Corte di Cassazione, sez. I Civile, Ordinanza n.20875 del 21/07/2021

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LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE PRIMA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. TIRELLI Francesco – Presidente –

Dott. MELONI Marina – Consigliere –

Dott. IOFRIDA Giulia – rel. Consigliere –

Dott. ROCCHI Giacomo – Consigliere –

Dott. SCALIA Laura – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 13204/2020 proposto da:

T.S., + ALTRI OMESSI; elettivamente domiciliati in Roma, Via Varrone n. 9, presso lo studio dell’avvocato Grandoni Angelo, che li rappresenta e difende unitamente all’avvocato Pagliarini Vezio, giusta procura in calce al ricorso;

– ricorrenti –

contro

Rete Ferroviaria Italiana S.p.a., già Ferrovie dello Stato S.p.a., in persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in Roma, Via Virginio Orsini n. 19, presso lo studio dell’avvocato Gentile Domenico, che la rappresenta e difende, giusta procura a margine del controricorso;

– controricorrente –

contro

F.G.;

– intimata –

avverso la sentenza n. 6559/2019 della CORTE D’APPELLO di ROMA, depositata il 30/10/2019;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del 21/05/2021 dal cons. IOFRIDA GIULIA.

FATTI DI CAUSA

La Corte d’appello di Roma, con sentenza n. 6559/2019, depositata in data 30/10/2019, – in controversie, poi riunite, promosse, nel febbraio 1974, da C.C. ed altri, da un lato, e da F.F. ed altri, dall’altro, nei confronti del Ministero dei Trasporti, in opposizione alla stima delle indennità di esproprio e di occupazione, disposta con decreto del 18/10/1973, di trentaquattro ettari di terreno circa siti in Anguillara Sabazia, già occupati d’urgenza nel 1971, in forza di decreto prefettizio dell’ottobre 1970, per la costruzione dell’Istituto di Ricerche ed Esperienze Ferroviarie (IREF), indennità che erano state determinate dall’amministrazione secondo i criteri di cui alla L. n. 2892 del 1885, art. 13, (c.d. legge di risanamento Città di Napoli) richiamato dalla L. n. 2429 del 1907, art. 77, cui aveva fatto riferimento il decreto di esproprio, giudizi tutti le cui decisioni di merito hanno formato oggetto di diverse pronunce di cassazione con rinvio di questa Corte Suprema (Cass. SU nn. 134/1983, Cass. 2798/1991, Cass. 15075/2012, Cass. 8337/2018) -, pronunciando in sede di rinvio su ricorsi di soli alcuni degli originari proprietari, in relazione a sedici ettari di terreni espropriati (avendo il restante 50% dei proprietari espropriati ottenuto la corresponsione delle indennità, a seguito di sentenza definitiva di appello del 1987, cassata senza rinvio da questa Corte Suprema, con la pronuncia del 1991), ha determinato in Euro 168.332,00 la giusta indennità di espropriazione ed in Euro 16.091,00 la giusta indennità di occupazione (come già determinato dalla Corte d’appello nella sentenza n. 3930/2016), con interessi legali, relativamente alle due indennità, dalla data del decreto di espropriazione al saldo, oltre al maggior danno consistente nell’eventuale differenza, nel periodo tra l’inizio del giudizio di opposizione alla stima e l’effettivo soddisfo, tra il tasso di rendimento medio annuo netto dei titoli di Stato di durata non superiore a dodici mesi ed il saggio degli interessi legali, con ordine all’appellata RFI di deposito, presso il Servizio Gestione Depositi del Ministero delle Finanze, della differenza tra quanto liquidato e quanto eventualmente già versato al medesimo titolo, nonché con compensazione tra le parti delle spese processuali di tutti i gradi delle due precedenti fasi concluse con le sentenze di questa Corte Suprema nn. 134/1983, a Sezioni Unite, e 2798/1991, e condanna di RFI al rimborso delle spese processuali relative alle successive fasi, a seguito di sentenza di questa Corte Suprema n. 15075/2012 ed ordinanza n. 8337/2018, liquidate come da dispositivo (oltre alle spese di CTU già liquidate in corso di causa e poste a carico sempre dell’espropriante).

