LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE TERZA CIVILE
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. ARMANO Uliana – Presidente –
Dott. DI FLORIO Antonella Consiglie – –
Dott. OLIVIERI Stefano – Consigliere –
Dott. SCODITTI Enrico – Consigliere –
Dott. CRICENTI Giuseppe – rel. Consigliere –
ha pronunciato la seguente:
ORDINANZA
sul ricorso 11322/2018 proposto da:
S.G., elettivamente domiciliata in ROMA, C.SO VITTORIO EMANUELE II 229, presso lo studio dell’avvocato UGO DI PIETRO, rappresentata e difesa dall’avvocato EUGENIO ANTONINO BENVEGNA;
– ricorrente –
contro
ISLAND FINANCE 2 SRL, in persona del legale rappresentante pro tempore e per essa FBS SPA, in persona del procuratore speciale Avv. B.F., elettivamente domiciliata in ROMA, VIA GERMANICO, 101, presso lo studio dell’avvocato LUCIANO PIAZZA, che la rappresenta e difende;
– controricorrente –
e contro
CAPITALIA SPA, BANCO DI SICILIA SPA;
– intimati –
avverso la sentenza n. 356/2017 della CORTE D’APPELLO di MESSINA, depositata il 31/03/2017;
udita la relazione della causa svolta nella Camera di consiglio del 13/06/2019 dal Consigliere Dott. GIUSEPPE CRICENTI.
FATTI DI CAUSA
La ricorrente, gravata dell’obbligo di restituzione di un mutuo fondiario con il Banco di Sicilia, assistito da due ipoteche, tra il 7.4.2000 ed il 2.5.2000 ha concluso una transazione con la banca al fine di rateizzare ulteriormente la somma residua di tali finanziamenti.
Ha dunque corrisposto buona parte del residuo credito, fino a quando invece ha disatteso il versamento delle ultime quattro rate, corrispondenti, all’epoca a 40 milioni di Lire.
La ricorrente ha dunque offerto di poter far fronte al pagamento con il versamento di 37.184,00 Euro che sarebbe servito ad estinguere tutti i debiti indicati in transazione.
La banca ha tuttavia rifiutato ed ha comunicato di volersi avvalere della clausola risolutiva espressa contenuta nell’accordo transattivo.
La ricorrente ha convenuto dunque l’istituto di credito, lamentando come illegittimo il ricorso alla clausola risolutiva, che doveva ritenersi nulla per difetto di determinatezza.
Nel giudizio è intervenuta la Island Finance, società cessionaria del credito. In entrambi i gradi di merito la domanda è stata respinta con le medesime argomentazioni, ritenendo, ossia, valida la clausola risolutiva, ed allo stesso tempo validamente perfezionatosi il relativo accordo.
Ricorre la Sinoni con quattro motivi.
V’è controricorso della Island Finance 2 e memoria della ricorrente.
RAGIONI DELLA DECISIONE
1.- La decisione impugnata ha più rationes.
Intanto, la corte di merito ritiene determinato l’oggetto della clausola risolutiva, se integrato con il contenuto dell’intero accordo di transazione.
In secondo luogo, ritiene che quella clausola si sia perfezionata attraverso l’esecuzione dell’accordo, in cui è contenuta, da parte della S., che ha preso a corrispondere alcune delle rate previste dalla transazione.
Infine, ritiene che validamente l’intervenuta ha chiesto la risoluzione di diritto in via di eccezione anzichè di domanda riconvenzionale.
2.- A fronte di tali rationes decidendi, la S. propone quattro motivi di ricorso, il primo ed il terzo dei quali articolati in sotto motivi, ossia contenenti censure di genere diverso.
Quest’ultima formalità di proposizione dei motivi è ritenuta dalla controricorrente come inammissibile.
In realtà l’articolazione del motivo in una pluralità di censure, si risolve in questo caso in una pluralità di sotto motivi, ciascuno dei quali avente una propria autonomia e prospettante un’autonoma censura, cosi che la individuazione delle ragioni che la ricorrente pone a base del motivo è agevole ed è soprattutto evidentemente riconducibile ad uno dei casi di legge (art. 360 c.p.c.).
2.1- Con il primo motivo la ricorrente fa valere violazione di legge quanto alla interpretazione della clausola. Il motivo è articolato sotto più censure. La prima fa valere una nullità della sentenza per difetto di motivazione circa la validità della clausola, e la sua idoneità a contenere un patto di risoluzione di diritto.
La seconda censura fa valere erronea interpretazione dell’art. 1456 c.c., attribuendo alla corte di avere ritenuto valida una clausola risolutiva espressa che invece era indeterminata nell’oggetto e dunque nulla.
Con il secondo motivo si fa valere erronea interpretazione degli artt. 1456 e 2697 c.c..
Secondo la ricorrente la corte di merito avrebbe errato nel ritenere approvata la clausola (rectius accettato l’accordo in cui era contenuta) in difetto di una manifestazione espressa o comunque concludente da parte sua.
