Corte di Cassazione, sez. III Civile, Ordinanza n.9860 del 26/05/2020

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LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TERZA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. ARMANO Uliana – Presidente –

Dott. SESTINI Danilo – Consigliere –

Dott. OLIVIERI Stefano – Consigliere –

Dott. SCODITTI Enrico – Consigliere –

Dott. RUBINO Lina – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 26037-2018 proposto da:

N.A., elettivamente domiciliato in ROMA, VIA DOMENICO JACHINO N 10, presso lo studio dell’avvocato ANTONIO SBARDELLA, rappresentato e difeso dall’avvocato MAURIZIO RUSSO;

– ricorrente –

contro

M.T.;

– intimato –

Nonchè da:

M.T., elettivamente domiciliato in ROMA, VIA VALADIER 53, presso lo studio dell’avvocato GIAMPAOLO ROSSI, rappresentato e difeso dall’avvocato MAURIZIO MONINA;

– ricorrente incidentale –

contro

N.A., elettivamente domiciliato in ROMA, VIA DOMENICO JACHINO, N. 10, presso lo studio dell’avvocato ANTONIO SBARDELLA, rappresentato e difeso dall’avvocato MAURIZIO RUSSO;

– controricorrente all’incidentale –

avverso la sentenza n. 2229/2018 della CORTE D’APPELLO di ROMA, depositata il 07/04/2018;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del 26/11/2019 dal Consigliere Dott. LINA RUBINO.

FATTI DI CAUSA

1. N.A., all’epoca dei fatti presidente della sezione lavoro del Tribunale di Salerno, citava in giudizio il collega M.T., giudice dello stesso tribunale, assegnato anch’egli alla sezione lavoro, chiedendone la condanna al risarcimento del danno per diffamazione, per aver il M. più volte diffuso la notizia, sia in colloqui privati che nel corso delle udienze, che il collega non avrebbe redatto personalmente i propri provvedimenti, ma li avrebbe fatti redigere ad alcuni avvocati del Foro di Salerno.

2. Il Tribunale di Napoli condannava il M. al risarcimento del danno nella misura di 25.000,00 Euro, la Corte d’Appello di Roma (cui gli atti venivano trasmessi per competenza dalla Corte d’Appello di Napoli, in quanto nel frattempo il era divenuto giudice del distretto di Napoli), con la sentenza n. 2229 del 2018, depositata il 7.4.2018, qui impugnata, rigettava l’appello principale del diffamante ed, in parziale accoglimento dell’appello incidentale del diffamato, riconosceva sulla somma liquidata a titolo di risarcimento dei danni il diritto ad interessi e rivalutazione monetaria.

3. In particolare, la corte d’appello affermava che, a prescindere dalla veridicità o meno dei fatti addebitati dal M. al N. (che era stato sottoposto a procedimento disciplinare per quei fatti e condannato alla perdita di anzianità per il periodo di sei mesi), dovesse essere confermata la responsabilità del M. per aver leso l’onore e la reputazione del N. per aver, anche se con fare scherzoso ed ironico, ma pur sempre in un contesto (in udienza o nel corso di conversazioni scherzose con alcuni avvocati) tale da pervenire all’esito diffamatorio senza che la propalazione delle notizie fosse in alcun modo giustificata dal contesto e quindi in mancanza del requisito della pertinenza, prospettato che il suo presidente di sezione non redigesse personalmente i provvedimenti dei quali era relatore, ma se li facesse scrivere da alcuni ben individuati avvocati.

Il N. propone ricorso per cassazione articolato in cinque motivi.

Resiste il M. con controricorso contenente anche un motivo di ricorso incidentale, illustrato da memoria.

Il N. ha depositato controricorso avverso il ricorso incidentale avversario.

