Corte di Cassazione, sez. I Civile, Ordinanza n.9025 del 15/05/2020

Pubblicato il

Condividi su FacebookCondividi su LinkedinCondividi su Twitter

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE PRIMA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. DE CHIARA Carlo – Presidente –

Dott. SCOTTI Umberto Luigi – Consigliere –

Dott. TRICOMI Laura – Consigliere –

Dott. FALABELLA Massimo – rel. Consigliere –

Dott. AMATORE Roberto – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 17415/2015 proposto da:

BG Fiduciaria S.I.M., già IntesaBci Fiduciaria S.I.M., in persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in Roma, Via Antonio Gramsci n. 14, presso lo studio dell’avvocato Hernandez Federico, che la rappresenta e difende unitamente agli avvocati Pontiroli Luciano, Sedran Maria Francesca, giusta procura in calce al ricorso;

– ricorrente –

contro

C.S., elettivamente domiciliata in Roma, Viale Mazzini n. 11, presso lo studio dell’avvocato Stella Richter Paolo, che la rappresenta e difende unitamente all’avvocato Forlati Zeno, giusta procura in calce al controricorso e ricorso incidentale;

– controricorrente e ricorrente incidentale –

avverso la sentenza n. 1325/2015 della CORTE D’APPELLO di VENEZIA, depositata il 18/05/2015;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del 28/02/2020 dal cons. Dott. FALABELLA MASSIMO.

FATTI DI CAUSA

1. – La sentenza impugnata così riassume la vicenda portata all’esame di questa Corte.

C.S. conveniva in giudizio, avanti al Tribunale di Padova, Intesa BCI Fiduciaria S.I.M. s.p.a. deducendo di averle conferito in data 1 febbraio 1999 un mandato di gestione fiduciaria, sottoscrivendo il testo contrattuale standard insieme all’allegato descrittivo delle caratteristiche di gestione. La stessa attrice aveva affidato alla suddetta società la somma di Euro 459.376,57, a cui si era aggiunta l’ulteriore somma di Euro 113.620,18. La gestione patrimoniale si era rivelata estremamente negativa, facendo maturare perdite pari al 30% del capitale investito. In seguito, l’attrice aveva accertato come la società incaricata della gestione patrimoniale “avesse ritenuto il parametro di riferimento, indicato nel contratto, non conforme alle linee di gestione offerte alla clientela e avesse restituito il documento alla sua filiale di Padova per l’integrazione: ciò che sarebbe avvenuto mediante l’unilaterale alterazione della composizione percentuale del parametro e l’inserimento di altri elementi”. Sul presupposto che il contratto di gestione fiduciaria non si fosse perfezionato, posto che la restituzione del documento sottoscritto, allo scopo del suo adeguamento alle indicazioni della società fiduciaria, avrebbe concretato una nuova proposta contrattuale, mai accettata per iscritto dall’attrice, questa domandava la restituzione degli importi relativi al contratto che domandava accertarsi non essersi mai concluso: importi maggiorati degli interessi legali semplici sulle somme dovute dalla data dei versamenti alla domanda, e composti dalla domanda al saldo. Spiegava, poi, in via subordinata, alcune domande che qui più non rilevano.

La società convenuta, costituitasi in giudizio, deduceva di aver rilevato alcune imprecisioni nei documenti contrattuali, trasmessi alla propria filiale di Padova, affinchè si provvedesse alla loro regolarizzazione. Assumeva che l’intervento posto in atto era consistito nell’inserimento all’interno del modulo denominato “linea aperta concordata con il cliente” di parametri di riferimento adeguati alla “linea 5A”; contestava che l’attrice fosse all’oscuro di tale rettifica e che la modificazione dei parametri originariamente inseriti nel documento contrattuale comportasse una modificazione delle caratteristiche della gestione, richiedendo, per tale ragione, un’espressa accettazione da parte dell’investitrice.

In esito al giudizio di primo grado, il Tribunale rigettava la domanda.

2. – Interposto gravame, la sentenza di primo grado era riformata, con condanna dell’appellata, ora denominata BG Fiduciaria SIM s.p.a., al pagamento, in favore di C.S., della somma di Euro 162.350,71, con gli interessi al saggio legale sulle somme dovute dalla data dei versamenti alla data della sentenza, oltre interessi composti dalla data della stessa sentenza al saldo.

