LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE SESTA CIVILE
SOTTOSEZIONE L
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. DORONZO Adriana – Presidente –
Dott. RIVERSO Roberto – Consigliere –
Dott. SPENA Francesca – Consigliere –
Dott. CAVALLARO Luigi – Consigliere –
Dott. DE FELICE Alfonsina – rel. Consigliere –
ha pronunciato la seguente:
ORDINANZA
sul ricorso 11864-2018 proposto da:
Z.T., elettivamente domiciliata in ROMA, VIA ALBERTO BREGLIA 54, presso lo studio dell’avvocato VALERIO COLAPAOLI, rappresentata e difesa dall’avvocato LORENZO RONCA;
– ricorrente –
contro
S.S., elettivamente domiciliato in ROMA, VIALE GORIZIA 14, presso lo studio dell’avvocato FRANCO SABATINI, che lo rappresenta e difende;
– controricorrente –
avverso la sentenza n. 15/2018 della CORTE D’APPELLO di L’AQUILA, depositata il 18/01/2018;
udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio non partecipata del 19/06/2019 dal Consigliere Relatore Dott. ALFONSINA DE FELICE.
RILEVATO
che:
la Corte d’appello di L’Aquila, a conferma della sentenza del Tribunale di Pescara, ha rigettato l’appello di Z.T., assistente domiciliare, la quale aveva chiesto accertarsi la sussistenza di un rapporto di lavoro alle dipendenze di S.S., assumendo di aver ricevuto dallo stesso direttive concernenti lo svolgimento della prestazione, resa nei confronti della zia S.I., la quale secondo i giudici del merito risultava l’effettiva datrice di lavoro;
la Corte territoriale ha escluso altresì la responsabilità solidale di S.S. nei confronti degli obblighi contratti dall’assistita verso Z.T., rilevando in particolare che l’appellante non avesse prospettato in giudizio il principio dell’apparenza, operante quando il lavoratore dimostri che, nel concludere il contratto, aveva fatto affidamento sulla circostanza che il contraente avesse agito in nome e per conto dell’altro;
ha accertato che le due dimore di S.I. e di S.S., collocate rispettivamente in un attico e in un superattico, non rappresentavano la prova di una stabile convivenza, costituendo – ai fini catastali – due autonome unità abitative;
la cassazione della sentenza è domandata da Z.T. sulla base di tre motivi; S.S. ha resistito con tempestivo controricorso, illustrato da successiva memoria;
è stata depositata proposta ai sensi dell’art. 380 – bis c.p.c., ritualmente comunicata alle parti unitamente al decreto di fissazione dell’adunanza in Camera di consiglio.
CONSIDERATO
che:
col primo motivo, formulato ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3 e 5, la ricorrente contesta “Violazione e falsa applicazione dell’art. 115 e 244 c.p.c. e dell’art. 2697 c.c. – Insufficiente e contraddittoria motivazione in ordine all’ammissione delle prove orali richieste e sui connessi punti decisivi della controversia”; deduce l’erroneità della decisione in quanto basata su presupposti falsati da una gestione non accorta degli elementi probatori articolati dalla difesa di parte e tesi a dimostrare la sussistenza di un potere direttivo esercitato nei suoi confronti da S.S. e, dunque, della legittimazione passiva di quest’ultimo nel giudizio;
col secondo motivo, formulato ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3 e 5, lamenta “Violazione e falsa applicazione del principio dell’apparenza di cui alla sentenza Cassazione civile n. 1016/2015 – Omessa, insufficiente, contraddittoria motivazione su un punto decisivo della controversia”; critica la decisione per non aver ritenuto applicabile alla fattispecie il principio dell’apparenza, in ragione della erronea mancata deduzione dello stesso nel ricorso introduttivo del giudizio di merito; la corretta applicazione del principio invocato avrebbe, infatti, consentito di portare definitivamente alla luce la dicotomia, sussistente nel caso controverso, tra datore di lavoro formale ed effettivo;
col terzo motivo, formulato ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3 e 5, contesta “Violazione e falsa applicazione dell’art. 39, comma VIII, del CCNL di categoria, degli artt. 115 e 244 c.p.c. – Omessa, insufficiente, contraddittoria motivazione su un punto decisivo della controversia”;
il motivo si appunta sul valore conferito dal CCNL di categoria alla responsabilità solidale dei congiunti conviventi nei confronti del collaboratore domestico, e sull’assenza di prova dell’indipendenza dell’appartamento di S.S. rispetto a quello della zia Iole, la quale non sarebbe stata contraddetta nè dalle testimonianze rese in giudizio, nè dalla visura catastale dell’immobile allegata dall’odierno controricorrente;
il primo motivo va dichiarato inammissibile;