RAGIONI DELLA DECISIONE

Con il primo motivo, il N., vittima della diffamazione, denuncia la violazione e falsa applicazione dell’art. 2697 c.c. e dell’art. 32 Cost. laddove la corte d’appello, che pur riconosceva in suo favore il danno non patrimoniale nella misura complessiva di Euro 25.000,00 oltre interessi e rivalutazione, non gli liquidava quanto dovuto per il danno biologico, pur in presenza della documentazione, costituita da svariati certificati provenienti anche da strutture pubbliche, attestanti che era afflitto da depressione reattiva, le cui origini la neurologa della ASL aveva ricondotto alla diffamazione.

In particolare, ritiene censurabile la sentenza impugnata laddove la corte d’appello ha escluso dal risarcimento il danno biologico avendo ritenuto non provata la riconducibilità causale della depressione alla diffamazione, affermando che sebbene questo rapporto di causalità risultasse indicato nella relazione medica, il medico non avesse potuto compiere in proposito un proprio accertamento, ma si sarebbe limitato a ripetere circostanze riferite dal paziente.

Con il secondo motivo, il N. denuncia la violazione e falsa applicazione dell’art. 2059 c.c. per non aver la corte d’appello espressamente e separatamente riconosciuto e liquidato, come richiesto, anche il danno morale e in particolare quello esistenziale subito dal ricorrente. Evidenzia come anche recentemente questa Corte, pur nella necessità di una quantificazione unitaria del danno non patrimoniale, abbia riconosciuto l’autonomia ontologica di tali voci di pregiudizio.

Con il terzo motivo, il ricorrente denuncia la violazione e falsa applicazione dell’art. 1226 c.c. sulla quantificazione del danno, laddove la corte d’appello non avrebbe tenuto conto dei rilievi contenuti nell’appello incidentale, nel quale si lamentava l’inadeguatezza del risarcimento liquidato attesa la gravità del fatto (attività di diffamazione protrattasi per ben due anni, commessa dal M. sia in privato che in pubblico e persino in pubbliche udienze alla presenza di avvocati e parti), liquidandoli con l’affermazione che il risarcimento, tutto considerato, apparisse più che congruo.

I tre motivi, che possono essere esaminati congiuntamente in quanto connessi, attenendo tutti alla correttezza o meno della liquidazione del danno non patrimoniale subito dal N., sono infondati.

Anche nella più recente giurisprudenza di legittimità, il danno non patrimoniale sebbene si presti ad essere suddiviso in alcune categorie concettuali aventi una propria autonoma individuabilità, deve però essere liquidato unitariamente e per l’intero.

E’ ben vero che la giurisprudenza più recente (v. Cass. n. 4878 del 2019, Cass. n. 23469 del 2018) da un lato conferma che il danno non patrimoniale costituisce una categoria unitaria dal punto di vista giuridico – nel senso che tanto l’accertamento, quanto la liquidazione di tale pregiudizio devono essere compiuti secondo regole identiche in relazione alla lesione di qualsivoglia diritto inviolabile della persona costituzionalmente protetto – dall’altro evidenzia che si tratti di una categoria binaria sotto il profilo della concreta manifestazione, potendo estrinsecarsi tanto in una modificazione peggiorativa delle vita quotidiana e delle attività dinamico-relazionali della persona, quanto nella sofferenza interiore (c.d. danno morale).Ribadisce però, pur sempre, l’esigenza di liquidazione unitaria del danno, per evitare duplicazioni.

A tali principi la sentenza impugnata si è attenuta. La corte d’appello ha ritenuto congrua la somma liquidata per il danno non patrimoniale sulla base di una valutazione, necessariamente equitativa, all’interno della quale sono stati tenuti in conto, come ricostruisce in motivazione, tutti gli elementi della fattispecie: il comportamento obiettivamente diffamatorio ed ingiustificato del M., l’essere stato il N. per quei fatti sottoposto a sua volta a procedimento disciplinare e condannato, e quindi la veridicità dei fatti ascritti, la mancanza di prova di un concreto danno biologico, inteso come limitazione psico-fisica collocabile in base alle prove in un accertato rapporto di riconducibilità causale con i fatti, la considerazione sia della sofferenza patita dal N. per il discredito ricevuto sia dei suoi conseguenti pregiudizi alla vita di relazione.

