LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE TERZA CIVILE
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. AMENDOLA Adelaide – Presidente –
Dott. GRAZIOSI Chiara – Consigliere –
Dott. IANNELLO Emilio – Consigliere –
Dott. DELL’UTRI Marco – Consigliere –
Dott. GORGONI Marilena – rel. Consigliere –
ha pronunciato la seguente:
SENTENZA
sul ricorso 3330-2018 proposto da:
FIMM S.R.L. in persona del legale rappresentante pro tempore ing.
F.G., elettivamente domiciliato in ROMA, VIALE CARLO FELICE, 63, presso lo studio dell’avvocato BARBARA SERMARINI, rappresentato e difeso dall’avvocato NADIR PLASENZOTTI;
– ricorrente –
e contro
MINISTERO DELL’INTERNO *****;
– intimato –
avverso la sentenza n. 275/2017 della CORTE D’APPELLO di TRIESTE, depositata il 29/06/2017;
udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 21/06/2019 dal Consigliere Dott. MARILENA GORGONI;
udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. PEPE ALESSANDRO il rigetto del ricorso;
udito l’Avvocato BARBARA SERMARINI per delega orale.
FATTI DI CAUSA
La Società Fimm S.r.L. ricorre, avvalendosi di due motivi, per la cassazione della sentenza n. 160/2017 della Corte d’Appello di Trieste, depositata il 29/06/2017.
Nessuna attività difensiva è svolta dal Ministero dell’Interno.
La società ricorrente espone:
a) di avere concesso in locazione, nel 1997, al Ministero dell’interno l’immobile sito in *****, per la durata di sei anni, poi rinnovati alla prima scadenza per altri sei, e, con altro contratto stipulato anch’esso nel 1997, l’immobile sito in *****, per la durata di sei anni, rinnovati per altri sei alla prima scadenza;
b) di avere comunicato disdetta per finita locazione del primo contratto il 20/05/2010, dopo aver eseguito sull’immobile locato i lavori richiesti dal conduttore per adattarlo alle esigenze del Comando dei carabinieri, e del secondo contratto il 18/03/2009;
c) di avere ricevuto, in data 8/02/2011, dall’Agenzia del Demanio, all’epoca conduttore unico dei rapporti di locazione passiva d’interesse delle Amministrazioni dello Stato, la proposta di stipulare un nuovo contratto di locazione dell’immobile sito in ***** ad un canone che tenesse conto degli interventi eseguiti;
c1) di avere prontamente dichiarato la propria disponibilità a locare l’immobile per un canone non inferiore ad Euro 69.000,00;
c2) di non essere addivenuta alla stipulazione del contratto per l’inerzia della P.A. che, pur ripetutamente sollecitata, aveva mantenuto un comportamento silente fino al 3/10/2013, quando dichiarava di poter stipulare contratti di locazione passiva, per l’anno 2013, solo a condizioni più vantaggiose, come da previsione della L. n. 228 del 2012, art. 1, comma 138;
c3) di avere sollecitato in data 10/01/2014, essendo venuto meno il vincolo del patto di stabilità, una risposta circa la conclusione del contratto di locazione, cui seguiva, in data 20/03/2014 una comunicazione da parte dell’Agenzia del Demanio che rilevava di aver effettuato, già nel 2011, una valutazione della congruità del canone richiesto, reputando congruo il canone di Euro 60.629,04, e che indicava nell’ultima somma versata a titolo di canone, quella di Euro 27.241,38, Iva compresa, la base su cui emettere il nulla osta per la stipulazione di un nuovo contratto di locazione;
d) di avere dato riscontro, il 15/10/2009, alla richiesta della Prefettura di Gorizia del 25/09/2009 di stipulare un nuovo contratto di locazione dell’immobile sito in *****, dichiarandosi disponibile a locare l’immobile per un canone annuo non inferiore a 59.000,00, oltre ad Iva e ad aggiornamento ISTAT;
d1) di non avere ricevuto alcun riscontro da parte della P.A. fino alla comunicazione del 3/03/2014, con cui, richiamando il patto di Stabilità, seppur non più vigente per i contratti di locazione da stipulare nel 2014, quest’ultima indicava nell’ultima somma versata a titolo di canone la base su cui emettere il nulla osta per l’eventuale stipulazione di un nuovo contratto di locazione;
e) di non avere potuto accettare nessuna delle due proposte;
f) di avere ottenuto dal Ministero, che aveva continuato ad utilizzare entrambi gli immobili, per l’occupazione del primo, un’indennità di Euro 134.667,44 e, per l’occupazione del secondo, un’indennità di Euro 260.035,99: indennità determinata nella misura ridotta del 15% in applicazione del D.L. n. 95 del 2012, art. 3, comma 4;
f) di avere esperito, secondo quanto previsto dall’art. 9 dei contratti di locazione, il tentativo di conciliazione presso la Prefettura di Gorizia;
g) di avere ottenuto solo nel giugno 2015, cioè vari mesi dopo l’incontro di conciliazione dell’ottobre 2014 svoltosi presso la Prefettura, una proposta di locazione dell’immobile di ***** per un canone più vantaggioso per la P.A. di quello precedente, pari ad Euro 23.156,29, ed una proposta di locazione per un canone di Euro 36.251,90 per l’immobile di *****;
h) di avere, pertanto, convenuto in giudizio il Ministero dell’Interno per ottenerne la condanna al pagamento dell’indennità di occupazione ex art. 1591 c.c., nella misura piena, con applicazione dell’aggiornamento annuale Istat nella misura contrattualmente prevista, oltre agli interessi legali, nonchè al risarcimento del danno;
i) di avere sottoposto preliminarmente al giudice adito questione di legittimità costituzionale del D.L. n. 95 del 2012, art. 3, commi 1 e 4, convertito in L. n. 135 del 2012 e successive modifiche, per violazione del principio di eguaglianza (art. 3 Cost.), del principio di rispetto della proprietà privata (art. 117 Cost., in relazione all’art. 1 Protocollo addizionale CEDU) e del principio di progressività nel concorso alle spese pubbliche (artt. 2,3 e 53 Cost.).