Con il terzo motivo si duole sia dell’omessa valutazione da parte del giudice di merito della questione dell’inadempimento e della sua imputabilità alla ricorrente, che era presupposto necessario per far ritenere efficace la clausola risolutiva espressa; sia della mancata ammissione delle prove testimoniali che avrebbero sconfessato questa convenzione del giudice circa la colpevolezza dell’inadempimento.
Inoltre, ritiene erroneo il ragionamento della corte di appello nel ritenere equipollente il rifiuto della proposta di ulteriore dilazione al fatto di volersi avvalere della clausola risolutiva.
Con il quarto motivo invece denuncia erronea interpretazione dell’art. 167 c.p.c.. Ritiene che la corte ha accolto la domanda di risoluzione della transazione (avvenuta di diritto) senza che quest’ultima fosse stata oggetto di una domanda riconvenzionale, essendosi limitata la convenuta a farne oggetto di una semplice eccezione.
3.- I motivi sono infondati.
Quanto al primo, la clausola di cui si discute è del seguente tenore: “quanto sopra fermo restando che in caso di inadempimento, anche parziale, gli accordi di sistemazione si risolveranno automaticamente”.
In tale clausola non è fatto alcun riferimento all’inadempimento di quali e quante obbligazioni è connessa la risoluzione di diritto.
La clausola risolutiva espressa presuppone che le parti abbiano previsto la risoluzione di diritto del contratto per effetto dell’inadempimento di una o più obbligazioni specificamente determinate, sicchè la clausola che attribuisca ad uno dei contraenti la facoltà di dichiarare risolto il contratto per “gravi e reiterate violazioni” dell’altro contraente “a tutti gli obblighi” da esso discendenti va ritenuta nulla per indeterminatezza dell’oggetto, in quanto detta locuzione nulla aggiunge in termini di determinazione delle obbligazioni il cui inadempimento può dar luogo alla risoluzione del contratto e rimette in via esclusiva ad una delle parti la valutazione dell’importanza dell’inadempimento dell’altra (Cass. 4796/2016; Cass. 1950/2009). Con la conseguenza che, in tale ultimo caso, l’inadempimento non risolve di diritto il contratto, sicchè di esso deve essere valutata l’importanza in relazione alla economia del contratto stesso, non essendo sufficiente l’accertamento della sola colpa, come previsto, invece, in presenza di una valida clausola risolutiva espressa (Cass. 1950/2009). La ragione per la quale la clausola risolutiva espressa deve avere riguardo a determinate obbligazioni e non può limitarsi ad un generico riferimento a tutte, o a parte di esse, sta nella funzione stessa di tale clausola, che mira altresì a preordinare la valutazione di gravità dell’inadempimento, funzione rispetto alla quale è ovviamente necessario determinare quando l’inadempimento è tale (ossia di tale gravità) da comportare la risoluzione di diritto. E ciò ancor più ove l’obbligazione pecuniaria sia frazionata in più rate, ed occorra dunque stabilire quale soglia minima di rate inadempiute deve essere superata. Va però considerato che l’oggetto della clausola, ed in particolare modo il riferimento alla gravità dell’inadempimento (che nella clausola risolutiva espressa è determinato) può essere stabilito per relationem, e dunque con riferimento all’oggetto della prestazione al cui inadempimento si fa riferimento. Nel caso presente, la prestazione era rateale, cosi che il riferimento all’inadempimento, “anche parziale” deve intendersi come comprensivo anche di una sola rata. La valutazione di quando debba ritenersi grave l’inadempimento è questione di autonomia delle parti, nella clausola risolutiva, ed elimina la necessità di una indagine ad hoc (Cass. 20818/2006). Nè può dirsi che le parti debbano contenere tale valutazione entro un limite minimo, poichè, come è noto la gravità va stimata rispetto all’interesse del creditore e non ad interessi altri da questo e riferiti a diversi ambiti. Con conseguente infondatezza del terzo motivo, che lamenta mancato apprezzamento della gravità dell’inadempimento e rigetto delle istanze istruttorie finalizzate a tale valutazione. Parimenti infondato è il quarto motivo, con il quale la ricorrente contesta alla corte di merito di aver ritenuto sufficiente una eccezione al fine di avvalersi della clausola risolutiva, mentre, a suo dire, era necessaria una apposita domanda. Ed invece, la risoluzione consensuale del contratto non costituisce materia di eccezione in senso stretto, ma è un fatto estintivo dei diritti nascenti dal contratto, che può essere accertato anche d’ufficio dal giudice (Cass. 12075/2007; Cass. 10201/2012; Cass. 6125/2014).
Il ricorso va pertanto respinto e le spese seguono la soccombenza.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento delle spese di lite, che liquida in complessive 2000,00 Euro, oltre 200,00 per spese generali, dando atto della sussistenza dei presupposti per il versamento del doppio del contributo unificato.
Così deciso in Roma, il 13 giugno 2019.
Depositato in Cancelleria il 14 novembre 2019
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