Corte di Cassazione, sez. V Civile, Ordinanza n.14851 del 13/07/2020

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LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TRIBUTARIA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. VIRGILIO Biagio – Presidente –

Dott. FUOCHI TINARELLI Giuseppe – Consigliere –

Dott. CATALLOZZI Paolo – Consigliere –

Dott. ANTEZZA Fabio – Consigliere –

Dott. NOCELLA Luigi – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso iscritto al n. 14424/2013 R.G. proposto da:

CONFEZIONI GIEMMECI S.r.l., P.I. *****, con sede in Marcianise, Strada Interconsortile ASI, rapp.ta e difesa, giusta procura in calce al ricorso, dall’Avv. Gianpaolo Iaselli del Foro di S. Maria C.V., elett.te dom.ta presso lo studio dell’avv. Claudio Marcone in Roma, Via della Camilluccia n. 19;

– ricorrente –

Contro

AGENZIA delle ENTRATE, C.F. *****, rappresentata e difesa dall’Avvocatura Generale dello Stato, presso la quale è domiciliata in Roma, via dei Portoghesi n. 12;

– controricorrente –

avverso la sentenza della Commissione Tributaria Regionale della Campania n. 312/18/12, depositata il 3 dicembre 2012, non notificata.

Udita la relazione svolta nella camera di consiglio del 12 novembre 2019 dal Cons. Luigi Nocella.

FATTI DI CAUSA

La s.r.l. Confezioni GIEMMECI proponeva innanzi alla CTP di Caserta ricorso avverso l’avviso di accertamento N. *****, notificato il 27.03.2010, con il quale l’Agenzia delle Entrate – Ufficio di Caserta rideterminava per l’esercizio 2006 una minore perdita IRES di Euro 47.677,00, una maggiore IRAP di Euro 3.173,00 ed una maggiore IVA per Euro 37.860,00, contestando l’indebita omessa denuncia di maggiori costi di mano d’opera irregolare per Euro 189.299,50.

La Società deduceva la nullità dell’avviso di accertamento sia per omessa allegazione della delega del Capo dell’Ufficio al funzionario firmatario dell’avviso, che per mancata previa emissione di invito a comparire ai sensi del D.Lgs. n. 218 del 1997, ex art. 5; erronea applicazione del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 39, comma 1, lett. d, per mancata indicazione della fonte probatoria da cui era tratto il numero dei lavoratori irregolari accertati e della percentuale di incidenza dei maggiori costi sui ricavi; violazione dell’art. 2697 c.c. ed illogica motivazione per non aver considerato, nella determinazione dei maggiori redditi, il principio dei rendimenti marginali decrescenti.

La CTP adita, con sentenza n. 141/03/2011, respingeva il ricorso; quindi, con la pronuncia oggetto della presente impugnazione, la CTR della Campania ha respinto l’appello della Società, confermando la sentenza appellata e compensando le spese di lite d’appello.

In particolare il giudice d’appello ha escluso le nullità dell’avviso, sotto il primo profilo perchè la Società non aveva contestato l’esistenza di legittima delega nè aveva chiesto la produzione degli atti ad essa relativi, sotto il secondo perchè l’avviso era stato emesso in seguito a verifica di natura contabile documentata da p.v.c., regolarmente notificato al legale rapp.te della Società, e quindi non sarebbe applicabile l’invocato art. 5, peraltro privo di sanzione d’inefficacia dell’accertamento. Nel merito evidenzia come il dato della presenza al lavoro di 34 dipendenti non registrati emerge con chiarezza dal p.v.c., atto avente fede privilegiata in ordine agli accertamenti in esso registrati, e che lo stesso è indizio sufficiente a consentire la presunzione di maggiori ricavi.

La GIEMMECI ricorre per la cassazione di tale sentenza, con atto notificato il 29.05.2013, fondato su cinque motivi.

L’Agenzia delle Entrate ha notificato in data 8 luglio 2013 controricorso, concludendo per il rigetto del ricorso.

Nella camera di consiglio del 12.11.2019, all’esito della relazione del cons. *****, la Corte ha deciso.

RAGIONI DELLA DECISIONE

Con il primo motivo i ricorrenti denunciano violazione e falsa applicazione, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 42, poichè la CTR avrebbe disapplicato il principio secondo il quale l’Agenzia, in caso di mera contestazione dell’esercizio del potere di delega da parte del dirigente, sarebbe onerata in sede giurisdizionale della prova dell’avvenuto corretto esercizio dello stesso, e nel provvedimento dovrebbe essere menzionata la fonte del potere delegato; onere al quale l’Amm.ne Finanziaria non avrebbe ottemperato in nessuno dei gradi di giudizio di merito.

Il motivo è inammissibile ed infondato.

In primo luogo la censura non coglie l’esatta ratio decidendi della pronuncia impugnata, che ha ritenuto che l’eccezione sollevata dalla Società concernesse non già l’avvenuto esercizio del potere di delega, bensì il preteso obbligo di allegazione del provvedimento di delega all’atto di accertamento, affermando espressamente che “il contribuente non ha chiesto al Giudice adito il deposito dell’atto contenente i poteri dei dirigenti che hanno sottoscritto avviso”; e tale interpretazione dei motivi d’impugnazione del provvedimento non è stata contrastata sotto alcun profilo dalla Società ricorrente.

