LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE PRIMA CIVILE
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. SCOTTI Umberto L. G. C. – Presidente –
Dott. MARULLI Marco – Consigliere –
Dott. CAIAZZO Rosario – Consigliere –
Dott. FIDANZIA Andrea – rel. Consigliere –
Dott. RUSSO Rita – Consigliere –
ha pronunciato la seguente:
SENTENZA
sul ricorso 11945/2016 proposto da:
P.A., elettivamente domiciliato in Roma, Via di Porta Pinciana n. 4, presso lo studio dell’avvocato Santaroni Mario, che lo rappresenta e difende unitamente all’avvocato Imbardelli Fabrizio, giusta procura in calce al ricorso;
– ricorrente –
contro
P.M.M., elettivamente domiciliato in Roma, Via Ennio Quirino Visconti n. 103, presso lo studio dell’avvocato Izzo Alessandro, che lo rappresenta e difende, giusta procura in calce al controricorso;
– controricorrente –
contro
Autotrasporti P. S.r.l.;
– intimata –
avverso la sentenza n. 1417/2015 della CORTE D’APPELLO di MILANO, depositata il 31/03/2015;
udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 09/04/2021 dal Cons. Dott. FIDANZIA ANDREA;
lette le conclusioni scritte ai sensi del D.L. n. 137 del 2020, art.
23, comma 8-bis, convertito in L. n. 176 del 2020, del P.M., in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. MISTRI Corrado, che chiede la declaratoria di inammissibilità e in subordine per il rigetto del ricorso.
FATTI DI CAUSA
Il Tribunale di Monza, con la sentenza n. 1122/2011, sulla domanda di risarcimento proposta da P.M.M., ai sensi dell’art. 2476 c.c., comma 3, nei confronti di P.A. per gli atti di mala gestio da quest’ultimo compiuti nella qualità amministratore unico della Autotrasporti P. s.r.l., ha accolto l’eccezione preliminare di inammissibilità della domanda, ritenendo che la controversia dovesse essere devoluta alla decisione di un collegio arbitrale.
La Corte d’Appello di Milano, con sentenza n. 1417/2015, depositata il 31 marzo 2015, in parziale accoglimento dell’appello proposto da P.M.M., ha condannato P.A. a corrispondere alla Autotrasporti P. s.r.l. la somma complessiva di Euro 410.996, 78, oltre interessi e spese di lite.
Per quanto di interesse, il giudice di secondo grado ha riconosciuto P.A. responsabile dei fatti di mala gestio, riconducibili alla spese sostenute dalla Autotrasporti P. s.r.l. per le prestazioni di consulenza della G. 1839 s.r.l., alle spese attinenti ad attività extra-sociali (spese di viaggio di collaboratori, acquisto di autovettura in leasing e di macchine fotografiche, consulenze fisioterapiche non giustificate da una loro attinenza ed utilità in rapporto all’attività sociale), alla restituzione di finanziamenti effettuati dai soci a favore della società, in violazione del disposto di cui all’art. 2476 c.c..
Avverso la predetta sentenza ha proposto ricorso per cassazione P.A., affidandolo a tre motivi.
P.M.M. si è costituito in giudizio con controricorso, eccependo l’inammissibilità del ricorso, in primis, per tardività della notificazione del medesimo.
Il Procuratore Generale presso la Corte di Cassazione ha depositato requisitoria scritta.
RAGIONI DELLA DECISIONE
1. Prima di illustrare i motivi del ricorso di P.A., appare opportuno soffermarsi sulle eccezioni di inammissibilità sollevate da P.M.M., che vanno rigettate.
In primo luogo, non è meritevole di accoglimento l’eccezione di tardività del ricorso per cassazione, sollevata dal controricorrente deducendo la violazione da parte del ricorrente del D.L. 18 ottobre 2012, n. 179, art. 16 septies, secondo cui quando la notifica telematica è eseguita dopo le ore 21, la notificazione si considera perfezionata alle ore 7 del giorno successivo.
Nel caso di specie, essendo la notifica telematica stata effettuata alle 22.44 del giorno 2.5.2016, la stessa dovrebbe considerarsi perfezionata in data 3.5.2016, con conseguente tardività del ricorso e passaggio in giudicato della sentenza impugnata.
