Corte di Cassazione, sez. II Civile, Ordinanza n.29566 del 14/11/2019

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LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SECONDA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. GORJAN Sergio – Presidente –

Dott. LOMBARDO Luigi Giovanni – Consigliere –

Dott. TEDESCO Giuseppe – Consigliere –

Dott. CASADONTE Annamaria – Consigliere –

Dott. CRISCUOLO Mauro – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 28990/2015 proposto da:

T.P., elettivamente domiciliato in ROMA, VIA CIVININI 12, presso lo studio dell’avvocato MASSIMO CASSIANO, che lo rappresenta e difende unitamente agli avvocati PAOLO MARIO SILVIO FIORIO, VALENTINO FIORIO giusta procura in calce al ricorso;

– ricorrente –

contro

F.M.P., elettivamente domiciliata in ROMA, VIA MONTE DELLE GIOIE 13, presso lo studio dell’avvocato CAROLINA VALENSISE, che la rappresenta e difende unitamente all’avvocato CARLO BOETTI VILLANIS AUDIFREDI in virtù di procura in calce al controricorso;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 827/2015 della CORTE D’APPELLO di TORINO, depositata il 05/05/2015;

udita la relazione della causa svolta nella Camera di consiglio del 25/09/2019 dal Consigliere Dott. MAURO CRISCUOLO;

Lette le memorie depositate da entrambe le parti.

RAGIONI IN FATTO ED IN DIRITTO DELLA DECISIONE 1. F.M.P. aveva acquistato dal gallerista T.P. un’opera dell’artista B.A., intitolata “*****”, dietro corrispettivo di Lire 5.000.000 (parzialmente pagate con la permuta di un quadro di Bi.Ti. di proprietà dell’acquirente).

Sul presupposto che l’opera non era stata ritenuta autentica dalla Fondazione B., il 21/06/2010 conveniva in giudizio il suo dante causa al fine di ottenere la risoluzione del contratto e il risarcimento del danno.

Durante il giudizio di primo grado veniva espletata CTU, la quale concludeva nel senso che l’unico parere affidabile per l’attribuzione della paternità dell’opera all’artista fosse quello della Fondazione B.; l’opera, pertanto, doveva essere considerata non autentica. Inoltre, il CTU stimava che l’opera in questione, se fosse stata autentica, avrebbe avuto all’attualità un valore di Euro 34.000,00.

Il Tribunale di Torino con la sentenza dell’11/02/2013 dichiarava il contratto di compravendita risolto ex art. 1453 c.c., per inadempimento del T. – essendo l’attribuibilità dell’opera all’artista una delle caratteristiche essenziali promesse dal venditore all’atto di compravendita – con condanna di quest’ultimo alla corresponsione di Euro 1.549,37, a titolo di restituzione del prezzo corrisposto, e di Euro 31.050,00 a titolo di risarcimento del danno, quantificato nella differenza tra il valore stimato dell’opera ove genuina e il prezzo effettivamente pagato, oltre spese di CTU e di causa.

Il 17/07/2013 proponeva appello il T. per la riforma della sentenza suddetta, sostenendo che la firma apposta dall’autore sull’opera fosse l’unico elemento rilevante ai fini dell’attribuzione della sua paternità, trattandosi di un arazzo realizzato da artigiani su incarico dell’artista. Il fatto che la firma non fosse stata disconosciuta dall’originaria attrice denotava il fatto che non vi fosse contestazione in merito all’autenticità dell’opera. Viceversa, avrebbe dovuto essere ritenuto irrilevante il parere della Fondazione B., presumibilmente influenzato da interessi di mercato e proveniente da una parte in conflitto di interessi, parere sul quale, tuttavia, il CTU si era appiattito, senza fornire una motivazione esaustiva.

Chiedeva, in subordine, nella denegata ipotesi di conferma della risoluzione del contratto, di limitare la condanna alla restituzione del prezzo corrisposto e dell’opera di Bi.Ti. (rappresentante i 2/5 del prezzo) ed al risarcimento dei soli danni prevedibili.