Con il quarto motivo, il ricorrente denunzia la violazione e falsa applicazione dell’art. 2697 c.c. e artt. 112 e 342 c.p.c. lamentando che la sentenza impugnata abbia errato nel non pronunciare l’inammissibilità dell’appello principale del M. che non avrebbe contestato alcune rationes decidendi della sentenza impugnata.

Preliminarmente, l’appello del M. non è stato ritenuto inammissibile ma è stato comunque rigettato, quindi non sussiste un interesse concreto a dedurne in questa sede l’inammissibilità.

Il motivo è comunque infondato, in quanto quelle che dal ricorrente sono indicate come autonome rationes decidendi sono in realtà altrettanti punti della decisione, tutti collegati tra loro, nei quali si fa riferimento a questa o quella dichiarazione allo scopo di fondare il complessivo convincimento della corte sul comportamento diffamatorio tenuto dal M.. Non esisteva quindi un onere di specifica contestazione dei singoli punti, allo scopo di evitare il passaggio in giudicato di un singolo punto della decisione, perchè privo di autonomia.

Con il quinto ed ultimo motivo, il ricorrente deduce la violazione dell’art. 92 c.p.c., in riferimento all’art. 24 Cost e art. 112 c.p.c., per aver erroneamente disposto la compensazione delle spese di lite in luogo di condannare il M., in base al principio della soccombenza, alla rifusione di esse in suo favore.

Il motivo è inammissibile: alla stregua di quanto affermato da Cass. n. 8241 del 2017, e poi ripreso,tra le altre, da Cass. n. 24502 del 2017: in tema di spese processuali, il sindacato della Corte di cassazione, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, è limitato ad accertare che non risulti violato il principio secondo il quale le stesse non possono essere poste a carico della parte totalmente vittoriosa, per cui vi esula, rientrando nel potere discrezionale del giudice di merito, la valutazione dell’opportunità di compensarle in tutto o in parte, sia nell’ipotesi di soccombenza reciproca che in quella di concorso di altri giusti motivi.

Con l’unico motivo di ricorso incidentale, il M. denuncia la violazione e falsa applicazione dell’art. 2043 c.c., artt. 595 e 51 c.p. e art. 21 Cost. nonchè dei principi di diritto in tema di diffamazione e di libertà di manifestare il proprio pensiero. Afferma che la corte d’appello ha riconosciuto e premesso che risultava accertata ex actis la veridicità del fatto specifico che costituiva oggetto dell’esternazione attribuita al M. e ciò nondimeno ha erroneamente, nella prospettazione del ricorrente incidentale- affermato che l’eventuale veridicità della notizia non valesse ad escludere l’offensività delle sue esternazioni ed a scriminare il comportamento addebitatogli, affermando che l’exceptio veritatis è una scriminante valevole solo in sede penale.

Il motivo è infondato.

Circoscrivendo le censure del M. alla loro effettiva portata, esse sono volte ad argomentare nel senso che, giacchè i fatti da lui divulgati relativi ai comportamenti tenuti dal collega N. si erano effettivamente verificati (circostanza confermata, oltre che dalle affermazioni contenute nella stessa sentenza impugnata, anche dal procedimento penale iniziato a carico del N. per quei fatti, estinto solo per prescrizione e dal procedimento disciplinare da questi subito, conclusosi con una pesante condanna), le sue esternazioni avrebbero dovuto essere scriminate in quanto costituenti libera manifestazione del proprio pensiero, effettuata nel rispetto dei principi della continenza e della pertinenza.

E tuttavia, laddove nessun addebito nella sentenza impugnata in termini di violazione del profilo della continenza viene mosso al M., che non risulta aver usato espressioni di dileggio particolarmente ingiuriose, ovvero tali da travalicare per la modalità stessa di espressione i confini della libera espressione del proprio pensiero, la corte d’appello ha ritenuto, in perfetta linea con i principi di diritto più volte affermati da questa Corte, che il M. abbia esternato, per quanto ironicamente (e l’ironia non è arma meno pungente della diretta affermazione dei fatti) il proprio pensiero sui comportamenti tenuti dal N., riferendo fatti potenzialmente lesivi dell’onore e della reputazione del collega, senza rispettare il requisito della pertinenza, ovvero effettuando l’esternazione in un contesto in cui ciò non era legittimo nè giustificato, “in considerazione sia della qualità di magistrato del M. che della sede in cui le esternazioni sarebbero state espresse”, cioè durante le pubbliche udienze e nel corso di conversazioni con avvocati.