Rilevava la Corte di Venezia che, all’interno del contratto di gestione di portafoglio, i parametri di riferimento della gestione (i benchmark), non costituiscono elementi secondari. In particolare, ad avviso del giudice distrettuale, tali parametri integrano “un criterio alla luce del quale valutare l’operato del gestore; essi, seppur non sopprimano la intrinseca discrezionalità del gestore nella ripartizione degli investimenti, nondimeno rappresentano un modello coerente con i rischi connessi alla gestione, modello alla luce del quale poter verificare la diligenza professionale dell’intermediario”. In conseguenza, assumeva rilievo, per la Corte di appello, la mancata documentazione dell’accettazione, da parte dell’investitrice, della intervenuta modifica: infatti la necessaria forma scritta della volontà contrattuale non poteva che “rendere del tutto irrilevanti manifestazioni negoziali non espresse con il requisito formale posto dalla legge ad substantiam”. Ne discendeva che, in assenza di valido ed efficace titolo contrattuale, i pagamenti effettuati dall’appellante risultassero privi di causa: per il che, operata la detrazione dei prelievi effettuati dall’investitrice, la domanda di ripetizione veniva accolta nei termini sopra indicati.

3. – Contro tale sentenza, pubblicata il 18 maggio 2015, ricorre per cassazione BG Fiduciaria SIM, la quale fonda l’impugnazione su tre motivi. Resiste con controricorso C.S.: vi è ricorso incidentale, su due motivi, di quest’ultima. Le parti hanno depositato memorie.

RAGIONI DELLA DECISIONE

1. – Col primo motivo di ricorso viene dedotta la violazione e falsa applicazione dell’art. 12 preleggi, art. 1325 c.c., n. 1 e art. 1326 c.c., comma 5, nonchè art. 6, comma 2 t.u.f, (D.Lgs. n. 58 del 1998) e art. 42 del reg. Consob n. 11522/1998. Viene ricordato come, nella corrispondenza del 13 novembre 2002, indirizzata dall’istante al difensore di controparte, si spiegasse che i benchmark indicati nel contratto (30% obbligazioni italiane, 20% obbligazioni internazionali, 50% azioni Italia) “non erano conformi a nessuna delle tipologie di linee aperte disponibili a cartello”. La ricorrente rileva come non si possa ravvisare nei benchmark un vincolo per il gestore a porre in atto investimenti, in base agli indici individuati, per le percentuali del portafoglio corrispondenti, e che i parametri di riferimento richiesti dall’art. 42 reg. Consob n. 11522/1998 risulterebbero pure estranei al contenuto del contratto. Aggiunge che in base alla suddetta norma l’intermediario deve indicare, non già proporre, all’investitore il parametro di riferimento: espressione, questa, che esclude la necessità di un’accettazione del parametro da parte di quest’ultimo soggetto. Assume, inoltre, che “la chiara funzionalità che la norma in esame attribuisce alla considerata commisurazione dei risultati della gestione ad un dato esterno impedisce di ravvisare nel parametro di riferimento un vincolo alla condotta del gestore e, quindi, smentisce l’assunto della Corte territoriale per cui esso debba essere oggetto delle negoziazioni tra le parti del contratto di gestione”. Secondo la ricorrente, la Corte di appello sarebbe pure incorsa nell’erronea applicazione dell’art. 1326 c.c., per non aver distinto l’ipotesi di modifica del contratto di gestione da quella di inserimento all’interno dello stesso di mere precisazioni, e per non aver considerato che quel che rilevava, nella fattispecie, era la volontà dei contraenti di ritenere concluso il vincolo, indipendentemente dalla circostanza che fosse stata o meno raggiunta l’intesa su tutti i punti – principali o secondari – del contratto.

Con il secondo motivo di ricorso, sono dedotte la violazione e falsa applicazione dell’art. 1325 c.c., n. 1 e art. 1418 c.c., commi 1 e 2, e dell’art. 24 t.u.f. L’istante invoca le sentenze nn. 26724 e 26725 delle Sezioni Unite per rilevare come, alla luce di tali pronunce, l’inosservanza dei doveri di informazione precontrattuale non comportino la violazione di norme imperative, quanto semmai una responsabilità dell’intermediario.

I due motivi, da esaminarsi congiuntamente, sono infondati.

Prescrive l’art. 23, comma 1 t.u.f., che i contratti relativi alla prestazione dei servizi di investimento devono avere la forma scritta a pena di nullità. Tale prescrizione è integrata, nella vigenza del reg. Consob n. 11522 del 1998, dall’art. 30, comma 2 medesimo, che precisa quale contenuto debba avere il contratto tra l’intermediario e l’investitore; l’art. 37 dello stesso regolamento reca, al riguardo, prescrizioni aggiuntive specificamente riferite al contratto di gestione di portafogli. In base alla lett. a) cit. art. tale contratto deve indicare le caratteristiche della gestione, mentre l’art. 38 spiega cosa debba intendersi con tale locuzione, precisando, alla lett. d), che esso ricomprende il “il parametro oggettivo di riferimento al quale confrontare il rendimento della gestione”. A sua volta, l’art. 42 del cit. reg. Consob n. 11522/1998 dispone che, ai fini della definizione delle caratteristiche della gestione, l’intermediario deve indicare all’investitore un parametro oggettivo di riferimento coerente con i rischi a essa connessi al quale commisurare i risultati della gestione e che tale parametro deve essere costruito facendo riferimento a indicatori finanziari elaborati da soggetti terzi e di comune utilizzo.