La Corte d’Appello di Torino, con la sentenza n. 827/2015 del 05/05/2015, riformava parzialmente la sentenza di primo grado, condannando l’appellata F. alla restituzione dell’opera d’arte oggetto della controversia e l’appellante T. alla restituzione del quadro di Bi.Ti., con condanna al risarcimento del danno quantificato in Euro 30.500 e alla refusione delle spese di giudizio in misura di 4/5, compensato il restante 1/5 La Corte di merito confermava l’accertamento del grave inadempimento come compiuto dal Tribunale, non avendo il venditore fornito alcuna prova circa la genuinità dell’opera, che veniva contestata dall’acquirente. Del pari, dava rilievo alle dichiarazioni del T., rese in sede di interrogatorio, nelle quali affermava di aver assicurato la genuinità dell’opera essendone convinto in buona fede, ed alle conclusioni della CTU in merito al valore da attribuire al parere espresso dall’Archivio B., unico affidabile per attribuire autenticità, in assenza del quale le opere non hanno valore sul mercato. Lo stesso appellante aveva ammesso in sede di interrogatorio che la valutazione di non autenticità dell’Archivio è difficilmente contestabile.

Riteneva inconferente il richiamo alla disciplina delle scritture private in tema di disconoscimento, trattandosi di opera d’arte sottoscritta da un soggetto terzo.

Il fatto che l’opera non fosse attribuibile all’artista, a prescindere dall’accertamento della sua falsità, a parere della Corte era di per sè sufficiente a giustificare la risoluzione del contratto, mancando una qualità essenziale promessa.

La Corte confermava la sentenza anche nella quantificazione del danno prevedibile, consistente nella perdita del maggior valore che l’opera compravenduta avrebbe invece conseguito ove fosse stata effettivamente attribuibile all’artista indicato, così come garantito dal venditore. A tal fine faceva proprie le conclusioni del CTU che aveva calcolato il valore ipotetico dell’opera, laddove fosse stata genuina, sulla base di quanto realizzato in una vendita all’asta di opera analoga. La Corte riteneva detraibile dalla liquidazione del danno la percentuale del 18% spettante alla casa d’aste, non essendo stato provato che la vendita fosse avvenuta con la sua intermediazione, ma si limitava ridurre il danno da risarcire, tenuto conto del valore dell’opera di Bi.Ti. (Euro 3.500,00) che doveva essere restituita dall’appellante insieme al prezzo versato in contanti.

T.P. propone ricorso per la cassazione della sentenza della Corte d’Appello di Torino sulla base di due motivi.

L’intimata si è difesa con controricorso.

Entrambe le parti hanno depositato memorie in prossimità dell’udienza.

2. Con il primo motivo, il ricorrente denuncia l’omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione della sentenza in punto di assunzione delle conclusioni della consulenza tecnica d’ufficio, ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5.

Le conclusioni del consulente sarebbero erronee, infondate, contraddittorie e immotivate, in quanto si sarebbero limitate ad accettare il parere immotivato e di parte espresso dall’Archivio B., senza esplicitare il metodo scientifico per accertare l’autenticità di un’opera. L’unico elemento oggettivo dal quale desumere la paternità dell’opera, al contrario, dovrebbe essere la firma.

La sentenza è erronea, pertanto, nella parte in cui si basa acriticamente sul giudizio del CTU, senza idonea motivazione delle conclusioni assunte.

Il motivo è inammissibile.

Il ricorrente richiama la vecchia formulazione dell’art. 360 c.p.c. non più applicabile, essendo ratione temporis applicabile quella introdotta dal D.L. 22 giugno 2012, n. 83, art. 54, conv. in L. 7 agosto 2012, n. 134, dal momento che la sentenza è stata pubblicata dopo l’11/09/2012.