L’eccezione è infondata alla luce della recente pronuncia della Consulta n. 75/2019, che ha dichiarato costituzionalmente illegittimo – per violazione degli artt. 3,24 e 111 Cost. – D.L. n. 179 del 2012, art. 16-septies (conv., con modif., in L. n. 221 del 2012), inserito dal D.L. n. 90 del 2014, art. 45-bis, comma 2, lett. b), (conv., con modif., in L. n. 114 del 2014), nella parte in cui prevedeva che la notifica eseguita con modalità telematiche la cui ricevuta di accettazione era generata dopo le ore 21 ed entro le ore 24 si perfezionasse per il notificante alle ore 7 del giorno successivo, anziché al momento di generazione della predetta ricevuta. E’ stato, infatti, ritenuto che tale fictio iuris relativa al differimento al giorno seguente degli effetti della notifica eseguita dal mittente tra le ore 21 e le ore 24, se era giustificata nei confronti del destinatario per tutelare il diritto al riposo di quest’ultimo, comportava, invece, nei confronti del mittente, un irragionevole vulnus al pieno esercizio del diritto di difesa (segnatamente, nella fruizione completa dei termini per l’esercizio dell’azione in giudizio, anche nella sua essenziale declinazione di diritto ad impugnare), poiché gli impediva di utilizzare appieno il termine utile per approntare la propria difesa che, nel caso di impugnazione, scade (ai sensi dell’art. 155 c.p.c.) allo spirare della mezzanotte dell’ultimo giorno.
Sono altresì infondate le ulteriori eccezioni di inammissibilità del ricorso, dedotte per pretesa mancata esposizione dei fatti di causa, ex art. 366 c.p.c., comma 1, n. 3, per mancata indicazione delle norme di diritto su cui i motivi fondano e per mancata indicazione specifica degli atti processuali e dei documenti su cui il ricorso si fonda.
Tali eccezioni (comunque infondate con riferimento alla dedotta mancata indicazione delle norme di legge violate, che è invece specificata nel ricorso) sono inammissibili per genericità, essendosi il controricorrente per lo più limitato a citare precedenti di questa Corte in punto inammissibilità del ricorso per cassazione, senza neppure esaminare in modo dettagliato il testo del ricorso medesimo.
2. Con il primo motivo P.A. ha dedotto la violazione degli artt. 2392 e 2697 c.c., nonché l’omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio oggetto di discussione tra le parti.
Lamenta il ricorrente che la Corte di merito (soprattutto con riferimento al ritenuto atto di mala gestio relativo alle prestazioni di consulenza G. 1839 s.r.l.) ha illegittimamente sindacato le scelte discrezionali e gestorie poste in essere dallo stesso nello svolgimento dell’attività imprenditoriale, ponendo a fondamento della valutazione della sua responsabilità fatti non aventi alcun valore probatorio, non costituendo neppure indizi, gravi precisi e concordanti.
Inoltre, nonostante il giudice di secondo grado avesse ammesso la produzione come documento della sentenza penale n. 4481/13 con cui lo stesso è assolto con formula piena dai reati dallo stesso ascritti, non ha inopinatamente tenuto conto dei fatti in essa rappresentati, provvedendo ad un’inopportuna inversione dell’onere della prova.
3. Il motivo presenta profili di inammissibilità ed infondatezza.
Va, in primo luogo, osservato che, in ordine al tema della sindacabilità da parte del giudice delle scelte gestorie dell’amministratore, questa Corte (Cass. n. 15470 del 22/06/2017) ha già enunciato il principio di diritto secondo cui l’insindacabilità del merito di tali scelte trova un limite nella valutazione di ragionevolezza delle stesse, da compiersi sia “ex ante”, secondo i parametri della diligenza del mandatario, alla luce dell’art. 2392 c.c. – nel testo, applicabile “ratione temporis”, anteriore alla novella introdotta dal D.Lgs. n. 6 del 2003 – sia tenendo conto della mancata adozione delle cautele, delle verifiche e delle informazioni preventive, normalmente richieste per una scelta di quel tipo e della diligenza mostrata nell’apprezzare preventivamente i margini di rischio connessi all’operazione da intraprendere.
