LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE TRIBUTARIA
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. CIRILLO Ettore – Presidente –
Dott. NAPOLITANO Lucio – Consigliere –
Dott. GIUDICEPIETRO Andreina – Consigliere –
Dott. D’ANGIOLELLA Rosita – rel. est. Consigliere –
Dott. CONDELLO Pasqualina – Consigliere –
ha pronunciato la seguente:
ORDINANZA
sul ricorso iscritto al n. 11876/2015 R.G. proposto da:
Campobase s.r.l., in persona del legale rappresentate p.t., rappresentata e difesa, giusta procura speciale in calce al ricorso, dall’Avv.to Tiziano Lucchese con il quale è elettivamente domiciliata presso lo studio dell’Avv.to Francesco d’Ayala Valva, in Roma, Viale Parioli, n. 43.
– ricorrente –
contro
Agenzia delle Entrate, in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentata e difesa dall’Avvocatura Generale dello Stato, domiciliata in Roma, Via dei Portoghesi, n. 12;
– controricorrente –
avverso la sentenza della Commissione Tributaria Regionale del Veneto, sezione distaccata di Verona, n. 1688/15/2014, depositata in data 03/11/2014, non notificata;
udita la relazione della causa svolta, nella camera di consiglio del 12 luglio 2021, dal Consigliere Dott.ssa Rosita D’Angiolella.
RILEVATO
che:
L’Agenzia delle entrate notificava alla società Campobase s.r.l. avviso di accertamento, per l’anno 2007, con il quale accertava, ricavi non dichiarati ed un reddito imponibile di Euro 398.858,08, con conseguente liquidazione di maggiori imposte ai fini Ires, Irap ed irrogazione di sanzioni. L’Ufficio aveva accertato tali maggiori ricavi sulla base di una ricostruzione induttiva del reddito di impresa fondata sulla individuazione di una percentuale di ricarico applicata, in media, sulle vendite di immobili effettuate dalla società nell’anno di interesse. Nello specifico era stato considerato espressione del comportamento antieconomico della società Campobase s.r.l. l’applicazione di una percentuale di ricarico negativa sulla vendita del complesso immobiliare di undici appartamenti siti in *****, in quanto dal confronto dei rogiti notarili (l’operazione riguardava l’acquisto di sessantasette immobili adibiti a civile abitazione da cartolarizzazione di ente pubblico), il prezzo complessivo di vendita degli undici immobili di *****, pari ad Euro 1.300.000,00, era risultato inferiore al prezzo di acquisto così come indicato e fra le rimanenze al 31/12/2006, con una differenza negativa pari ad Euro 323.143,93.
2. La società ricorreva avverso il predetto avviso alla Commissione tributaria provinciale di Verona (di seguito, CTP) chiedendone l’annullamento.
3. La CTP adita, con sentenza n. 74/04/13 accoglieva in parte il ricorso, considerando, da un lato, la correttezza del metodo di accertamento seguito dall’Ufficio in assenza di dichiarazione dei redditi della società per l’anno 2007, e, dall’altro, riconoscendo la congruità del valore attribuito all’immobile ceduto dalla società contribuente (e confermando l’indeducibilità dei costi per provvigioni passive anch’esse oggetto di accertamento) 4. L’Agenzia delle entrate proponeva appello alla Commissione tributaria regionale del Veneto (di seguito, per brevità, CTR) insistendo per la riforma della sentenza di prime cure per la parte relativa alle statuizioni sfavorevoli all’Ufficio.
La società contribuente rimaneva intimata e la CTR adita, con la sentenza di cui in epigrafe, accoglieva l’appello dell’Agenzia delle entrate.
6. Avverso tale decisione ha proposto ricorso per cassazione la società contribuente, affidandosi a tre motivi.
7. L’Agenzia delle entrate ha resistito con controricorso.
8. Il sostituto procuratore generale, nella persona del Dott. Vitiello Mauro, ha presentato, telematicamente, conclusioni scritte in forma di memoria.
CONSIDERATO
che:
1. Con il primo motivo di ricorso, la società contribuente, deduce, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4, la violazione e falsa applicazione degli artt. 101,149 e 160 c.p.c., del D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 1, comma 2, art. 16, commi 2 e 4, art. 20, comma 1, art. 53 comma 2, nonché della L. 20 novembre 1982, n. 890, art. 7, u.c. e art. 14, là dove la CTR ha deciso il merito della controversia senza rilevare, come suo dovere, che il ricorso in appello non era stato ritualmente notificato alla società, rimasta intimata. La difesa della società Campobase s.r.l. sostiene che la notifica del ricorso in appello, effettuata a mezzo del servizio postale L. n. 890 del 1982, ex art. 14, sarebbe affetta da nullità sia perché l’atto, pure essendo stato notificato al difensore domiciliatario, era stato consegnato a mani di soggetto “delegato dal comandante del (corpo o reparto)”, rendendo così la notifica nulla, ex art. 160 c.p.c., sia per mancanza di qualsiasi riferimento degli estremi della raccomandata che avrebbe dovuto contenere la comunicazione di avvenuta notificazione (CAN), secondo quanto previsto dalla L. n. 890 del 1982, art. 7, u.c..