sotto il primo dei due profili dedotti, le prospettazioni della ricorrente deducono solo apparentemente una violazione di legge, là dove mirano, in realtà, alla rivalutazione dei fatti operata dal giudice di merito;
va, pertanto, nel caso in esame, data attuazione al costante orientamento di questa Corte, che reputa “…inammissibile il ricorso per cassazione con cui si deduca, apparentemente, una violazione di norme di legge mirando, in realtà, alla rivalutazione dei fatti operata dal giudice di merito, così da realizzare una surrettizia trasformazione del giudizio di legittimità in un nuovo, non consentito, terzo grado di merito” (Cass. n. 18721 del 2018; Cass. n. 8758 del 2017);
il secondo motivo, sotto l’aspetto concernente la violazione del principio dell’apparenza è inammissibile per mancanza di specificità;
la ricorrente non produce e non trascrive l’atto introduttivo del giudizio di secondo grado dove avrebbe prospettato il principio dell’apparenza, nè indica in quale fase del giudizio ne ha invocato l’applicazione da parte del giudice di merito in ossequio al principio di specificazione e di allegazione di cui all’art. 366 c.p.c., n. 4 ed all’art. 369 c.p.c., n. 6;
in conformità a quanto ripetutamente affermato da questa Corte, il ricorso per cassazione deve contenere in sè tutti gli elementi necessari a costituire le ragioni per cui si chiede la cassazione della sentenza di merito e, altresì, a permettere la valutazione della fondatezza di tali ragioni, senza la necessità di far rinvio ed accedere a fonti esterne allo stesso ricorso e, quindi, ad elementi od atti attinenti al pregresso giudizio di merito (cfr. ex multis, Cass. n. 27209 del 2017; Cass. n. 12362 del 2006);
il terzo motivo è improcedibile;
parte ricorrente non produce il contratto collettivo dalla cui asserita violazione fa scaturire l’erroneità della pronuncia impugnata; secondo il principio di diritto affermato dalla costante giurisprudenza di questa Corte “Nel giudizio di cassazione, l’onere di depositare i contratti e gli accordi collettivi – imposto, a pena di improcedibilità del ricorso, dall’art. 369 c.p.c., comma 2, n. 4, – può dirsi soddisfatto solo con la produzione del testo integrale del contratto collettivo, adempimento rispondente alla funzione nomofilattica della Corte di cassazione e necessario per l’applicazione del canone ermeneutico previsto dall’art. 1363 c.c.; nè, a tal fine, può considerarsi sufficiente il mero richiamo, in calce al ricorso, all’intero fascicolo di parte del giudizio di merito, ove manchi una puntuale indicazione del documento nell’elenco degli atti.”(ex plurimis, da ultimo, cfr. Cass. n. 6255 del 2019);
sotto il diverso profilo dell’omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione su punti decisivi della controversia, i tre motivi di ricorso devono essere valutati congiuntamente per connessione, e se ne dichiara l’inammissibilità, in presenza di una “doppia conforme”;
in base al costante orientamento di legittimità, “Nell’ipotesi di “doppia conforme”, prevista dall’art. 348- ter c.p.c., comma 5, (applicabile, ai sensi del D.L. n. 83 del 2012, art. 54, comma 2, conv., con modif., dalla L. n. 134 del 2012, ai giudizi d’appello introdotti con ricorso depositato o con citazione di cui sia stata richiesta la notificazione dal giorno 11 settembre 2012), il ricorrente in cassazione – per evitare l’inammissibilità del motivo di cui all’art. 360 c.p.c., n. 5 (nel testo riformulato dal D.L. n. 83 cit., art. 54, comma 3 ed applicabile alle sentenze pubblicate dal giorno 11 settembre 2012) – deve indicare le ragioni di fatto poste a base, rispettivamente, della decisione di primo grado e della sentenza di rigetto dell’appello, dimostrando che esse sono tra loro diverse.”(cfr. Cass. n. 26774 del 2016; Cass. n. 19001 del 2016; Cass. n. 5528 del 2014);
in definitiva, il ricorso va dichiarato inammissibile; le spese, come liquidate in dispositivo, seguono la soccombenza;
in considerazione dell’esito del giudizio, sussistono i presupposti per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso.
PQM
La Corte dichiara inammissibile il ricorso. Condanna la ricorrente al rimborso delle spese del giudizio di legittimità in favore del controricorrente, che liquida in Euro 200 per esborsi, Euro 2000 per compensi professionali, oltre spese generali nella misura forfetaria del 15 per cento e accessori di legge.
Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento da parte della ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso a norma dello stesso art. 13, comma 1 – bis, ove dovuto.
Così deciso in Roma, all’Adunanza camerale, il 19 giugno 2019.
Depositato in Cancelleria il 27 novembre 2019