LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE SESTA CIVILE
SOTTOSEZIONE 3
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. FRASCA Raffaele – Presidente –
Dott. RUBINO Lina – Consigliere –
Dott. CIRILLO Francesco Maria – rel. Consigliere –
Dott. ROSSETTI Marco – Consigliere –
Dott. DELL’UTRI Marco – Consigliere –
ha pronunciato la seguente:
ORDINANZA
sul ricorso 19640-2018 proposto da:
A.E., S.D.I., elettivamente domiciliati in ROMA, VIA DEL MATTONATO 4, presso lo studio dell’avvocato PICCININNI DONATELLO, rappresentati e difesi dall’avvocato DE BONIS GAETANO MICHELE MARIA;
– ricorrenti –
contro
A.A., G.G., A.C., elettivamente domiciliati in ROMA, VIA FEDERICO CESI 21, presso lo studio dell’avvocato ACONE PASQUALE, che li rappresenta e difende unitamente all’avvocato CERRI GIOVANNI;
– controricorrenti –
avverso la sentenza n. 195/2018 della CORTE D’APPELLO di POTENZA, depositata il 03/04/2018;
udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio non partecipata del 13/06/2019 dal Consigliere Relatore Dott. DELL’UTRI MARCO.
RILEVATO
che, con sentenza resa in data 17/4/2018, la Corte d’appello di Potenza ha confermato la decisione con la quale il giudice di primo grado, in accoglimento della domanda proposta da G.G., A.A. e A.C., ha dichiarato l’inefficacia, ai sensi dell’art. 2901 c.c., degli atti con i quali A.E. (debitore degli attori) aveva ceduto la proprietà di taluni beni immobili alla seconda moglie, S.D.I.;
che, a fondamento della decisione assunta, la corte territoriale premessa la tardività dell’eccezione sollevata dagli appellanti in ordine all’applicabilità, nel caso di specie, dell’art. 2901 c.c., comma 3 – ha confermato la correttezza della decisione dei primo giudice, nella parte in cui aveva ritenuto sussistenti tutti i presupposti oggettivi e soggettivi a fondamento dell’azione revocatoria proposta;
che, avverso la sentenza d’appello, A.E. e S.D.I. propongono ricorso per cassazione sulla base di tre motivi d’impugnazione;
che G.G., A.A. e A.C.: resistono con controricorso;
che, a seguito della fissazione della camera di consiglio, sulla proposta di definizione del relatore emessa ai sensi dell’art. 380-bis c.p.c., le parti non hanno presentato memoria.
CONSIDERATO
che, con i tre motivi d’impugnazione (congiuntamente articolati in ricorso), i ricorrenti censurano la sentenza impugnata per violazione e falsa applicazione degli artt. 2697 e 2901 c.c., nonchè per motivazione carente, illogica e contraddittoria, per avere la corte territoriale erroneamente escluso l’applicabilità, al caso di specie, della norma di cui all’art. 2901 c.c., comma 3, avendo i ricorrenti tempestivamente sollevato la questione relativa alla destinazione dell’atto impugnato all’estinzione di un credito vantato dalla S. nei confronti di A.E., e per avere il giudice d’ap-pello.erroneamente omesso di rilevare l’effettività dei presupposti per l’applicabilità della norma richiamata, nonchè, infine, per avere erroneamente ritenuto sussistenti, sulla base degli scarni elementi di prova acquisiti, tutti gli elementi soggettivi e oggettivi per l’accoglimento dell’azione revocatoria oggetto di causa;
che tutti e tre i motivi – congiuntamente esaminabili in ragione della connessione argomentativa istituita dal medesimo ricorrente sono, in parte, manifestamente infondati, altrove inammissibili;
che, preliminarmente, osserva il Collegio) come la corte territoriale abbia ritualmente rilevato la tardività dell’eccezione sollevata dagli odierni ricorrenti in relazione all’applicabilità dell’art. 2901 c.c., comma 3, essendosi il giudice d’appello correttamente conformata all’insegnamento della giurisprudenza di questa Corte, secondo cui l’esenzione dalla revocatoria ordinaria, prevista per l’adempimento di un debito scaduto, integra un’eccezione in senso stretto, presupponendo l’allegazione in giudizio di fatti impeditivi non rilevabili d’ufficio (Sez. 3, Sentenza n. 16793 dei 13/08/2015, Rv. 636389 – 01);