1.1. L’infondatezza del mezzo si trae agevolmente dai principi consolidati di questa Corte secondo cui, nel caso di notifica a mezzo del servizio postale, ove l’atto sia consegnato all’indirizzo del destinatario ed il consegnatario dell’atto abbia apposto la propria firma (ancorché illeggibile) nello spazio dell’avviso di ricevimento relativo alla firma del destinatario o di persona delegata al ricevimento tra quelle indicate dalla L. n. 890 del 1982, art. 7, gli avvisi di ricevimento provano, fino a querela di falso, la rituale consegna degli atti al destinatario. Anche là dove la firma sia stata apposta con grafia illeggibile, la consegna deve ritenersi validamente effettuata a mani proprie del destinatario, fino a querela di falso, a nulla rilevando che nell’avviso non sia stata sbarrata la relativa casella e non sia altrimenti indicata la qualità del consegnatario, non essendo integrata alcuna delle ipotesi di nullità di cui all’art. 160 c.p.c. (v. Cass., Sez. U, 27/04/2010, n. 9962; id. Sez. 6-5, 31/07/2015, n. 16289; Sez. 6-5, 21/02/2020 n. 4556 Va, altresì, evidenziato che nella specie vi è stata trasmissione dell’atto a mezzo di lettera raccomandata e, al riguardo, si fa proprio l’orientamento per il quale (cfr. Cass. civ., Sez. 2, 28/11/2013, n. 26678; id., ex pluribus, Sez. 5 26/11/2019, n. 30787; Sez. 5, 12/01/2021, n. 237) la trasmissione dell’atto a mezzo di raccomandata costituisce prova certa della spedizione, attestata dall’ufficio postale attraverso la relativa ricevuta, dalla quale consegue la presunzione di conoscenza ex art. 1335 c.c., salvo prova contraria, fondata sulle univoche e concludenti circostanze della spedizione anzidetta e dell’ordinaria regolarità del servizio postale, di arrivo all’indirizzo del destinatario e di conoscenza dell’atto. In altri termini, spetta al destinatario l’onere di dimostrare che il plico non contiene alcuna lettera al suo interno e, dunque, la mancata conoscenza dell’atto.
1.2. Nella specie, l’avviso di ricevimento (art. 149, comma 2, ultimo alinea), in mancanza di querela di falso, è dunque, documento idoneo a provare l’intervenuta consegna al difensore domiciliatario, Dott.ssa R.G., senza necessità della comunicazione di avvenuta notifica (CAN). Sulla spedizione della raccomandata informativa di cui alla L. n. 890 del 1982, art. 7, comma 6, (comma inserito dal D.L. n. 248 del 2007, art. 36, comma 2 quater, conv., con modif., dalla L. n. 31 del 2008, e successivamente abrogato dalla L. n. 205 del 2017), va rilevato che essa era prescritta nell’ipotesi di consegna del piego a persona diversa dal destinatario, mentre nella specie, l’atto è da ritenersi validamente consegnato, per quanto sopra detto, al difensore domiciliatario (sulla comunicazione informativa, v. Cass., Sez. 6-5, 05/12/2016, n. 2482; Cass., 26/05/2020, n. 9878).
2. Col secondo mezzo, la società contribuente, deduce, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, la violazione e falsa applicazione del D.P.R. n. 602 del 1973, art. 38, comma 4, art. 41, comma 2, nonché degli artt. 2697,2727 c.c., per aver la CTR condiviso l’operato dell’Ufficio (dalle pagine 18 a 22 del ricorso sono riportate le motivazioni dell’avviso di accertamento) senza valutare la “credibilità” della prova offerta dall’Ufficio a sostegno della pretesa fiscale; a dire della ricorrente anche se la società non aveva presentato la dichiarazione dei redditi per l’anno 2007, l’Ufficio avrebbe dovuto dimostrare l’esistenza dei presupposti per l’accertamento induttivo in base a “razionali” presunzioni (v. pag. 24 del ricorso), come sarebbe stato, ad esempio, l’accertamento del valore venale del fabbricato sito in ***** rilevato nella zona.