Il Tribunale di Trieste, con sentenza n. 727/2016, dichiarava manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale, respingeva la domanda di pagamento dell’indennità di occupazione nella misura invocata e rigettava la richiesta risarcitoria in ragione della carenza di prova del danno patito.
La Corte d’Appello, investita del gravame e della questione di legittimità costituzionale dalla odierna ricorrente, con la sentenza oggetto del presente scrutinio di legittimità, dichiarava manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale, riteneva che il privato a fronte della limitazione della spesa pubblica in relazione alle risorse concretamente disponibili, derivante dalla costituzionalizzazione del principio di pareggio del bilancio, avesse facoltà di recedere dal contratto e di chiedere il risarcimento del danno ove l’occupazione proseguisse senza riuscire ad ottenere la liberazione dall’immobile e rigettava la richiesta risarcitoria in mancanza di prova della perdita di chance derivata dall’occupazione pubblica dei beni.
RAGIONI DELLA DECISIONE
1. Con il primo motivo la società ricorrente ripropone l’eccezione “di illegittimità costituzionale della norma applicabile, in ragione dell’erronea valutazione in punto di manifesta infondatezza della questione di legittimità costituzionale: violazione o falsa applicazione di norme di diritto (art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3), con espresso riguardo alle disposizioni di cui all’art. 3 Cost. (principio di uguaglianza); all’art. 117 Cost., comma 1, in relazione all’art. 1 Protocollo addizionale CEDU (limitazioni alla proprietà privata); agli artt. 2,3 e 53 Cost. (principio di progressività nel concorso alle spese pubbliche)”.
Il Tribunale aveva respinto la questione di legittimità costituzionale ritenendo che la decurtazione dell’indennità di occupazione fosse connessa ad una situazione necessariamente transitoria che il locatore avrebbe potuto far cessare con gli strumenti messigli a disposizione dall’ordinamento per ottenere la riconsegna dell’immobile locato. Tale spiegazione, secondo la società ricorrente, aveva assunto a termine di riferimento la situazione di fatto sottesa dalla disposizione sospettata di illegittimità costituzionale e non la disposizione stessa al fine di verificare se essa garantisse ai locatori di beni ad uso privato ed ai locatori di beni ad uso istituzionale un trattamento non diseguale.
La Corte d’Appello, invece, aveva incentrato il proprio ragionamento sul pareggio di bilancio, divenuto un principio costituzionale, che impone la limitazione della spesa pubblica in relazione alle risorse concretamente disponibili e concede a chi ne subisca gli effetti pregiudizievoli una contropartita.
Tale contropartita, nel caso di canone di locazione determinato ex lege in misura ridotta e sostituito automaticamente ai sensi dell’art. 1339 c.c., sarebbe rappresentata, secondo il giudice a quo, dalla facoltà per il locatore di esercitare il recesso altrimenti non riconosciutagli.
Nell’ipotesi per cui è causa, però, il recesso non avrebbe potuto rappresentare una contropartita adeguata, non essendovi più il contratto da cui eventualmente sciogliersi unilateralmente. Secondo la società ricorrente neppure il risarcimento del danno avrebbe potuto rappresentare una appropriata contropartita, perchè il diritto al risarcimento del danno è principio di applicazione generale, già riconosciuto dall’art. 1591 c.c. ad ogni locatore, in caso di occupazione sine titulo di un immobile precedentemente detenuto in locazione, nella misura minima del corrispettivo convenuto per il canone locatizio. Il locatore di immobili ad uso istituzionale subirebbe, invece, una decurtazione economica dell’indennità di occupazione senza contropartita: contropartita che, secondo il giudice delle leggi, dovrebbe essere intrinseca allo (.6 stesso disegno normativo (Corte Cost. 92/2013).