In particolare, i giudici d’appello hanno ritenuto: a) dovuto il risarcimento del maggior danno, ex art. 1224 c.c., comma 2, nei limiti sopra indicati (non quindi come maggior valore dei beni immobili espropriati all’attualità o rivalutazione monetaria o altra maggiore somma), tenuto conto sia del principio, affermato da questa Suprema Corte nell’ordinanza di rinvio del 2018, in ordine al fatto che l’indennità di espropriazione va determinata con riferimento al valore del bene al tempo dell’espropriazione e che l’obbligazione in oggetto ha natura di debito di valuta, sia perché non era stato dimostrato che le somme spettanti agli espropriati, se tempestivamente percepite, sarebbero state impiegate per l’acquisto di altri terreni con le stesse caratteristiche; b) non dovuta la maggiorazione del 10%, L. n. 244 del 2007, ex art. 2, comma 89, in quanto disposizione non applicabile ratione temporis; c) inammissibile, perché nuova e comunque esulante dall’oggetto del giudizio (limitato alla determinazione delle giuste indennità di espropriazione e di occupazione), la domanda di risarcimento del danni da mancato godimento dei terreni espropriati e perdita dei frutti che gli stessi sarebbero stati capaci di produrre o, per equivalente, di “interessi legali che il capitale corrispondente ai beni immobili sarebbe stato in grado di produrre”; d) inammissibile anche la domanda, proposta da alcuni degli appellanti, solo in comparsa conclusionale nel presente giudizio di rinvio, di liquidazione dell’indennità aggiuntiva spettante ai coltivatori diretti.

In punto di liquidazione delle spese processuali, la Corte di merito ha ritenuto corretta una valutazione non dell’esito globale della lite ma dell’esito dei singoli annullamenti con rinvio, tenuto conto “dell’assoluta particolarità della vicenda, del succedersi di numerosi annullamenti con rinvio”, il primo, su ricorso degli esproprianti, in seguito ad una rielaborazione della materia da parte delle Sezioni Unite ed il secondo, su ricorso dell’ente espropriante, con conseguente opportunità di una compensazione integrale tra le parti delle spese dei tre gradi ad essi correlati, il terzo ed il quarto, su ricorso degli espropriati; la Corte territoriale ha quindi liquidato le spese delle ulteriori fasi, ponendole a carico dell’ente espropriante, soccombente, tenuto conto del valore indeterminabile della controversia, questione che non aveva costituito oggetto di ricorso per cassazione nel motivo di censura sulle spese, ed ha respinto la domanda degli appellanti in riassunzione di condanna di RFI per lite temeraria, ex art. 96 c.p.c., considerati la particolarità delle questioni trattate e l’avvicendamento di numerose pronunce, intervenute sulla base di nuovi orientamenti giurisprudenziali, novità legislative e sopravvenute dichiarazioni di illegittimità costituzionale.

Avverso la suddetta pronuncia, T.S., + ALTRI OMESSI propongono ricorso per cassazione, notificato il 18-22/5/2020, affidato a quattro motivi, nei confronti di Rete Ferroviaria Italiana spa (che resiste con controricorso notificato, il 25/6/2020) e di F.G. (che non svolge difese). I ricorrenti hanno depositato memoria.

