza, il sinistro non si sarebbe verificato” nè avrebbe considerato l’instabilità del ciclomotore, determinata dalla presenza del conducente e di due trasportati, e deduce che la violazione del limite di velocità da parte del ricorrente non comporterebbe automaticamente la determinazione del sinistro.

Ad avviso del ricorrente, avendo la Corte territoriale omesso di tener conto dell’immissione repentina da parte del conducente del ciclomotore senza verificare preventivamente lo stato della strada e senza concedere l’obbligatoria precedenza, il che avrebbe determinato il sinistro, la violazione di limiti di velocità da parte del G. e il non corretto uso del casco (maldestramente allacciato) avrebbero potuto semmai concorrere in limitata misura percentuale, “capovolgendo le attribuzioni di responsabilità”.

1.1. Il motivo è inammissibile, in quanto tende ad una rivalutazione del merito, non consentita in questa sede.

Questa Corte ha più volte affermato il principio, che va ribadito in questa sede, secondo cui, in tema di sinistri derivanti dalla circolazione stradale, l’apprezzamento del giudice di merito relativo alla ricostruzione della dinamica dell’incidente, all’accertamento della condotta dei conducenti dei veicoli, alla sussistenza o meno della colpa dei soggetti coinvolti e alla loro eventuale graduazione, al pari dell’accertamento dell’esistenza o dell’esclusione del rapporto di causalità tra i comportamenti dei singoli soggetti e l’evento dannoso, si concreta in un giudizio di mero fatto, che resta sottratto al sindacato di legittimità, qualora il ragionamento posto a base delle conclusioni sia caratterizzato – come nella specie – da completezza, correttezza e coerenza dal punto di vista logico-giuridico (Cass. 25/01/2012, n. 1028; Cass., ord., 5/06/2018 n. 14358).

2. Con il secondo motivo, lamentando violazione o falsa applicazione degli artt. 115 e 116 c.p.c. e dell’art. 2729 c.c. in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, il ricorrente lamenta che la Corte di merito, nel rigettare le sue lagnanze in relazione al non corretto uso del casco, ritenuto dal Tribunale, non si sarebbe avvalsa correttamente dei criteri di cui agli artt. 115 e 116 c.p.c., “atteso che la deduzione che il casco fosse allacciato in modo non corretto non viene motivata in virtù dell’acquisizione di prova sul punto, nè sono indicate presunzioni gravi, precise e concordanti che conducono all’affermazione del mancato allaccio del casco”, nè la medesima Corte territoriale avrebbe preso in considerazione la possibilità che “il casco si sia sfilato a seguito dell’impatto del G. con i cassonetti”.

2.1. Il mezzo all’esame è inammissibile con riferimento alle doglianze relative all’art. 116 c.p.c. veicolate con l’art. 360 c.p.c., n. 3 (Cass. 30/11/2016, n. 24434 e Cass. 17/06/2013, n. 15107); si evidenzia, comunque, che, la violazione dell’art. 116 c.p.c. (norma che sancisce il principio della libera valutazione delle prove, salva diversa previsione legale) è idonea ad integrare il vizio di cui all’art. 360 c.p.c., n. 4, nella specie neppure invocato, solo quando il giudice di merito disattenda tale principio in assenza di una deroga normativamente prevista, ovvero, all’opposto, valuti secondo prudente apprezzamento una prova o risultanza probatoria soggetta ad un diverso regime (Cass. 10/06/2016, n. 11892).

Inoltre, la violazione dell’art. 115 c.p.c. può essere dedotta come vizio di legittimità solo denunciando che il giudice ha dichiarato espressamente di non dover osservare la regola contenuta nella norma, ovvero ha giudicato sulla base di prove non introdotte dalle parti, ma disposte di sua iniziativa fuori dei poteri officiosi riconosciutigli, e non anche che il medesimo, nel valutare le prove proposte dalle parti, ha attribuito maggior forza di convincimento ad alcune piuttosto che ad altre (Cass., 10/06/2016, n. 11892; Cass., sez. un., 5/08/2016, n. 16598; Cass., ord., 28/02/2018, n. 4699), come, in sostanza, lamentato nel caso all’esame.

In ordine poi alla dedotta violazione dell’art. 2729 c.c., si osserva che la denunciata mancata applicazione di un ragionamento presuntivo che si sarebbe potuto e dovuto fare, ove il giudice di merito non abbia motivato alcunchè al riguardo, non è deducibile come vizio di violazione di norma di diritto, bensì solo ai sensi e nei limiti dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, cioè come omesso esame di un fatto secondario (dedotto come giustificativo dell’inferenza di un fatto ignoto principale), purchè decisivo (Cass., ord., 6/07/2018, n. 17720; v. anche Cass., sez. un., 24/01/2018, n. 1785).

Le censure, così come formulate con il mezzo all’esame, risultano, quindi, veicolate ed articolate non in conformità dei principi sopra riportati e tendono, comunque, in realtà, ad una rivalutazione del merito, non consentita in questa sede, sicchè il motivo in parola è del tutto inammissibile.