Tanto premesso, posto che la disposizione censurata violerebbe l’art. 3 Cost. (a), l’art. 117 Cost., comma 1, in relazione all’art. 1 Protocollo addizionale CEDU (b); gli artt. 2,3 e 53 Cost. (c), la società ricorrente chiede a questa Collegio di rimettere alla Consulta la questione di legittimità costituzionale del D.L. n. 95 del 2012, art. 3, comma 4, per le ragioni così sintetizzabili:
(a) La decurtazione imposta per legge risulta ragionevole solo se ha efficacia temporale limitata e circoscritta (Corte Cost. n. 310/2013), se non è imposta ad una sola categoria di cittadini (Corte Cost. n. 113/2013; Corte Cost. n. 223/2012), a meno, in quest’ultimo caso, di essere controbilanciata da una misura a favore di chi la subisce, se è sorretta da una causa normativa adeguata (Corte Cost. n. 92/2013) (b) L’art. 1 del Protocollo Addizionale della CEDU stabilisce che ogni persona fisica o giuridica ha diritto al rispetto dei suoi beni, per tali intendendosi non solo i beni effettivamente esistenti, quanto i valori immobiliari ed i crediti (Pressos Compania Naviera S.A. e altre c. Belgio, 20.11.1995), e che nessuno può essere privato della sua proprietà se non per causa di pubblica utilità e alle condizioni previste dalla legge e dai principi generali del diritto internazionale.
Il contenimento della spesa pubblica riveste i caratteri della pubblica utilità, ma i sacrifici da essa imposti devono assumere carattere eccezionale (Corte Cost. n. 245/1997) e devono ispirarsi al principio del giusto equilibrio tra le esigenze dell’interesse generale e la salvaguardia dei diritti di proprietà (Sporrong e Lonnroth c. Svezia, 23/09/1982; Scordino c. Italia, 29/b3/2006).
(c) Nella ricostruzione del ricorrente, la decurtazione dell’indennità di occupazione sarebbe sostanzialmente equiparabile ad una prestazione di natura tributaria, possedendone i caratteri: 1) la decurtazione definitiva a carico del soggetto passivo – la riduzione dell’indennità di occupazione è definitiva perchè a tempo indeterminato -; 2) la mancata modifica di un rapporto sinallagmatico – l’obbligo di corrispondere l’indennità sorge quando il contratto si è risolto, la prestazione è unilaterale -; 3) le risorse derivanti sono destinate a sovvenire le spese pubbliche – la riduzione di quanto dovuto dalla P.A. per la riduzione dell’indennità di occupazione si traduce in un risparmio di spesa -. Per tale ragione essa rappresenterebbe un tributo, per quanto anomalo, imposto senza considerazione per il principio di progressività e con violazione del principio di eguaglianza, perchè discrimina specifici redditi in ragione della loro fonte, benchè legittima.
La questione di legittimità si porrebbe, secondo l’assunto della società ricorrente anche relativamente all’aggiornamento relativo alla variazione degli indici Istat che il D.L. n. 95 del 2012, art. 3, comma 1, escludeva dovesse applicarsi al canone dovuto dalle amministrazioni inserite nel conto economico consolidato della P.A. per gli anni 2012, 2013 e 2014: esclusione successivamente estesa prima all’anno 2015 (D.L. n. 192 del 2014, art. 10, comma 7, convertito in L. n. 11 del 2015), poi all’anno 2016 (D.L. n. 210 del 2015, art. 10, comma 6, convertito in L. n. 21 del 2016) e, quindi, all’anno 2017 (D.L. n. 244 del 2016, art. 13, comma 3).
Posto che l’indennità di occupazione si identifica, ex art. 1591 c.c., con il corrispettivo già pattuito a titolo di canone nonchè con gli accessori e con le eventuali maggiorazioni ISTAT, la perdita del valore reale del diritto di credito imposto solo ad alcuni creditori violerebbe il principio di eguaglianza.
1.1. Va, in primo luogo, ricordato che la legge costituzionale 20/04/2012, n. 1, modificando l’art. 81 Cost., ha imposto vincoli stringenti e puntuali in materia di bilancio, contabilità pubblica e stabilità finanziaria, e, intervenendo sugli artt. 117 e 119, ha fissato le regole in tali materie anche per le Regioni e gli enti locali.
In attuazione di quanto disposto dal nuovo art. 81 Cost., comma 6, la L. 24 dicembre 2012, n. 24310, ha poi specificato il contenuto della legge di bilancio e dettato le nuove regole, estendendo i principi della L. Cost. n. 1 del 2012 all’intero comparto delle Pubbliche Amministrazioni fino a comprendervi anche gli enti non territoriali, in modo da integrare quanto stabilito dal riformulato art. 97 Cost., nello sforzo di contenere la spesa pubblica in coerenza con i vincoli imposti dall’Unione Europea agli Stati membri.