In effetti questa per un verso ha riproposto la tesi dell’obbligo di allegazione dell’atto attributivo dei poteri ai funzionari delegati e firmatari dell’atto impugnato, tesi peraltro già ripetutamente disattesa da questa Corte (recentemente Cass. sez. V 29.03.2019 n. 8814; Cass. sez. VI-V ord. 26.03.2018 n. 5200); per altro verso ha richiamato la giurisprudenza di questa Corte che, in caso di contestazione in sede giurisdizionale, impone all’Amm.ne Finanziaria l’onere di provare il corretto esercizio della delega, senza tuttavia specificare se e con quali modalità essa ricorrente avesse, nei precedenti gradi del giudizio, sollevato la contestazione, nè dare conto dell’eventuale avvenuta esibizione da parte dell’Agenzia ed efficacia probatoria dei documenti giustificativi dei poteri di firma, dei quali ha dato atto la CTP nella sentenza di primo grado (cfr. allegato 5 al controricorso dell’Agenzia richiamato a pag.20 dello stesso). Tali carenti modalità di articolazioni della censura sostanziano un difetto di autosufficienza del motivo ai sensi dell’art. 366 c.p.c., comma.

Con il secondo motivo la Società GIEMMECI lamenta violazione e falsa applicazione del D.Lgs. n. 218 del 1997, art. 5, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, per avere la CTR confuso la dedotta nullità con il disposto del medesimo Decreto, art. 6. Anche in tal caso il motivo è articolato mediante mera sintesi del disposto della norma invocata, ma senza investire la motivazione adottata dalla CTR (pag. 4 righe 6-13 della sentenza oggetto di ricorso) in ordine alla specifica eccezione già proposta dalla parte nei gradi di merito del giudizio, rivelandosi sotto tale profilo inammissibile. Peraltro la Società ricorrente neppure tiene conto della circostanza che, dalla stessa narrativa in fatto della sentenza d’appello, emerge come essa aveva comunque proposto istanza di accertamento per adesione dopo la notifica dell’avviso di accertamento, proprio avvalendosi del combinato disposto dell’art. 5 invocato con il medesimo D.Lgs., art. 6 comma 2, che, legittimando, in caso di mancato previo invito a comparire, l’attivazione del contraddittorio amministrativo ad istanza del contribuente prima del contenzioso giurisdizionale, realizza appunto la ratio legis di definizione extra-giudiziale delle liti potenziali ed indica le effettive conseguenze del mancato invito, escludendo implicitamente qualsiasi vizio sostanziale o formale dell’avviso (cfr. in tal senso Cass. sez. V 14.01.2015 n. 444).

Con il terzo motivo la GIEMMECI lamenta violazione e falsa applicazione della L. n. 212 del 2000, art. 7, comma 1, per avere la CTR ritenuto non necessaria l’allegazione all’avviso impugnato del p.v.c. sulla cui base sono articolate le contestazioni dell’Ufficio, a pena di nullità in difetto; il tutto alla luce dei principi generali ricavabili anche dalla L. n. 241 del 1990, art. 3 comma 1 e dalla nuova formulazione dell’art. 111 Cost..

Anche tale doglianza è infondata. Invero la CTR ha correttamente affermato, in conformità al disposto del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 42 comma 2 ult. periodo ed alla costante giurisprudenza di questa Corte, che l’obbligo di allegazione di atti richiamati nell’avviso sussiste soltanto quando questi siano “non conosciuti nè ricevuti dal contribuente” (cfr. Cass. sez. V 14.01.2015 n. 407; Cass. sez. V 14.12.2014 n. 26527); e la CTR ha affermato, operando un accertamento non investito da censura nè direttamente nè indirettamente, che “Nel caso di specie il p.v.c. risultava sottoscritto dal rappresentante della Società verificata”, evidenziando la carenza di un presupposto essenziale per l’operatività della dedotta causa di nullità dal quale l’articolazione del motivo prescinde totalmente.

Con il quarto motivo la Società ricorrente lamenta falsa applicazione del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 39, lett. d, perchè, senza motivazione alcuna, i Giudici d’appello avevano ritenuto legittimo il ricorso all’accertamento con metodo induttivo, nonostante gli accertatori non avessero riscontrato alcuna incompletezza, falsità o inesattezza delle scritture contabili, ma si erano limitati a constatare che, dal riscontro tra personale dipendente registrato nei libri paga e matricola e quello in attività di lavoro, era emersa “la presenza di n. 34 lavoratori irregolari”, rinvenuti “in sede di accesso intenti a svolgere mansioni lavorative nei locali dell’azienda”, senza indicazione della fonte di tale dato e della inadeguatezza della sola componente forza lavoro per rideterminare induttivamente i ricavi. Seguono altre sparse considerazioni circa la percentuale di ricarico applicata nell’avviso di accertamento e la sua natura di presunzione di secondo grado, di per sè priva dei requisiti prescritti nell’art. 2727 c.c..