3. Con il terzo motivo si lamenta “Violazione o falsa applicazione artt. 1223,1226,2054,2056 e 2059 c.c. in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3”.

Il ricorrente censura la sentenza impugnata nella parte in cui la Corte territoriale ha disatteso le sue doglianze riferite alla sentenza di primo grado e relative alla mancata applicazione delle tabelle di Milano e comunque al mancato riconoscimento del danno estetico indicato dal C.T.U. nella misura del 10%.

Quanto alla prima questione, deduce il G. che la Corte di merito ha motivato il rigetto della richiesta di applicazione delle predette tabelle sul rilievo che l’attore non aveva proposto alcun calcolo alternativo senza considerare che il risarcimento del danno, per essere ristorativo ed equo, deve parametrarsi al caso specifico e che, nella specie, il danno estetico, in relazione alle cicatrici residuate, era rilevante tanto che lo stesso ausiliare del giudice lo aveva quantificato nella percentuale sopra riferita.

Sostiene al riguardo il ricorrente che, per l’applicazione delle tabelle in parola, non occorreva la produzione di un calcolo alternativo e che, al fine di garantire un’adeguata valutazione delle circostanze del caso concreto e l’uniformità di giudizio a fronte di casi analoghi, tra i vari criteri in astratto adottabili, doveva ritenersi preferibile il riferimento ai criteri di liquidazione di cui alle predette tabelle, alle quali la giurisprudenza di legittimità ha riconosciuto valenza, in linea generale, di conformità della valutazione equitativa del danno non patrimoniale alle disposizioni di cui agli artt. 1226 e 2056 c.c..

Il G. deduce, altresì, che la Corte territoriale non avrebbe preso in considerazione la doglianza relativa alla personalizzazione del danno con riferimento al danno estetico, nè avrebbe dato conto della mancata liquidazione di tale danno, riconosciuto e quantificato dal C.T.U..

3.1. Il motivo va rigettato.

3.2. Nel ritenere generica la doglianza con la quale, con l’atto di appello, si invocava una maggiore percentuale di danno biologico, perchè limitata alle critiche espresse in primo grado ed alle quali aveva risposto il C.T.U. (v. sentenza impugnata in questa sede, p. 4), il quale, come riportato a p. 31 del controricorso, aveva specificato che l’invalidità permanente era valutabile complessivamente, e quindi comprensiva del pregiudizio del danno estetico, nella misura del 32% (come riconosciuto dal Tribunale, v. p. 2 della decisione della Corte di merito), la Corte territoriale non solo risulta aver preso in considerazione la doglianza in parola ma l’ha chiaramente esaminata, con conseguente infondatezza del motivo all’esame con riferimento a tale profilo.

3.2.1. Inoltre, quanto dalla stessa Corte affermato in relazione a tale doglianza (genericità della censura in quanto “limitata alle critiche espresse in primo grado ed alle quali ha risposto il ctu”) non risulta specificamente censurato in questa sede, con conseguente inammissibilità del mezzo all’esame, sotto tale profilo.

3.3. Va altresì evidenziato che non risulta censurata dal G. l’affermazione della Corte di merito circa la mai richiesta applicazione delle tabelle di Milano in primo grado nè è validamente censurata la sentenza impugnata quanto alla ritenuta genericità del motivo di appello proposto al riguardo, “non contenendo neppure il calcolo alternativo dell’importo del quale si chiede(va) alla Corte (territoriale) di fare applicazione” atteso che, comunque, l’appellante avrebbe dovuto rappresentare l’interesse alla doglianza in questione, per aver ricevuto un danno dalla mancata applicazione di dette tabelle (Cass., ord., 17/09/2013, n. 21229; v. anche Cass., ord., 17/01/2018 n. 913).

3.4. Neppure risulta che le tabelle di Milano siano state prodotte nel giudizio di merito dal ricorrente o che lo stesso ne abbia allegato il contenuto (Cass. 21/11/2017, n. 27562).

3.5. Pertanto, il motivo in questione è inammissibile anche sotto i due profili da ultimo esaminati.

3.6. Si osserva, infine, che, in ogni caso, le doglianze con cui si lamenta che i Giudici del merito non avrebbero dato conto della mancata liquidazione del danno estetico avrebbero dovuto essere veicolate ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, sicchè le stesse, così come proposte, risultano pure inammissibili.

4. Il ricorso va, pertanto, rigettato.

5. Le spese seguono la soccombenza e si liquidano come in dispositivo tra le parti costituite, mentre non vi è luogo a provvedere per dette spese nei confronti dell’intimato, non avendo lo stesso svolto attività difensiva in questa sede.

6. Va dato atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1-quater, nel testo introdotto dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello dovuto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento, in favore della controricorrente, delle spese del presente giudizio di legittimità, che liquida in Euro 3.500,00 per compensi, oltre alle spese forfetarie nella misura del 15%, agli esborsi liquidati in Euro 200,00 ed agli accessori di legge; ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1-quater, nel testo introdotto dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello dovuto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Sezione Sesta Civile – 3 della Corte Suprema di Cassazione, il 30 maggio 2019.

Depositato in Cancelleria il 25 settembre 2019

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