Occorre partire da questa premessa, tenendo conto che la modifica dell’art. 81 Cost. ha avuto un’incidenza significativa sulla tutela dei diritti, anche di quelli sociali definiti generici su cui il legislatore ha ampi margini in ordine alla misura e alla compatibilità della affermazione costituzionale con le condizioni di bilancio, secondo il principio di gradualità, e che alla morsa del pareggio di bilancio, rectius dell’equilibrio di bilancio, sono sottratte solo le incisioni del nucleo irriducibile dei diritti sociali e del contenuto minimo essenziale della tutela dei diritti fondamentali.
La sensibilità alle esigenze di contenimento della spesa pubblica non rappresentano una novità per la Consulta che si era spesa nello sforzo di contemperare la tutela dei diritti con l’osservanza dell’obbligo di copertura delle spese, già sul finire degli anni novanta, quando ad esempio con la pronuncia n. 574/1988, aveva assunto un atteggiamento neutro rispetto alle “valutazioni politico economiche”, con cui il legislatore conciliava le esigenze finanziarie dello Stato con quelle del cittadino chiamato a contribuire ai bisogni della vita collettiva; oppure dichiarava sottratta ad una autonoma verifica di legittimità costituzionale una misura straordinaria (il prelievo fiscale sui depositi bancari) “connotata da modalità eccezionali ed in inserita in un contesto di misure finanziarie di carattere generale” (Corte Cost. 143/1995); enucleava la categoria di diritti finanziariamente condizionati (Corte Cost. n. 455/1990).
Poichè la crisi economica, negli anni, ha incrementato i suoi effetti negativi è inevitabile che siano diventati sempre più frequenti, nella giurisprudenza costituzionale, i richiami alle ragioni del contenimento della spesa pubblica e dell’osservanza dell’obbligo di copertura delle spese (cfr., ad esempio, sent n. 88/2014; n. 10/2015 e n. 70/2015).
Tale premessa è indispensabile per chiarire che nel bilanciamento tra diritti ed esigenze finanziarie non prevalgono i diritti tout court, ma solo il nucleo essenziale dei diritti sociali che non può essere vanificato dal legislatore senza violare la dignità della persona umana: se le esigenze relative all’equilibrio della finanza pubblica assumessero un peso preponderante tanto da comprimere il nucleo essenziale del diritto alla salute connesso all’inviolabile dignità della persona umana, ci si troverebbe di fronte a un esercizio macroscopicamente irragionevole della discrezionalità legislativa (Corte Cost. n. 304/1994): principio ribadito dopo la modifica costituzionale degli artt. 81 e 97 (Corte Cost. n. 222/2013; n. 4/2013; n. 40/2011; n. 432/2005) in ossequio al principio di ragionevolezza.
Ove, dunque, non venga in considerazione la elisione del nucleo fondamentale dei diritti sociali, pur non garantendosi ai principi di economicità il primato assoluto, è innegabile che il legislatore possa intervenire, sacrificando i diritti dei singoli, purchè rispetti certe condizioni.
Una di queste è l’eccezionalità della misura impositiva di un sacrificio.
Come debba essere intesa tale eccezionalità lo chiarisce proprio una delle pronunce della Consulta invocate dalla ricorrente, la n. 310/2013. Essa ne offre una definizione precisa, parametrata in modo assai differente da come pretenderebbe la società Fimm. La Corte costituzionale, rinviando alla direttiva 8 novembre 2011, n. 2011/85/UE (Direttiva del Consiglio relativa ai requisiti per i quadri di bilancio degli Stati membri), per la quale “la maggior parte delle misure finanziarie hanno implicazioni sul bilancio che vanno oltre il ciclo di bilancio annuale” e “Una prospettiva annuale non costituisce pertanto una base adeguata per politiche di bilancio solide” (20 Considerando), ha ritenuto che le misure di contenimento e di razionalizzazione della spesa pubblica, trovanti giustificazione nella situazione di crisi economica, impongono sacrifici che, in ragione delle necessarie attuali prospettive pluriennali del ciclo di bilancio, non possono non interessare periodi, certo definiti, ma di “medio periodo”. Ne consegue che la temporaneità della misura deve essere valutata in un’ottica in non annuale, ma di programmazione pluriennale, che è quella tipica delle politiche di bilancio, sì che la protrazione nel tempo delle stesse non contraddice, in sè, la sussistenza della necessità ed urgenza (Corte Cost. n. 310/2013).
La penalizzazione imposta deve, inoltre, essere sorretta da una causa normativa adeguata che trovi radicamento in “principi, diritti e beni di rilievo costituzionale” (ex multis, Corte Cost. n. 308 del 2013), nell’esigenza di tutela di un interesse pubblico sopravvenuto (Corte Cost. n. 16 del 2017, n. 216/2015 e n. 56/2015) o una “inderogabile esigenza” (Corte Cost. n. 349/1985), che integri il requisito del legittimo interesse pubblico richiesto dalla normativa CEDU ai fini di una legittima ingerenza pubblica nel pacifico godimento dei “beni”.