Nel caso di specie, la Corte di merito ha pienamente condiviso l’impostazione dell’odierno controricorrente in ordine alla mancanza di una ragione giustificativa della consulenza affidata alla G. – e quindi all’assenza di diligenza nel conferimento di tale incarico – trattandosi di società appena costituita, avente un oggetto sociale (produzione e vendita di biancheria intima, da bagno e tendaggio, etc.) completamente avulso rispetto al contenuto della consulenza (strategia di vendita della merce del Gruppo Metro rimasta invenduta presso depositi esterni) e non in grado di fornire informazioni, in ordine alla vendita della merce del Gruppo Metro presso mercati rionali o aste giudiziarie, più specifiche di quelle di cui la Autotrasporti P. era già in possesso, in ragione della lunga esperienza di quest’ultima società nel settore della vendita all’ingrosso, dell’attività dei depositi e delle vendite giudiziarie, stante la decennale collaborazione di custodia con il Tribunale di Milano, tutti elementi che facevano deporre per l’arbitrarietà ed inutilità della consulenza richiesta.
Inoltre, secondo la coerente ricostruzione della Corte d’Appello, non era stato in alcun modo giustificato l’ingente esborso di Euro 126.146,20 per una relazione di mercato dal contenuto estremamente generico in cui non erano specificate e documentate le prestazioni effettuate (essendo state riportate in modo superficiale ed indefinito nelle fatture) cui poter riferire un importo di tale entità.
Con un tale articolato percorso argomentativo il ricorrente non si è minimamente confrontato svolgendo censure generiche in ordine all’assenza di rilevanza probatoria dei fatti rappresentati dalla Corte di merito, doglianze che si configurano altresì di merito, essendo finalizzate a sollecitare una diversa ricostruzione dei fatti rispetto a quella operata dal giudice di secondo grado.
Palesemente infondata e’, inoltre, la dedotta violazione dell’art. 2697 c.c., la quale è configurabile soltanto nell’ipotesi in cui il giudice abbia attribuito l’onere della prova ad una parte diversa da quella che ne era onerata, secondo le regole di scomposizione delle fattispecie basate sulla differenza tra fatti costitutivi ed eccezioni, e non invece laddove, come nella specie, oggetto di censura sia la valutazione che il giudice abbia svolto delle prove proposte dalle parti (Cass. n. 13395/2018).
Inammissibile per genericità è anche la dedotta violazione dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, per l’omessa considerazione dei fatti rappresentati dalla sentenza penale di assoluzione del ricorrente.
In proposito, il ricorrente, senza porsi nella prospettiva della ratio decidendi della Corte d’Appello, si è limitato a riportare alcuni passaggi della sentenza penale, senza precisare l’attinenza dei medesimi con i precisi rilievi della Corte d’Appello in ordine alla inutilità ed esosità della consulenza affidata alla G. e senza, peraltro, preoccuparsi di evidenziare la decisività delle circostanze, neppure ben identificate, di cui la Corte di merito avrebbe omesso l’esame.
4. Con il secondo motivo è stata dedotta la violazione dell’art. 2467 c.c., nonché l’omesso esame di fatto decisivo per il giudizio oggetto di discussione tra le parti.
Lamenta il ricorrrente che la Corte d’Appello ha erroneamente applicato l’art. 2467 c.c., comma 2, senza alcun accertamento in ordine alla sussistenza della situazione di fatto che la legge pone alla base di una corretta applicazione della stessa norma (ovvero finanziamento avvenuto in circostanze tali in cui sarebbe stato ragionevole un conferimento).
5. Il motivo è inammissibile.
Va osservato che la Corte di merito ha avuto cura di accertare la situazione di fatto al ricorrere della quale l’art. 2467 c.c., comma 2, prevede che il rimborso dei finanziamenti dei soci debba essere postergato rispetto alla soddisfazione degli altri creditori, avendo precisato che tale rimborso era avvenuto in un periodo in cui la società non riusciva neppure ad onerare i propri debiti contributivi ed erariali, tanto da dover richiedere una dilazione dei pagamenti. Inoltre, secondo la ricostruzione del giudice di secondo grado, lo stesso P.A. aveva dichiarato che il finanziamento era stato richiesto per sopperire alla carenze di liquidità della società e in relazione alla difficoltà della stessa di far fronte alle spese correnti.
Il descritto articolato ragionamento della Corte d’Appello nella evidenziazione della grave crisi di liquidità in cui versava la Autotrasporti P. al momento della restituzione del finanziamento e, conseguentemente, nell’individuazione dei presupposti applicativi dell’art. 2467 c.c., comma 2, non è sindacabile, per la sua indubbia coerenza logica, in sede di legittimità, con conseguente inammissibilità delle censure, peraltro palesemente generiche, svolte dal ricorrente.