RAGIONI DELLA DECISIONE

1. I ricorrenti lamentano: a) con il primo motivo, la violazione e/o falsa applicazione, ex art. 360 c.p.c., nn. 3 e 4, degli artt. 113, 115, 116, 132, 134, 324 e 345 c.p.c., e art. 118 disp. att. c.p.c., L. n. 2359 del 1865, art. 39, D.P.R. n. 32 del 2001, artt. 32 e 37, art. 834 c.c., art. 1224 c.c., comma 2, e art. 2909 c.c., nonché artt. 42,10,111 e 117 Cost., art. 17 Carta di Nizza, art. 1 Protocollo n. 1 addizionale CEDU, in relazione al mancato riconoscimento del diritto al pieno ristoro della perdita economica connessa all’espropriazione per pubblica utilità di immobili, per essere stato affermato un inesistente giudicato interno con il quale si è negato il risarcimento del maggior danno da perdita del potere di acquisto della moneta, oltre che per omesso esame, ex art. 360 c.p.c., n. 5, di fatto decisivo rappresentato dall’abnorme durata del processo, dal danno maturato durante il suo svolgimento e dalle prove articolate a dimostrazione dello stesso; b) con il secondo motivo, la violazione e/o falsa applicazione, ex art. 360 c.p.c., nn. 3 e 4, degli artt. 112, 113, 115, 116, 132 e 156 c.p.c., e art. 118 disp. att. c.p.c., D.P.R. n. 32 del 2001, artt. 32 e 37, artt. 834 e 1499 c.c., art. 1224 c.c., comma 2, nonché artt. 42,10,111 e 117 Cost., art. 17 Carta di Nizza, art. 1 Protocollo n. 1 addizionale CEDU, in relazione al mancato riconoscimento del diritto al pieno ristoro della perdita economica connessa all’espropriazione per pubblica utilità di immobili, stante l’omessa pronuncia sulla domanda di riconoscimento degli interessi compensativi calcolati anche sul maggior danno; c) con il terzo motivo, la violazione e/o falsa applicazione, ex art. 360 c.p.c., nn. 3 e 4, degli artt. 91, 96, 113, 115, 116, 132 e 156 c.p.c., e art. 118 disp. att. c.p.c., nonché 111 Cost., per apparente motivazione sul rigetto della richiesta di condanna al risarcimento dei danni non patrimoniali da temeraria resistenza alla lite; d) con il quarto motivo, la violazione e/o falsa applicazione, ex art. 360 c.p.c., n. 3, degli artt. 88, 91, 92 e 324 c.p.c., art. 2909 c.c., D.M. n. 127 del 2004, D.M. n. 120 del 2012, D.M. n. 55 del 2014, e D.M. n. 37 del 2018, per ingiusta compensazione delle spese di lite “di quattro fasi (tre gradi) di giudizio”, nonché per l’erronea affermazione di un giudicato interno circa lo scaglione di valore da prendere in considerazione ai fini della liquidazione dei compensi professionali.

2. Giova, ai fini del decidere, riassumere lo sviluppo del presente giudizio, avviato, nel febbraio 1974, nei confronti del Ministero dei Trasporti, con due riunite opposizioni alla stima dell’indennità, proposte da vari soggetti proprietari di terreni, siti nel comune di Anguillara Sabazia, espropriati con decreto prefettizio del 1973, a favore dell’Amministrazione delle Ferrovie dello Stato, già occupati in via d’urgenza (con decreto prefettizio del 1970) dall’espropriante, per la costruzione della sede dell’Istituto di ricerche ed esperienze ferroviarie (I.R.E.F.), indennità determinate dall’espropriante secondo i criteri di cui alla L. 15 luglio 1885, n. 2892, art. 13, sul risanamento della città di Napoli, richiamato dalla L. 7 luglio 1907, n. 429, art. 77, sulle espropriazioni occorrenti per le costruzioni ferroviarie.

Con sentenza non definitiva del 1975, il Tribunale di Roma respingeva le opposizioni, statuendo che, ai fini della determinazione dell’indennità di esproprio dovesse rimanere ferma la legge richiamata nel decreto di espropriazione, non essendo consentito al giudice ordinario di sindacare la scelta del modello espropriativo operata dalla pubblica amministrazione e di applicarne uno diverso; la Corte d’appello di Roma rigettava le impugnazioni avverso detta pronuncia, dichiarando il difetto di giurisdizione del giudice ordinario in ordine alla domanda, che investiva la legittimità dei criteri di indennizzo adottati dalla pubblica amministrazione.

Su ricorso degli espropriati, le Sezioni Unite di questa Suprema Corte, con sentenza 8 gennaio 1983 n. 134, cassavano tale decisione, affermando il principio che le scelte dell’amministrazione espropriante in ordine al procedimento ablativo adottato o ai relativi criteri indennitari non erano sindacabili dal giudice ordinario solo quando un potere di scelta della p.a. effettivamente sussisteva, mentre qualora fosse stato adottato un procedimento espropriativo contemplato da una determinata legge esclusivamente per specifiche opere pubbliche (nella specie, opere ferroviarie), ben poteva il giudice ordinario verificare se, in concreto, l’espropriazione si fosse riferita ad un’opera riconducibile, per natura e funzione, nell’ambito di detta particolare previsione normativa e, se tale corrispondenza fosse mancata, determinare la giusta indennità alla stregua dei criteri generali e secondo la fattispecie legale cui si riconnetteva il fatto dedotto in lite, con eventuale disapplicazione incidentale del provvedimento amministrativo.