Il sacrificio richiesto deve essere rispettoso del principio di ragionevolezza (fra le tante, sentenza n. 16 del 2017), inteso, anche, come proporzionalità (sentenze n. 203 e n. 108 del 2016; n. 216 e n. 56 del 2015).
Se si scorrono i repertori della c.d. giurisprudenza della crisi finanziaria ci si avvede che in più occasioni la Consulta ha ritenuto che il contenimento della spesa pubblica integri una causa normativa adeguata e, talvolta – così Corte Cost. n. 89/2018 – ha messo in correlazione la adeguatezza della causa normativa con la ricorrenza di contropartite intrinseche al progetto legislativo che rendano accettabile il sacrificio imposto dall’intervento normativo, in funzione di bilanciamento della posizione delle parti, dimostrando che i principi di efficienza e di economicità non prevalgono necessariamente sugli altri, ma esigono una valutazione calibrata sul caso di specie, nella quale il “fattore crisi” entra, naturalmente, ma non preindirizza la soluzione, giacchè tutti i diritti fondamentali tutelati dalla Costituzione si trovano in rapporto di integrazione reciproca e non è possibile pertanto individuare uno di essi che abbia la prevalenza assoluta sugli altri (…) La Costituzione italiana, come la altre Costituzioni democratiche e pluraliste contemporanee, richiede un continuo e vicendevole bilanciamento tra principi e diritti fondamentali, senza pretese di assolutezza per nessuno di essi (…) Il punto di equilibrio, proprio perchè dinamico e non prefissato in anticipo, deve essere valutato – dal legislatore nella statuizione delle norme e dal giudice delle leggi in sede di controllo – secondo criteri di proporzionalità e di ragionevolezza, tali da non consentire un sacrificio del loro nucleo essenziale (Corte Cost. n. 85/2013; n. 215/1987).
Un altro carattere richiesto è la modestia del sacrificio, indicativa della sua tollerabilità (Corte Cost. n. 178/2015).
Infatti, il giudice delle leggi ammette la possibilità di limitare situazioni soggettive di rango costituzionale in nome di esigenze di contenimento della spesa pubblica, ma si riserva di scrutinare la ponderazione degl(interessi effettuata dal legislatore anche sulla scorta della tollerabilità del sacrificio imposto, sotto il profilo, non solo della durata, ma anche della intensità della limitazione.
Quindi, nell’ottica del “necessario bilanciamento” tra il perseguimento dell’interesse pubblico e il sacrificio voluto gioca un suo ruolo anche la misura della riduzione richiesta, allo scopo di individuare “un ragionevole rapporto di proporzionalità tra i mezzi impiegati e lo scopo perseguito dalle misure restrittive della proprietà e della libera iniziativa economica”: diritti costituzionalmente tutelati, ma soggiacenti ai limiti ed ai sacrifici necessari per indirizzarli e coordinarli a fini sociali (Corte Cost. n. 348/2007 e n. 349/2007).
L’iniziativa economica privata è infatti libera, ma non può svolgersi in contrasto con l’utilità sociale e può anzi essere indirizzata e coordinata a fini sociali (art. 41 Cost.).
Analogamente, la proprietà privata è tutelata dalla legge ma soggiace ai limiti e sacrifici derivanti dall’esigenza di assicurarne la funzione sociale (art. 42 Cost., comma 2).
Con la normativa richiamata, sospettata di illegittimità costituzionale, il legislatore ha posto limiti all’iniziativa economica privata ed alla proprietà privata che, sulla scorta della giurisprudenza richiamata, non appaiono certo irragionevoli, perchè senz’altro giustificati dall’esigenza di contenimento della spesa pubblica, sorta per effetto della nota, generalizzata e gravissima crisi economica verificatasi negli anni recenti, che ha reso indispensabile l’adozione di una serie di provvedimenti finalizzati alla razionalizzazione e alla riduzione della spesa pubblica; tali limiti hanno trovato adeguato bilanciamento nel riconoscimento, in favore dei locatori che subiscono la riduzione del canone, del diritto di recedere dal rapporto – senza la necessità di rispettare un termine di preavviso – in base ad una libera valutazione di convenienza in merito alla conservazione ovvero alla cessazione del contratto alle mutate condizioni economiche.
Tali osservazioni hanno trovato indiretto riconoscimento nella pronuncia n. 64 del 24/03/2016, con cui il Giudice delle leggi si è pronunciato sulla questione di legittimità costituzionale, sollevata dalla Regione Veneto, del D.L. 24 aprile 2014, n. 66, art. 24, comma 4 (Misure urgenti per la competitività e la giustizia sociale), convertito, con modificazioni, dalla L. 23 giugno 2014, n. 89, art. l, comma 1, in relazione agli artt. 3 e 97 Cost., art. 117 Cost., comma 3 e artt. 119 e 120 Cost..