La riformulazione dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, deve essere interpretata, alla luce dei canoni ermeneutici dettati dall’art. 12 preleggi, come riduzione al “minimo costituzionale” del sindacato di legittimità sulla motivazione. Pertanto, è denunciabile in cassazione solo l’anomalia motivazionale che si tramuta in violazione di legge costituzionalmente rilevante, in quanto attinente all’esistenza della motivazione in sè, purchè il vizio risulti dal testo della sentenza impugnata, a prescindere dal confronto con le risultanze processuali. Tale anomalia si esaurisce nella “mancanza assoluta di motivi sotto l’aspetto materiale e grafico”, nella “motivazione apparente”, nel “contrasto irriducibile tra affermazioni inconciliabili” e nella “motivazione perplessa ed obiettivamente incomprensibile”, esclusa qualunque rilevanza del semplice difetto di “sufficienza” della motivazione (cfr. Cass., sez. U, sentenza n. 8053 del 07/04/2014).

Nel caso di specie, non sussiste alcun vizio della motivazione tale da violare la legge; anzi, la giurisprudenza di questa Suprema Corte ha più volte affermato che ove il giudice di merito riconosca convincenti le conclusioni del consulente tecnico d’ufficio, non è tenuto ad esporre in modo specifico le ragioni del suo convincimento, poichè l’obbligo della motivazione è assolto già con l’indicazione delle fonti dell’apprezzamento espresso, dalle quali possa desumersi che le contrarie deduzioni delle parti siano state implicitamente rigettate; pertanto la parte che deduce un vizio di motivazione od un’erronea valutazione dei dati ha l’onere di indicare in modo specifico le deduzioni formulate nel giudizio di merito, delle quali il giudice non si sia dato carico, non essendo in proposito sufficiente il mero e generico rinvio agli atti del pregresso giudizio (cfr. Cass., sez. 3, sentenza n. 19475 del 06/10/2005; Cass., sez. 1, sentenza n. 16368 del 17/07/2014).

Non incorre nel vizio di carenza di motivazione la sentenza che recepisca per relationem le conclusioni e i passi salienti di una relazione di consulenza tecnica d’ufficio di cui dichiari di condividere il merito; pertanto, per infirmare, sotto il profilo dell’insufficienza argomentativa, tale motivazione è necessario che la parte alleghi le critiche mosse alla consulenza tecnica d’ufficio già dinanzi al giudice a quo, la loro rilevanza ai fini della decisione e l’omesso esame in sede di decisione; al contrario, una mera disamina, corredata da notazioni critiche, dei vari passaggi dell’elaborato peritale richiamato in sentenza, si risolve nella mera prospettazione di un sindacato di merito, inammissibile in sede di legittimità (Cass., sez. 1, sentenza n. 10222 del 04/05/2009; Cass., sez. L, sentenza n. 23530 del 16/10/2013).

In ogni caso, il motivo, ove anche si reputi che possa essere valutato alla stregua della novellata previsione di cui all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, è inammissibile ex art. 348 ter c.p.c., comma 5, dal momento che sussiste un’ipotesi di “doppia conforme”, essendo la sentenza di appello, pronunciata all’esito di giudizio di gravame introdotto in data successiva all’11 settembre 2012, fondata sulle stesse ragioni, inerenti alle questioni di fatto, poste a base della decisione di primo grado. Nella specie la decisione della corte di merito, nel confermare la sentenza del Tribunale, ha condiviso la valutazione dei fatti compiuta dal giudice di prime cure sia in ordine all’assenza di una qualità essenziale promessa ed al conseguente inadempimento del venditore, che ha appunto portato alla pronuncia di risoluzione del contratto, sia in ordine alla valutazione della prevedibilità del danno da risarcire, avendo entrambi i giudici fatto proprie le conclusioni del CTU rese sul punto.

Per evitare l’inammissibilità, parte ricorrente avrebbe dovuto dimostrare che il provvedimento impugnato non si fonda sulle stesse ragioni di fatto poste a base della decisione appellata. In altri termini, gravava su detta parte l’onere di indicare le ragioni di fatto poste a fondamento della decisione di primo grado, quelle poste a fondamento della sentenza di rigetto del gravame e dimostrarne la diversità (cfr. Cass., sez. 2, sentenza n. 5528 del 10/03/2014; Cass., sez. 1, sentenza n. 26774 del 22/12/2016).