Sostiene il ricorrente incidentale che, al contrario, le conversazioni con avvocati, e le esternazioni in udienza cioè avvenute in presenza di soggetti non estranei al circuito della giustizia ma in esso direttamente coinvolti ed operanti nel distretto di Salerno in cui sia il diffamante che il diffamato esercitavano la giurisdizione, fosse finalizzata a comunicare informazioni di interesse per i destinatari che, proprio per l’attività svolta, erano titolari di un interesse oggettivo ad essere informati.

Il M. mostra quindi di non comprendere, o di non voler comprendere, quanto correttamente affermato nella sentenza di appello, ovvero che la verità del fatto avrebbe potuto scriminare le sue affermazioni, rendendole legittimo esercizio della propria libera manifestazione di pensiero e del proprio diritto di critica, ove rese in un contesto appropriato, nel quale esse avessero avuto il senso di denunciare agli interessati un fatto ritenuto grave e pregiudizievole per l’amministrazione della giustizia nel distretto, quale una assemblea associativa, ma non nel contesto fattuale in cui si colloca la vicenda, in cui il pettegolezzo ironico aveva mero carattere denigratorio e diffamatorio della persona del diffamato e della funzione esercitata da entrambi i protagonisti della vicenda.

Si ricorda infatti che laddove l’espressione del proprio pensiero critico avvenga in pubblico, con contenuti obiettivamente tali da poter ledere l’onore o il decoro della persona di cui si parla, si ha legittima espressione del pensiero laddove le espressioni verbali utilizzate non raggiungano la soglia della offensività, ovvero si mantengano nei limiti della continenza, e la critica rispetti altresì il requisito della pertinenza, ovvero sia espressa in un contesto in cui sia giustificata dall’interesse del pubblico alla conoscenza del fatto e finalizzata a fornire tale conoscenza non al pubblico indiscriminato, ma ad un pubblico deputato ad accogliere tale tipo di notizia e ad attivarsi, ove necessario, per prendere determinate iniziative in conseguenza di essa.

La esternazione di proprie ironiche supposizioni, da parte di un magistrato, sui comportamenti scorretti tenuti da un collega che opera nello stesso distretto, al quale si ascrive di aver coinvolto alcuni avvocati nella redazione del testo delle proprie decisioni, in un contesto in cui esse hanno valore non di denuncia a chi fosse preposto a prendere adeguate iniziative di rilevanza disciplinare o eventualmente penale, (fosse il presidente dell’ufficio giudiziario, o l’associazione nazionale magistrati, o il titolare dell’azione disciplinare o, eventualmente, il consiglio dell’ordine) non rispettano il requisito della pertinenza, perchè non hanno alcuna utilità giustificata dal contesto. Esse hanno valore di semplice e gratuito pettegolezzo denigratorio, atto a gettare discredito sulla persona diffamata e sulla intera magistratura del distretto, della quale entrambi i soggetti coinvolti facevano parte, di particolare gravità in quanto la persona che esterna tali dichiarazioni ricopre un ruolo istituzionale e le rende nell’ambito dell’esercizio di esso.

Sia il ricorso principale che quello incidentale devono pertanto essere rigettati, con compensazione delle spese.

Il ricorso per cassazione è stato proposto in tempo posteriore al 30 gennaio 2013, e la parte ricorrente risulta soccombente, pertanto è gravata dall’obbligo di versare un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso principale, a norma del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 bis e comma 1 quater.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso. Spese compensate.

Dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento da parte della parte ricorrente di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso principale.

Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della Corte di cassazione, il 26 novembre 2019.

Depositato in Cancelleria il 26 maggio 2020

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