E quanto alla indennità di occupazione è vero che essa non trova contropartita nel diritto di recesso, perchè come giustamente rilevato dalla ricorrente, non vi è più un contratto da cui recedere, ma essa non ha bisogno di una contropartita ad hoc, essendo un principio generale quello secondo cui il locatore che abbia subito un danno maggiore rispetto a quello compensato sulla scorta dell’indennità fissata ex lege può ottenere il risarcimento del maggior danno. Il fatto che tale diritto non sia concesso esclusivamente, a titolo di contropartita, a favore di coloro che abbiano subito un sacrificio economico non è ragione sufficiente per ritenere irragionevole la misura di contenimento imposta ex lege, posto che la previsione di una contropartita specifica non è affatto condicio sine qua non per ritenere sorretta da una causa normativa adeguata una misura fondata sulla necessità di realizzare un risparmio di spesa per le pubbliche amministrazioni, anche in considerazione delle modalità di bilanciamento tra diritti, in questo caso, ineguali.
La normativa in questione nemmeno impone una imposta sui generis come ritenuto dalla società ricorrente; ad escluderlo indirettamente vale considerare che si tratta di una misura di contenimento applicabile indifferentemente a locatori privati e locatori pubblici, come stabilito dalla Corte dei conti, Sezione Regionale di Controllo per il Piemonte, del 21 maggio 2015, n. 76/2015 /PAR., Sezione Regionale di Controllo per la Lombardia, del 15 ottobre 2014, n. 285/2014/PAR., Corte dei Conti Emilia-Romagna Sez. contr., del. 24 ottobre 2017, n. 155.
In definitiva, la dedotta questione di legittimità costituzionale risulta infondata.
2. Con il secondo motivo la società ricorrente denuncia la violazione o falsa applicazione di norme di diritto (art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3) con espresso riguardo alle disposizioni di cui agli artt. 1591 e 1175 c.c..
La Corte territoriale, negando il risarcimento del danno per difetto di prova della perdita della chance di altra utilizzazione degli immobili perchè occupati sine titulo dalla P.A., non avrebbe tenuto conto: a) che le reiterate promesse di rinnovo del contratto da parte della P.A. avevano ingenerato una legittima aspettativa in ordine al rinnovo; b) che per la prova del maggior danno, di cui all’art. 1591 c.c., non è necessario allegare la ricorrenza di una specifica trattativa per locare l’immobile ad un canone maggiore di quello recepito, bastando tener conto della differenza tra il canone ottenibile e quello effettivamente percepito; c) che il ritardo con cui la P.A. aveva restituito il bene doveva considerarsi un comportamento antigiuridico lesivo del patrimonio del locatore che avrebbe potuto giustificare una condanna generica al risarcimento del danno, con valutazione equitativa; d) che sull’immobile sito in ***** erano stati eseguiti lavori di ingente costo al fine di adeguarlo alle esigenze operative e logistiche della P.A., con l’intesa di convenire un canone di locazione adeguato agli interventi realizzati; e) che la P.A. aveva solo dopo anni, nel 2013, inviato una proposta di stipula di un nuovo contratto, quando erano intervenuti i vincoli imposti dalla legge di stabilità, proponendo un canone di Euro 27.241,38, al netto del 15% in applicazione della disposizione di cui al D.L. n. 95 del 2012, art. 3, comma 6, ben al di sotto di quello di Euro 60.629,04 reputato congruo dalla valutazione che l’Agenzia del demanio aveva eseguito nel 2011, e di quello di Euro 23.156,29 che, nel 2015, nel corso del tentativo di conciliazione, aveva essa stessa indicato come base negoziale, senza che tale comportamento risultasse giustificato dal blocco delle locazioni passive disposto solo per il 2013, e non vigente negli anni 2011, 2012, 2014 e 2015.
Tenuto conto di tale comportamento asseritamente scorretto adottato dalla P.A., la ricorrente quantifica in Euro 165.000,00, al netto degli interessi di legge, il danno ulteriore spettantele ai sensi dell’art. 1591 c.c. per l’indennità di occupazione dell’immobile sito in ***** e in Euro 90.000,00 per l’immobile sito in *****.
2.1. In primo luogo occorre rilevare che sulla eventuale responsabilità della P.A. per avere con il proprio comportamento dilatorio ingenerato nella ricorrente il legittimo ed incolpevole affidamento nella conclusione di un nuovo contratto di locazione non si è espresso autonomamente il giudice di merito. Trattandosi di una questione che neppure può dirsi implicitamente rigettata perchè incompatibile con l’impostazione logico-giuridica della pronuncia nè motivata per relationem, cioè confermando sul punto la statuizione di prime cure, avrebbe richiesto, a pena di inammissibilità, che la società ricorrente deducesse il vizio di violazione tra chiesto e pronunciato oppure quello di omessa pronuncia, ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4.