6. Con il terzo motivo è stata dedotta la violazione e falsa applicazione degli artt. 2697 e 1223 c.c. e art. 116 c.p.c., nonché l’omesso esame di fatto decisivo per il giudizio oggetto di discussione tra le parti.
Espone il ricorrente che la Corte d’Appello non ha tenuto in nessuna considerazione le circostanze dallo stesso dedotte in comparsa di costituzione in primo grado, secondo cui il suo collaboratore B. aveva provveduto successivamente a saldare tutte le spese dallo stesso sostenuto e non attinenti al programma lavorativo, e che tutti i soci si erano costantemente occupati della conduzione dell’azienda sociale anche senza ricoprire specifici e formali incarichi, con conseguente esigenza di dotare gli stessi di autovetture di servizio.
Tali circostanze non erano mai state oggetto di specifica contestazione, con la conseguenza che dovevano considerarsi ammesse.
7. Il motivo presenta profili di inammissibilità ed infondatezza.
Va preliminarmente osservato che la deduzione del ricorrente secondo cui il controricorrente non avrebbe mai contestato le circostanze sopra illustrate è priva del requisito di autosufficienza.
Non vi è dubbio, infatti, che il ricorso per cassazione con cui si deduca l’operatività del principio di non contestazione non può prescindere dalla trascrizione degli atti sulla cui base si alleghi come integrata la non contestazione che il giudice di merito non ha inteso riconoscere (vedi a contrariis Cass. n. 20637/2016).
Nel caso di specie, il ricorrente si è limitato ad affermare genericamente che la controparte non avrebbe mai contestato le circostanze che ritiene ammesse a norma dell’art. 115 c.p.c., comma 2, senza fornire alcun dettaglio in ordine al contenuto delle allegazioni contenute negli atti processuali di primo grado del controricorrente, da cui scaturirebbe l’operatività della dedotta non contestazione.
In ogni caso, il principio di non contestazione postula che la parte dalla quale è invocato abbia per prima ottemperato all’onere processuale, posto a suo carico, di specificare in modo dettagliato, puntuale ed analitico i fatti di causa, in merito ai quali l’altra parte è tenuta a prendere posizione (vedi Cass. n. 20525/2020; Cass. n. 21847/2014).
Non vi è dubbio che, nel caso di specie, il ricorrente non avesse adempiuto a tale onere di specifica allegazione. Infatti, l’affermazione del ricorrente (contenuta nella propria comparsa di costituzione e risposta di primo grado) secondo cui “il collaboratore B. aveva provveduto a saldare le spese non inerenti al programma lavorativo” è assolutamente generica al cospetto della specifica contestazione secondo cui la Autotrasporti P. aveva sostenuto per il viaggio a Londra di tale collaboratore una spesa di Euro 2.700,00 circa, senza che fosse stato fornito alcun giustificativo per tale esborso.
Quanto alla questione riguardante le auto aziendali fornite dalla Autotrasporti ai soci che formalmente non rivestivano alcun incarico operativo (genericamente allegata da P.A.), il ricorrente invoca l’operatività del principio di non contestazione, senza essersi confrontato con il preciso rilievo della Corte d’Appello, secondo cui l’amministratore aveva consegnato a P.P. un’autovettura acquistata in leasing nonostante costui fosse decaduto sia dalla carica di amministratore delegato che di consigliere, né avesse proseguito una qualche attività di collaborazione con la società. Dunque, la Corte di merito, con un’affermazione che non è stata censurata dal ricorrente, ha disatteso la deduzione (peraltro generica) di quest’ultimo, secondo cui tutti i soci si occupavano della conduzione dell’azienda anche se non ricoprivano cariche formali.
Le spese di lite seguono la soccombenza e si liquidano come in dispositivo.
PQM
Rigetta il ricorso.
condanna il ricorrente al pagamento delle spese delle spese di lite che liquida in Euro 10.400,00, di cui Euro 200,00, oltre spese forfettarie nella misura del 15% ed accessori di legge.
Dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento da parte del ricorrente principale dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso principale, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis.
La presente sentenza è sottoscritta dal solo Presidente ai sensi dell’art. 132 c.p.c., comma 3, essendo il Consigliere estensore impedito a causa della pandemia in atti, come previsto dal Decreto del Primo Presidente del 23 novembre 2020, n. 163.
Così deciso in Roma, il 9 aprile 2021.
Depositato in Cancelleria il 15 luglio 2021
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