2.1. La ricorrente denuncia, dunque, errori di giustificazione della decisione sul fatto, il che pone il duplice problema della selezione di tali dati in relazione ai profili contenutistici del ricorso in cassazione di cui all’art. 366 c.p.c., comma 1, nn. 3) e 4), e dei limiti del controllo del giudice di legittimità rispetto alla decisione di merito.
2.2. La CTR del Veneto, ha confermato l’accertamento induttivo dell’Ufficio valorizzando, da un lato, il metodo seguito in mancanza della presentazione della dichiarazione dei redditi d’impresa, consistente nell’applicazione della percentuale di ricarico medio risultante “dal confronto dei prezzi di acquisto delle sessantasette unità immobiliari adibite a civile abitazione acquistate a seguito di una cartolarizzazione effettuata ad un ente pubblico con prezzi di vendita indicati nei relativi rogiti”; dall’altro, ritenendo che la società appellata “non aveva fornito alcun concreto elemento a sostegno della propria condotta e a giustificazione della scelta operata asseritamente effettuata per limitare i danni di un investimento ritenuto sbagliato”.
2.3. Circa i limiti del potere di controllo consentito a questo giudice di legittimità, considerato che il giudice di merito è libero di attingere il proprio convincimento da quelle prove o risultanze di prove che ritenga più attendibili ed idonee alla formazione dello stesso e che non è tenuto a prendere in considerazione tutti gli elementi di fatto portati al suo esame, ma può senz’altro limitarsi a porre in luce quelli che, in base al giudizio effettuato, risultano gli elementi essenziali ai fini del decidere, purché tale valutazione risulti logicamente coerente (ex plurimis, cfr. Sez. 5, 21/01/2015, n. 961), ne deriva che la censura del ricorrente, secondo cui gli elementi posti a sostegno della pretesa fiscale non sarebbero stati sufficienti a giustificare l’accertamento induttivo, costituisce una censura del merito della decisione, che esula dai poteri di controllo del giudice di legittimità e rende il mezzo inammissibile (v. Sez. Unite 27/12/2019, n. 34476).
2.4. Inoltre, il mezzo non risulta redatto in conformità al dovere processuale della chiarezza espositiva, non avendo il ricorrente selezionato i profili di fatto e di diritto della vicenda “sub iudice”, per rendere intellegibili le questioni giuridiche prospettate, né ha individuato, in relazione a tali profili, le ragioni critiche nell’ambito dei vizi previsti dall’art. 360, c.p.c. (cfr. Sez. 5, 30/04/2020, n. 8425).
2.5. Peraltro, anche là dove la censura proposta avesse superato il vaglio di ammissibilità, essa sarebbe stata manifestamente infondata considerato che, in tema di accertamento delle imposte sui redditi, nel caso di omessa dichiarazione da parte del contribuente, l’Amministrazione finanziaria, i cui poteri trovano fondamento nel D.P.R. n. 600 del 1973 (cd. accertamento d’ufficio), non già nell’art. 38 (accertamento sintetico) o nell’art. 39 (accertamento induttivo), bensì nell’art. 41, può ricorrere a presunzioni cd. supersemplici, anche prive, cioè, dei requisiti di gravità, precisione e concordanza, che comportano l’inversione dell’onere della prova a carico del contribuente (v. Sez. 5, 04/02/2021, n. 2581).
3. Anche l’ultimo motivo di ricorso – con il quale si deduce il vizio motivazionale, in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 5, su fatti decisici e controversi “concernenti la diversa ricostruzione degli imponibili operata dalla Guardia di Finanza rispetto quella determinata dall’ufficio e circostanze relative al valore, conforme al prezzo, degli immobili compravenduti rispetto ai quali l’ufficio ha determinato maggiori ricavi non contabilizzati” – è inammissibile; con esso solo apparentemente si deduce l’omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio mentre, in realtà, si tende ad una rivalutazione dei fatti storici operata dal giudice di merito (Sez. Unite, 27/12/2019, n. 34476); inoltre, le circostanze dedotte non realizzano affatto un “fatto”, da intendere quale specifico accadimento in senso storico-naturalistico, rilevante ai fini della censura prospettata.
4. La società Campobase s.r.l., soccombente, è tenuta al pagamento delle spese di lite in favore dell’Agenzia delle entrate, liquidate come da dispositivo.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso.
Condanna la società ricorrente al pagamento delle spese del presente giudizio in favore dell’Agenzia delle entrate, liquidate in complessivi Euro 5.600,00, oltre alle spese prenotate a debito.
Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso principale, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis, se dovuto.
Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della quinta sezione civile della Corte di Cassazione, il 12 luglio 2021.
Depositato in Cancelleria il 15 luglio 2021
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