3. Con il secondo motivo, il ricorrente lamenta la violazione dell’art. 1225 c.c., in punto di determinazione dell’ammontare dei danni avuto riguardo alla loro prevedibilità; l’omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione sul punto e la violazione dell’onere probatorio. Il venditore non avrebbe potuto prevedere la rivalutazione dell’opera nell’arco di 11 anni nella misura del 2200%, altrimenti, è plausibile che non avrebbe venduto l’opera. Inoltre, la F. non ha provato la prevedibilità del danno nonostante che incombesse su di lei la suddetta prova.

Il motivo è infondato.

A tale riguardo va richiamata la giurisprudenza di questa Suprema Corte che afferma il principio di diritto secondo cui, in caso di risoluzione, per inadempimento del venditore, della compravendita di un quadro dichiarato d’autore, ma rivelatosi non autentico per non essere stato realizzato da quell’autore, spetta al compratore non solo il diritto alla restituzione del prezzo versato, ma anche il risarcimento del danno per lucro cessante relativo al plusvalore che il quadro avrebbe conseguito nel corso degli anni (cfr. Cass., sez. 2, sentenza n. 16763 del 29/07/2011, che conferma la correttezza delle decisioni di merito che hanno aderito alle risultanze della c.t.u. la quale aveva concluso che, al momento del perfezionamento della compravendita, un mercante d’arte di media diligenza sarebbe stato in grado di prevedere un incremento di valore nel tempo, e fino alla notifica dell’atto introduttivo del giudizio, di un quadro autentico del pittore avente le caratteristiche di quello venduto; in senso sostanzialmente conforme Cass., sez. 2, sentenza n. 7299 del 03/07/1993; Cass., sez. 2, sentenza n. 2457 del 16/04/1984).

La valutazione in ordine alla sussistenza del danno da lucro cessante e alla relativa prevedibilità al tempo in cui era sorta l’obbligazione è accertamento di fatto spettante al giudice di merito, insindacabile in sede di legittimità, se adeguatamente motivato (cfr. Cass., sez. 2, ordinanza n. 20961 del 08/09/2017).

Al riguardo va avvertito che l’imprevedibilità alla quale la citata norma codicistica fa riferimento non costituisce un limite all’esistenza del danno, ma alla misura del suo ammontare, determinando, infatti, la limitazione del danno risarcibile a quello prevedibile non da parte dello specifico debitore, bensì avendo riguardo alla prevedibilità astratta inerente ad una determinata categoria di rapporti, sulla scorta delle regole ordinarie di comportamento dei soggetti economici e, cioè, secondo un criterio di normalità in presenza delle circostanze di fatto conosciute (cfr. Cass., sez. 3, sentenza n. 11189 del 15/05/2007).

In altre parole, il giudizio di prevedibilità attiene alla produzione del danno come conseguenza probabile dell’inadempimento, con riguardo alla comune esperienza e in relazione alle circostanze concrete del rapporto. Il danno deve essere virtualmente ricollegabile alla stregua dei criteri obiettivi all’inadempimento da cui deriva, secondo l’incensurabile appressamento istituzionalmente demandato al giudice di merito (cfr. Cass., sez. 3, sentenza n. 15559 dell’11/08/2004).

Nel caso di specie la Corte distrettuale ha esaustivamente dato conto delle motivazioni alla base della valutazione della prevedibilità del danno da lucro cessante, consistente nella perdita dell’incremento di valore di mercato, rispetto al prezzo di acquisto versato dall’acquirente, di un quadro autentico dello stesso pittore, avente le medesime caratteristiche di quello risultato falso. In tal senso è stata valorizzata la circostanza che era stato lo stesso appellante ad assicurare che l’opera con il tempo avrebbe acquistato maggiore valore, essendo l’artista esponente del movimento dell’Arte Povera, affermazione questa che denota la prevedibilità del significativo incremento di valore dell’opera.