Infine con l’ultimo motivo lamenta, senza indicare il parametro di ammissibilità ai sensi dell’art. 360 c.p.c., omesso esame della censura d’appello circa la violazione dell’art. 2697 c.c. perchè la CTR avrebbe manifestato “atto di fede nei confronti di un p.v.c. solo perchè redatto dalla G.d.F.”, sostenendo che unica efficacia probatoria vincolante sarebbe attribuita dal D.P.R. n. 600 del 1973, art. 61 comma 3, alle scritture contabili dell’imprenditore regolarmente tenute, sotto alcun profilo giudicate irregolarmente tenute, ed evincendone che l’Agenzia delle Entrate si era sottratta al suo onere di provare i fatti posti a fondamento dell’avviso impugnato.

Entrambi i motivi, da esaminare congiuntamente, sono infondati. Il quarto muove da una non corretta qualificazione dell’accertamento impugnato come induttivo puro ai sensi del D.P.R. n. 600 del 1973, ex art. 39, comma 2, lett. d), laddove, secondo la medesima ricostruzione in fatto contenuta nella sentenza impugnata e non censurata sotto tale profilo, gli accertatori, sulla scorta dell’incontestato dato di fatto della presenza di ben n. 34 lavoratori non registrati nei libri paga e matricola ed i cui costi di retribuzione non erano ovviamente considerati in conto economico (dato che, per entità numerica e per la riscontrata esistenza di fogli di presenza non ufficiali era di per sè grave, denotando sistematicità nell’infedeltà della dichiarazione, sarebbe stato adeguato a ritenere inattendibile l’intera documentazione), avevano semplicemente rielaborato la situazione reddituale ed ai fini IVA ed IRAP della Società, inserendo tra i maggiori ricavi presumibili l’ammontare minimo costituito dal costo medio della manodopera, calcolato questo sì induttivamente, lasciando immodificata ogni altra parte del conto economico e quindi del risultato dell’esercizio, e modificando nella medesima limitata misura il calcolo dell’IVA e dell’IRAP; si è trattato pertanto di un accertamento c.d. analitico induttivo, per operare il quale l’Agenzia non ha completamente obliterato le scritture contabili, ma soltanto le poste relative ai costi della mano d’opera, presumendo ovviamente che l’impiego della maggiore forza lavoro abbia determinato un risultato d’esercizio ed un imponibile IVA ed IRAP più favorevoli nella corrispondente misura (cfr. tra le ultime di un orientamento costante, Cass. sez. V ord. 8.03.2019 n. 6861; Cass. sez. V ord. 11.04.2018 n. 8923; Cass. sez. V ord. 29.09.2017 n. 22868). Ciò comporta, come enunciato nelle menzionate pronunce, che tale tipo di accertamento, contrariamente a quanto lamentato dalla Società ricorrente, possa essere eseguito anche nel caso in cui le scritture contabili risultino complessivamente e formalmente corrette e che gli eventuali maggiori componenti negativi del reddito corrispondenti ai maggiori ricavi accertati debbano essere provati dal contribuente.

Dalle svolte considerazioni deriva che la CTR non ha dovuto fondare la sua decisione se non sul dato storico, accertato nel p.v.c. e non contestato dalla ricorrente, che anzi ha dato atto di aver successivamente provveduto alla regolarizzazione previdenziale ed assicurativa dei 34 lavoratori irregolari, dal quale deriva l’inferenza presuntiva dell’occultamento di consistentissime e rilevantissime componenti negative di reddito e delle corrispondenti componenti positive. Inoltre la Società ricorrente infondatamente invoca il D.P.R. n. 600 del 1973, art. 61, comma 3, il quale impedisce al solo contribuente di fornire la prova di circostanze non documentate nelle (o contrarie al contenuto delle) scritture contabili, salve le eccezioni successivamente indicate; laddove il processo verbale di constatazione, al pari di tutti gli atti pubblici, è assistito da fede privilegiata “relativamente ai fatti attestati dal pubblico ufficiale come da lui compiuti o avvenuti in sua presenza senza alcun margine di apprezzamento o di percezione sensoriale…” (cfr. da ultimo Cass. sez. V 24.11.2017 n. 28060), quale certamente è la constatata presenza ed individuazione dei lavoratori non registrati.

In conclusione, il ricorso va respinto, con la conseguente conferma della sentenza impugnata. Alla soccombenza segue la condanna della Società ricorrente alla rifusione delle spese di questo giudizio, nonchè la dichiarazione dell’obbligo di versamento da parte della medesima Società del contributo unificato integrativo, in misura pari a quella già dovuta per il ricorso principale, ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma l quater.

PQM

La Corte respinge il ricorso e condanna la Società ricorrente a rifondere in favore dell’Agenzia delle Entrate le spese di questo giudizio di Cassazione, che liquida in complessivi Euro 6.000,00, oltre spese prenotate a debito.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso principale ai sensi dello stesso art. 13, ex comma 1 bis, se dovuto.

Così deciso in Roma, il 12 novembre 2019.

Depositato in Cancelleria il 13 luglio 2020

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