Il mezzo impugnatorio è stato, invece, ricondotto al vizio di violazione dell’art. 1175 c.c.; ciò avrebbe richiesto, a pena di inammissibilità, posto che l’errore di diritto può consistere nella errata individuazione della norma da applicare alla fattispecie concreta e/o nella erronea applicazione ad essa di una norma correttamente individuata e prospettata, non solo che venisse indicata la norma di diritto asseritamente violata, ma anche la specifica indicazione delle affermazioni in diritto contenute nella sentenza impugnata che motivatamente si assumevano in contrasto con le norme regolatrici della fattispecie e con l’interpretazione delle stesse fornita dalla giurisprudenza di legittimità o dalla prevalente dottrina, così da prospettare una valutazione comparativa tra opposte soluzioni.
Non ricorrendo neppure i presupposti, cioè la trasposizione nel ricorso degli elementi fattuali necessari per il rispetto del principio di autosufficienza, per una correzione d’ufficio del vizio cassatorio, sì da permettere a questa Corte, quale giudice del fatto, il diretto esame degli atti processuali e delle istanze e deduzioni delle parti, al fine di verificare se ricorrano gli estremi di una omessa pronuncia ovvero se l’omissione abbia riguardato una tesi difensiva che, anche se non espressamente esaminata, sia risultata incompatibile con la statuizione di accoglimento della pretesa della ricorrente, sotto questo profilo, il motivo è inammissibile.
La questione relativa all’asserita violazione dell’art. 1591 c.c. per non avere il giudice a quo liquidato il maggior danno ai sensi dell’art. 1591 c.c. risulta, invece, infondata.
Il rigetto della richiesta risarcitoria ai sensi dell’art. 1591 c.c. da parte della Corte d’appello, giustificato con l’assenza di prova circostanziata e certa del danno ovvero della perdita di chance dovuta all’occupazione pubblica dei beni, e con la non sostituibilità della carenza probatoria con la valutazione equitativa, risulta scevra da errori ed in sintonia con la giurisprudenza di questa Corte, la quale ha ripetutamente ricordato che l’art. 1591 c.c. – espressione di un principio applicabile a tutti i tipi di contratto con cui viene concessa l’utilizzazione del bene dietro corrispettivo, per l’ipotesi in cui il concessionario continui ad utilizzare il bene oltre la scadenza del termine finale del rapporto senza averne più il titolo – si compone di due parti: l’una relativa all’obbligo a carico del conduttore in mora nella restituzione del bene locato di corrispondere al locatore fino alla riconsegna una somma a titolo di indennità, determinata forfettariamente assumendo come parametro di riferimento minimo il canone locativo precedentemente convenuto; l’altra, eventuale, relativa al risarcimento del maggior danno patito dal conduttore.
Il primo è un obbligo che sorge automaticamente per effetto della mora, perchè risulta manifesto che al vantaggio che (Ndr: testo originale non comprensibile) il concessionario da tale utilizzazione consegua un danno per il concedente, che ha come misura certa il corrispettivo periodico che era stato stabilito nel contratto; il secondo, invece, non sorge automaticamente, ma deve essere provato rigorosamente dal locatore secondo le regole ordinarie, come affermato finanche dalla giurisprudenza costituzionale (sentenza 9.11.2000, n. 482), sia in ordine alla sua sussistenza che al suo concreto ammontare, sul presupposto che l’obbligo risarcitorio non sorge anteriormente in base al valore locativo presumibilmente riconoscibile dall’astratta configurabilità dell’ipotesi di locazione o vendita del bene, ma vada accertato in relazione alle concrete condizioni e caratteristiche dell’immobile stesso, alla sua ubicazione, alla sua possibilità di utilizzo, onde fare emergere il verificarsi di una lesione patrimoniale effettiva e reale del patrimonio del locatore.
Trattandosi di un danno emergente, la sua sussistenza va desunta dalla ricostruzione ideale di quanto il creditore avrebbe conseguito per normale successione di eventi, in base ad una ragionevole fondata attendibilità, qualora l’obbligazione fosse stata adempiuta; ma siffatta ricostruzione non può essere suffragata sul solo piano ipotetico dell’astratta possibilità di lucro, bensì deve muovere da una situazione concreta, che consenta di ritenere fondata ed attendibile quella ricostruzione (Cass. 15/05/1978, n. 2380). Ne consegue che il lucro cessante, concretandosi nell’accrescimento patrimoniale effettivo pregiudicato o impedito dall’inadempimento dell’obbligazione contrattuale, presuppone almeno la prova, sia pure indiziaria, dell’utilità patrimoniale che, secondo un rigoroso giudizio di probabilità (e non di mera possibilità), il creditore avrebbe conseguito se l’obbligazione fosse stata adempiuta e deve essere, perciò, escluso per quei mancati guadagni che sono meramente ipotetici, perchè dipendenti da condizioni incerte.
Il giudizio sull’esistenza o meno di detto danno da lucro cessante, attenendo ad un fatto, rientra nei poteri decisionali esclusivi del giudice di merito, la cui valutazione è incensurabile in cassazione, se immune da vizi motivazionali rilevabili in sede di sindacato di legittimità.