Nè tale considerazione può essere posta nel nulla sulla base dell’affermazione secondo cui, ove vi fosse stata coscienza del significativo incremento di valore dell’opera, la stessa non sarebbe stata alienata, posto che la stessa, oltre a non tenere conto della peculiare attività professionale del mercante d’arte, che mira a collocare sul mercato degli appassionati opere al momento ancora non assurte a significative stime, traendo un immediato vantaggio dal percepire un corrispettivo, lasciando all’acquirente l’onere di attendere il tempo necessario per l’apprezzamento del bene, non considera l’aleatorietà che comunque connota il settore delle opere d’arte di artisti contemporanei, laddove non sempre le previsioni di incremento trovano poi puntuale conferma nel reale andamento del mercato delle opere d’arte.

Peraltro, poichè la decisione impugnata ha desunto la consapevolezza del danno dal comportamento evasivo del venditore di fronte alle sollecitazioni dell’acquirente volte a conseguire il certificato di autenticità, tenuto conto delle argomentazioni dell’appellata, secondo la quale il gallerista avrebbe dovuto avere consapevolezza della necessità del certificato di autenticità dell’Archivio B. per commercializzare l’opera, così che il garantire l’autenticità dell’opera senza il predetto configurava una condotta improntata a colpa grave, deve ritenersi che sia stata fatta anche una valutazione in ordine alla gravità della responsabilità del venditore sul piano dell’elemento soggettivo idonea a supportare anche una responsabilità per i cd. danni imprevedibili (in tal senso si veda Cass., sez. 3, sentenza n. 25271 del 16/10/2008; Cass., sez. 2, sentenza n. 2899 del 25/03/198, secondo cui per la configurabilità del dolo del debitore nell’inadempimento ovvero nell’incompleto o inesatto adempimento della prestazione dovuta, in difetto del quale l’art. 1225 c.c., ponendo una eccezione alla regola generale della risarcibilità dell’intero danno, limita il risarcimento a quello che poteva prevedersi nel tempo in cui è sorta l’obbligazione, è sufficiente la consapevolezza di dovere una determinata prestazione ed omettere di darvi esecuzione intenzionalmente, senza che occorra altresì il requisito della consapevolezza del danno).

Nè infine è configurabile una violazione dell’art. 2697 c.c., la quale ricorre soltanto nell’ipotesi in cui il giudice abbia attribuito l’onere della prova ad una parte diversa da quella che ne era onerata secondo le regole di scomposizione delle fattispecie basate sulla differenza tra fatti costitutivi ed eccezioni e non invece laddove oggetto di censura sia la valutazione che il giudice abbia svolto delle prove proposte dalle parti, sindacabile, quest’ultima, in sede di legittimità, entro i ristretti limiti del nuovo art. 360 c.p.c., n. 5 (cfr. ex multis Cass. sez. 3, sentenza n. 13395 del 29/05/2018; Cass., sez. 6-3, ordinanza n. 26769 del 23/10/2018).

4. Il ricorso deve pertanto essere rigettato dovendosi porre le spese, come liquidate in dispositivo, a carico di parte ricorrente in applicazione del principio della soccombenza.

5. Poichè il ricorso è stato proposto successivamente al 30 gennaio 2013 ed è rigettato, sussistono le condizioni per dare atto – ai sensi della L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17 (Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato – Legge di stabilità 2013), che ha aggiunto del Testo Unico di cui al D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1-quater – della sussistenza dell’obbligo di versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per la stessa impugnazione.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al rimborso delle spese del presente giudizio in favore della controricorrente che liquida in complessivi Euro 5.500,00, di cui Euro 200,00 per esborsi, oltre spese generali, pari al 15% sui compensi, ed accessori di legge;

ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, inserito dalla L. n. 228 del 2012, art. 1, comma 17, dichiara la sussistenza dei presupposti per il versamento da parte del ricorrente del contributo unificato dovuto per il ricorso principale a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Sezione Seconda Civile, il 25 settembre 2019.

Depositato in Cancelleria il 14 novembre 2019

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