Il parametro in questione, denominato correntemente benchmark, è idoneo a esprimere il profilo relativo al rischio e al rendimento della gestione patrimoniale; definisce obiettivi di investimento e livelli di aleatorietà della gestione, così delimitando la discrezionalità dell’intermediario, e al contempo fornisce un criterio di giudizio per valutare ex post i risultati dell’attività di questo. Come è stato già osservato da questa Corte, il benchmark costituisce infatti un parametro oggettivo coerente con i rischi connessi alla gestione, il quale, se anche non impone al gestore di acquistare titoli nelle proporzioni indicate, rappresenta un modo per valutare la razionalità e l’adeguatezza dell’attività dell’intermediario, per modo che, ove la gestione sia risultata in contrasto con il predetto parametro e, quindi, con i rischi contrattualmente assunti dagli investitori, l’intermediario risponde delle perdite che gli stessi abbiano, per l’effetto, subito (Cass. 3 gennaio 2017, n. 24; in tema pure Cass. 1 dicembre 2016, n. 24545, secondo cui il benchmark, configurandosi come un parametro oggettivo di riferimento coerente con i rischi connessi alle singole gestioni, cui commisurare i relativi risultati, concorre a definire, sia pur indirettamente, mediante una selezione di indici e l’esemplificazione di tipologie d’investimento, il massimo grado di rischio al quale l’investitore ha inteso contrattualmente esporsi).

La prevista documentazione dei richiamati “parametri oggettivi di riferimento” obbedisce, del resto, alla logica in cui si inscrivono le prescrizioni formali dettate per i contratti di investimento e, più in generale, per i contratti che postulano l’esigenza di correggere l’asimmetria informativa delle parti, garantendo, il più possibile, la trasparenza delle condizioni economiche dell’affare concluso.

L’assunto della società istante, che reputa nella sostanza insussistente la necessità del consenso scritto dell’investitore con riguardo ai benchmark, si rivela dunque fallace: l’indicazione avente ad oggetto tale parametro è contemplata dalla disciplina normativa vigente che, del declinare, sul piano della regolamentazione di dettaglio (in forza dell’art. 6 t.u.f.), l’obbligo di documentazione dell’accordo imposto dall’art. 23, comma 1 t.u.f., assolve alla finalità di protezione dell’investitore che anima detta disposizione (la quale, peraltro, “si riverbera in via mediata sulla regolarità e trasparenza del mercato del credito”: così Cass. Sez. U. 16 gennaio 2018, n. 898) e ripete da essa il presidio della nullità che è ivi comminata per la mancata osservanza del requisito di forma.

Il richiamato ordito normativo consente in altri termini di escludere che l’indicazione del benchmark costituisca un elemento secondario del negozio, come tale sottratto all’obbligo della forma scritta cui soggiace il contratto di investimento in base al cit. art. 23, comma 1: l’art. 30, comma 2 reg. Consob e le altre disposizioni che si sono in precedenza menzionate completano difatti la portata precettiva della suddetta norma del testo unico chiarendo quale contenuto debba presentare il contratto di investimento da redigersi per iscritto (cfr. in tema, anche se con riguardo a un diverso profilo, Cass. 14 giugno 2019, 16106, in motivazione): in tal senso, la conclusione cui è pervenuto il giudice di appello, che ha ritenuto irrilevanti, con riguardo al benchmark, manifestazioni della volontà contrattuale che non fossero rese nella forma richiesta dalla richiamata norma, si rivela del tutto corretta.

Proprio la previsione dell’art. 23, comma 1, cit. dà poi ragione dell’infondatezza di quanto dedotto dalla ricorrente con il secondo motivo di impugnazione. L’affermazione di Cass. Sez. U. 19 dicembre 2007, nn. 26724 e 26725, secondo cui, ove non altrimenti stabilito dalla legge, unicamente la violazione di norme inderogabili concernenti la validità del contratto è suscettibile di determinarne la nullità, e non già la violazione di norme, anch’esse imperative, riguardanti il comportamento dei contraenti – la quale può essere semmai fonte di responsabilità -, è stata formulata avendo riguardo alle ipotesi di contrarietà a norme imperative in difetto di espressa previsione di nullità (nullità per ciò comunemente definita “virtuale”, e contemplata dall’art. 1418 c.c., comma 1), mentre l’art. 23, comma 1, cit. considera espressamente la nullità per difetto di forma (elevando, così, la forma stessa a requisito del contratto, ex art. 1325 c.c. e art. 1418 c.c., comma 2): sicchè quanto osservato dall’istante sulla necessità di ricondurre la violazione dell’obbligo di forma alla responsabilità precontrattuale non coglie nel segno.