che, peraltro, varrà rilevare come i ricorrenti non abbiano neppure idoneamente contestato la ratio decidendi fatta propria nella sentenza impugnata (cfr. pag. 6) in ordine alla carenza di una specifica, chiara e inequivoca eccezione di parte;
che, ciò posto, correttamente la corte territoriale ha evidenziato come, nel quadro degli atti depositati dai convenuti nei corso dei giudizio di primo grado, non fosse mai stato articolato in alcun modo, neppure indirettamente, l’argomentazione diretta a sostenere la prospettata interpretazione della finalità solutoria delle cessioni impugnate in funzione dell’applicabilità dell’art. 2901 c.c., comma 3;
che, proprio in relazione a tale interpretazione degli atti processuali della parte – fermo l’assorbente rilievo del carente adempimento, da parte dei ricorrenti, degli oneri di completa e rigorosa allegazione del ricorso, imposti dall’art. 366 c.p.c., n. 6 e art. 369 c.p.c., n. 4 – varrà sottolineare l’insindacabilità, nei merito, dell’interpretazione fatta propria dei giudice in relazione di tali atti processuali;
che, al riguardo, varrà richiamare il principio consolidato nella giurisprudenza di questa Corte, alla stregua del quale l’interpretazione operata dal giudice di appello, riguardo ai contenuto e all’ampiezza delle domande e delle eccezioni proposte dalle parti, è assoggettabile al controllo di legittimità limitatamente alla valutazione della logicità e congruità della motivazione e, al riguardo, il sindacato della Corte di cassazione comporta l’identificazione della volontà della parte in relazione alle finalità dalla medesima perseguite, in ambito in cui, in vista del predetto controllo, tale volontà si ricostruisce in base a criteri ermeneutici assimilabili a quelli propri del negozio, diversamente dall’interpretazione riferibile ad atti processuali provenienti dal giudice, ove la volontà dell’autore è irrilevante e l’unico criterio esegetico applicabile è quello della funzione obiettivamente assunta dall’atto giudiziale(Sez. L, Sentenza n. 17947 del 08/08/2006, Rv. 591719 – 01; Sez. L, Sentenza n. 2467 dei 06/02/2006, Rv. 586752 – 01);
che, peraltro, ii giudice del merito, diretta all’individuazione del contenuto e della portata della volontà falle parti sottoposta alla sua cognizione, non à tenuto a uniformatasi al tenore letterale degli atti nei quali esse sono contenute, ma deve, per converso, avere riguardo al contenuto sostanziale della pretesa falla valere, come desumibile dalla natura delle vicende dedotte e rappresentate dalla parte istante (Sez. 3, Sentenza n. 21087 del 19/10/2015, Rv.637475 – 01);
che, nella specie, i ricorrenti, lungi dallo specificare i modi o le forme dell’eventuale scostamento dei giudice a quo dai canoni ermeneutici legali che ne orientano il percorso interpretativo (anche) della domanda e delle eccezioni delle parti, risultano essersi limitati ad argomentare unicamente il proprio dissenso dall’interpretazione fornita dal giudice d’appello, così risolvendo le censure proposte ad una questione di fatto non proponibile in sede di legittimità;
che, sotto altro profilo, le censure dei ricorrenti dirette a contestare la riconosciuta sussistenza dei presupposti oggettivi e soggettivi per l’accoglimento dell’azione revocatoria devono ritenersi inammissibili;