La ricorrente non deduce quali prove abbia addotto circa la ricorrenza del danno invocato, limitandosi a citare una serie di pronunce giurisprudenziali che, premessa la possibilità di provare per presunzioni, il danno in questione hanno indicato alcuni indici sintomatici della sua ricorrenza. La ricorrente, però, non specifica se avesse indicato dei fatti provati e/o certi dai quali il giudice avrebbe dovuto risalire al fatto ignoto (an e quantum del danno) e, per di più, lascia intendere di avere sovrapposto la valutazione equitativa con la prova per presunzioni.
La prova della ricorrenza del maggior danno, che non esige, come correttamente rilevato dalla società Fimm, la documentazione della ricorrenza di ben precise proposte di locazione ad un canone più elevato – prova, però, che non è stata affatto richiesta dalla Corte d’Appello, la quale si è limitata a ribadire la necessità che la prova del diritto al risarcimento del maggior danno dovesse essere circostanziata e certa e non sostituibile con la valutazione equitativa – e che può essere data con qualunque mezzo, anche ricorrendo alle presunzioni, esige, però, che esse non solo siano gravi, precise e concordanti, ma siano anche idonee a provare in concreto il danno del locatore, non essendo sufficiente invocarle in astratto, al solo scopo di provare la mera differenza fra il corrispettivo convenuto dalle parti e il maggior valore del canone di mercato (31/03/2007, n. 8071).
Va altresì aggiunto che la giurisprudenza nega che l’offerta da parte del conduttore di un canone maggiore per la rinnovazione del contratto” integri la prova del maggior danno, potendo “tutt’al più valere come elemento presuntivo che concorre unitamente ad elementi dello stesso segno a provare l’esistenza del danno”; ciò priva di pregio l’argomento secondo cui il fatto che fosse in corso una specifica trattativa proprio con la P.A. avrebbe dovuto ritenere soddisfatto l’onere probatorio.
Come si è già ricordato, al fine di ottenere il risarcimento del danno ex art. 1591 c.c. il richiedente dovrebbe provare Van ed il quantum di tale danno, anche invocando il ragionamento presuntivo non in astratto, ma in concreto, fornendo cioè al giudice elementi di valutazione concreti degli indici sintomatici da cui risalire alla dimostrazione che il suo patrimonio avesse subito una lesione a causa del protrarsi dell’occupazione sine titulo – indici che non risulta affatto che la società Fimm abbia offerto al giudice -.
Non solo: correttamente la Corte d’Appello ha ritenuto che la mancanza di prova circa la ricorrenza del danno non potesse essere sostituita ricorrendo alla sua valutazione equitativa. Quest’ultima, infatti, espressione del più generale potere di cui all’art. 115 c.p.c., non può sopperire ad un difetto di prova circa la ricorrenza del danno, ma soccorre sussidiariamente ove, provato il danno, sia difficile o impossibile quantificarlo; pertanto, è subordinata, da un lato, alla condizione che risulti obiettivamente impossibile, o particolarmente difficile per la parte interessata, provare il danno nel suo preciso ammontare, dall’altro non ricomprende anche l’accertamento del pregiudizio della cui liquidazione si tratta, presupponendo già assolto l’onere della parte di dimostrare la sussistenza del danno e non esonera la parte dal fornire gli elementi probatori e i dati di fatto dei quali possa ragionevolmente disporre, affinchè l’apprezzamento equitativo sia per quanto possibile, ricondotto alla sua funzione di colmare solo le lacune insuperabili nell’iter della determinazione dell’equivalente pecuniario del danno.
Resta da aggiungere, per concludere, che non giova alla ricorrente il richiamo di quelle pronunce che hanno ammesso una condanna generica del conduttore al risarcimento del danno ex art. 1591 c.c. E’ vero che la giurisprudenza ha ritenuto che il comportamento antigiuridico di chi senza una valida ragione ritardi la restituzione del bene locato è potenzialmente lesivo sì da giustificare una condanna generica al risarcimento del danno, ma ha precisato – e non avrebbe potuto essere altrimenti – che in sede di liquidazione l’avente diritto avrebbe dovuto sostenere il relativo onere probatorio (Cass. 24/06/2002, n. 9160; Cass. 08/03/1991, n. 2460).
3. Ne consegue il rigetto del ricorso.
4. Nulla deve essere liquidato per le spese non essendovi stata attività difensiva da parte del Ministero dell’Interno.
5. Si dà atto della ricorrenza dei presupposti per porre a carico della società ricorrente l’obbligo di pagamento del doppio del contributo unificato.
PQM
La Corte rigetta il ricorso.
Nulla è dovuto per le spese.
Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis.
Così deciso in Roma, nella camera di Consiglio della Terza Sezione civile della Corte Suprema di Cassazione, il 21 giugno 2019.
Depositato in Cancelleria il 13 novembre 2019
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