2. – Con il terzo motivo di ricorso vengono prospettate la violazione e falsa applicazione dell’art. 2033 c.c. e la nullità della sentenza per violazione dell’art. 132 c.p.c., comma 2, n. 4, nonchè l’omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 5. Ad avviso della ricorrente gli interessi sulla somma da restituire non potevano decorrere dal pagamento, non avendo l’investitrice fornito prova atta a superare la presunzione di buona fede; la Corte di appello di Venezia, del resto, non si era nemmeno posta la questione circa la condizione psicologica riferibile alla banca che aveva ricevuto l’indebito pagamento, nè aveva esaminato quanto da essa dedotto per confutare l’assunto avversario di essere stata in malafede.

Il motivo appare fondato.

In tema di indebito oggettivo, la buona fede dell’accipiens al momento del pagamento è presunta per principio generale, sicchè grava sul solvens che faccia richiesta di ripetizione dell’indebito, al fine del riconoscimento degli interessi con decorrenza dal giorno del pagamento stesso e non dalla data della domanda, l’onere di dimostrare la malafede dell’accipiens stesso all’atto della ricezione della somma non dovuta (Cass. 8 maggio 2013, n. 10815). In senso analogo, più di recente, questa Corte ha precisato, proprio in tema di intermediazione finanziaria, che, allorchè sia stata pronunciata la risoluzione del contratto per inadempimento della banca, non può reputarsi in re ipsa la prova della mala fede, traendo tale convincimento dalla mera imputabilità ad essa dell’inadempimento che abbia determinato la risoluzione del contratto, onde il credito del cliente avente ad oggetto il rimborso del capitale investito produce interessi, in base ai principi in tema di ripetizione dell’indebito, solo a seguito della proposizione della domanda giudiziale, gravando su chi richiede la decorrenza dalla data del versamento l’onere di provare che la banca era in mala fede (Cass. 16 febbraio 2018, n. 3912). La Corte di appello ha statuito che i detti interessi dovevano decorrere dalla data del pagamento senza però spiegare le ragioni di tale decisione.

3. – Con il primo mezzo di ricorso incidentale vengono dedotte la violazione e falsa applicazione degli artt. 1193 e 1194 c.c. per non avere la Corte di appello ritenuto che i pagamenti eseguiti in corso di causa andassero imputati prima ad interessi che al capitale. Viene lamentato, in sintesi, che il giudice distrettuale abbia fatto decorrere gli interessi sull’importo risultante dalla differenza tra quanto versato dall’investitrice e quanto dalla stessa riscosso: la Corte di Venezia avrebbe invece dovuto considerare che il pagamento operato dalla società di intermediazione mobiliare per Euro 147.253,02 andava imputato in primo luogo agli interessi maturati da essa ricorrente incidentale a far data dai pagamenti ricevuti.

Con il secondo motivo di ricorso incidentale è opposta la violazione e falsa applicazione dell’art. 1283 c.c.. Si deduce, in sintesi, che, essendo il credito di C.S. certo e liquido, gli interessi anatocistici avrebbero dovuto essere riconosciuti dalla domanda, mentre invece erano stati accordati a decorrere dalla sentenza.

I due motivi possono ritenersi assorbiti, stante la cassazione della pronuncia impugnata sul punto dell’obbligazione relativa agli interessi sulla somma da restituire.

4. – In conclusione, va accolto il terzo motivo del ricorso principale, mentre i primi due vanno respinti; il ricorso incidentale è assorbito. La sentenza impugnata è cassata con rinvio alla Corte di Venezia, in diversa composizione, anche sulle spese.

Il giudice del rinvio dovrà conformarsi al principio sopra richiamato.

PQM

LA CORTE accoglie, quanto al ricorso principale, il terzo motivo e rigetta i primi due; dichiara assorbito il ricorso incidentale; cassa la sentenza impugnata in relazione al motivo accolto e rinvia la causa alla Corte di appello di Venezia, in diversa composizione, anche per le spese del presente giudizio di legittimità.

Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della Sezione Prima Civile, il 28 febbraio 2020.

Depositato in Cancelleria il 15 maggio 2020

©2024 misterlex.it - [email protected] - Privacy - P.I. 02029690472