che, al riguardo, è appena i caso di considerare come, attraverso le doglianze articolate in questa sede, ricorrenti – lungi dal denunciare l’erronea ricognizione, da parte del provvedimento impugnato, della fattispecie astratta recata dalle norme di legge richiamate – si siano limitati alla allegazione di un’erronea ricognizione, da parte del giudice a quo, della fattispecie concreta a mezzo delle risultanze di causa: operazione che non attiene all’esatta interpretazione della norma di legge, inerendo bensì alla tipica valutazione del giudice di merito, la cui censura è possibile, in sede di legittimità, unicamente sotto l’aspetto del vizio di motivazione (cfr. ex plurimis, Sez. l, Sentenza n. 7394, del 26/03/2010, Rv. 612745; Sez. 5, Sentenza n. 26110 del 30/12/2015, Rv. 638171), neppure coinvolgendo, la prospettazione critica dei ricorrenti, l’eventuale falsa applicazione delle norme richiamate sotto il profilo dell’erronea sussunzione giuridica di un fatto in sè incontroverso, insistendo propriamente gli stessi nella prospettazione di una diversa ricostruzione dei fatti di causa, rispetto a quanto operato dal giudice a quo;
che, infatti, osserva il Collegio come la combinata delle circostanze di fatto indicate dalle corte territoriale a fondamento del ragionamento probatorio in concreto eseguito (secondo il meccanismo presuntivo di cui all’art. 2729 c.c.,) non può in alcun modo considerarsi fondata su indici privi, ictu oculi, di quella minima capacità rappresentativa suscettibile di giustificare apprezzamento ricostruttivo che il giudice del merito ha ritenuto di porre a fondamento del ragionamento probatorio argomentato in sentenza;
che, nel caso di specie, al di là del formale richiamo contenuto nell’epigrafe del motivo d’impugnazione in esame, al vizio di violazione e falsa applicazione di legge, l’ubi consistam censure sollevate dagli odierni ricorrenti deve piuttosto individuarsi nella negata congruità dell’interpretazione fornita dalla corte territoriale dei contenuto rappresentativo degli elementi di prova complessivamente acquisiti, dei fatti di causa o de rapporti tra le parti ritenuti rilevanti;
che si tratta, come appare manifesto, di un’argomentazione critica con evidenza diretta a censurare una (tipica) erronea ricognizione della fattispecie concreta, di necessita mediata contestata valutazione delle risultanze probatorie di causa; e pertanto di una tipica censura diretta a denunciane ii vizio di motivazione in cui sarebbe incorso il provvedimento impugnato;
che, ciò posto, il motivo d’impugnazione così formulato deve ritenersi inammissibile, non essendo consentito alla parte censurare come violazione di norma di diritto, e non come vizio di motivazione, un errore in cui si assume che sia incorso il giudice di merito nella ricostruzione di un fatto giuridicamente rilevante, sul quale la sentenza doveva pronunciarsi (Sez. 3, Sentenza n. 10385 del 18/05/2005, Rv. 581564; Sez. 5, Sentenza n. 9185 del 21/04/2011, Rv. 616892), non potendo ritenersi neppure soddisfatti i requisiti minimi previsti dall’art. 360 c.p.c., n. 5, ai fini del controllo della legittimità della motivazione nella prospettiva dell’omesso esame di fatti decisivi controversi tra le parti che, conseguentemente, sulla base di tali premesse, rilevala la complessiva manifesta infondatezza delle censure esaminate, dev’essere pronunciato il rigetto del ricorso, cui segue la condanna dei ricorrenti al rimborso, in favore dei controricorrenti, delle spese del presente giudizio, secondo la liquidazione di cui al dispositivo, oltre l’attestazione della sussistenza dei presupposti per il pagamento del doppio contributo, ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1-quater.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso e condanna i ricorrenti al rimborso, in favore dei controricorrenti, delle spese del giudizio di legittimità, liquidate in Euro 4.500,00, oltre alle spese forfettarie nella misura del 15%, agli esborsi liquidati in Euro 200,00, e agli accessori come per legge.
Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1-quater, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte dei ricorrenti, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis.
Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della Sesta Sezione Civile – 3, della Corte Suprema di Cassazione, il 13 giugno 2019.
Depositato in Cancelleria il 20 novembre 2019