La Corte d’appello di Roma, nuovamente investita, con sentenza non definitiva del 1985, riteneva, nel merito, che all’espropriazione in esame non potessero applicarsi i criteri indennitari della L. n. 2892 del 1885, richiamata dalla L. n. 429 del 1907, art. 77, a cui il decreto di esproprio aveva fatto riferimento, norma relativa alle espropriazioni occorrenti per la realizzazione delle linee ferroviarie e delle opere accessorie direttamente ricollegabili all’esercizio della rete ferroviaria, o legate con nesso pertinenziale a quelle principali, o comunque necessarie per assicurare materialmente l’esercizio delle linee, atteso che l’opera in questione, consisteva nella realizzazione di edifici destinati all’attività di studio e di ricerca e quindi solo indirettamente era ricollegabile all’esercizio della rete. La Corte di merito concludeva quindi che, nella specie, l’indennità doveva essere determinata secondo le disposizioni della L. 25 giugno 1865, n. 2359, artt. 39 e 40. Con successiva sentenza definitiva del 1987, la stessa Corte d’appello di Roma, sulla base dei suddetti criteri, liquidava in concreto le indennità per i vari beni espropriati.

Contro le due sentenze della Corte distrettuale, l’Amministrazione proponeva distinti ricorsi per cassazione, cui resistevano gli espropriati, a loro volta proponendo ricorso incidentale contro la sentenza definitiva, affidato ad un motivo.

Questa Corte con la sentenza n. 2798 del 1991, riuniti i ricorsi, rigettava il ricorso proposto dall’Ente Ferrovie dello Stato (inerente anche al criterio generale del valore venale ex L. n. 2359 del 1865, applicabile pure in caso di natura agricola dei suoli), contro la prima sentenza dalla Corte d’Appello di Roma del 1985, e, provvedendo sugli altri ricorsi, cassava senza rinvio la successiva sentenza definitiva resa dalla medesima Corte d’Appello nel 1987, rilevato che il giudice d’appello era stato investito solo ed esclusivamente dell’impugnazione immediata proposta contro la sentenza non definitiva del tribunale e non rientrasse quindi nei suoi poteri di cognizione anche quello di determinare in concreto la misura dell’indennità, trattandosi di questione ancora sub indice davanti al Tribunale; questa Corte condannava l’Ente Ferrovie dello Stato al pagamento delle spese del giudizio di cassazione inerenti al ricorso respinto e dichiarava compensate tra le parti le spese inerenti agli altri ricorsi.

La trattazione della causa veniva ripresa, dinanzi al Tribunale di Roma, che, con sentenza del 1998, anche all’esito di consulenze tecniche d’ufficio, respingeva le opposizioni degli espropriati e compensava le spese processuali, ritenendo applicabile lo ius superveniens di cui alla L. n. 359 del 1992, art. 5 bis, e di natura agricola i terreni occupati ed ablati, cosicché gli indennizzi (d’esproprio e di occupazione temporanea) determinati in sede amministrativa non si rivelavano incongrui.

Impugnata la pronuncia dagli espropriati, la Corte di appello di Roma, nel 2005, anche in base ad ulteriore disposta CTU, respingeva il gravame e, osservato che i terreni in questione non rientravano in base al PRG del Comune di Anguillara Sabazia tra le aree previste come edificabili dagli strumenti urbanistici e che l’attitudine edificatoria concreta non poteva rilevare, riteneva che le indennità dovessero essere determinate in base al valore agricolo medio, ai sensi della L. n. 359 del 1992, art. 5 bis, comma 4, cosicché, essendo, nel decreto di esproprio del 1973, il valore dei terreni, determinato in importo oscillante tra L. 200 e L. 1200 al mq (con valori medi tra Lire 400 e Lire 600 al mq), lo stesso era comunque superiore a quello applicabile (il valore agricolo medio) stimato dal consulente; la domanda di risarcimento danni da occupazione acquisitiva non poteva essere esaminata perché nuova e comunque infondata per difetto dei presupposti di tale vicenda acquisitiva e la retrocessione dei beni espropriati non era stata chiesta.

Su ricorso degli espropriati, questa Corte, con sentenza n. 15075/2012, cassava la sentenza con rinvio, accogliendo il terzo motivo di ricorso, in punto di ritenuta natura non edificabile dei terreni e di mancata applicazione del criterio della edificabilità di fatto, in mancanza all’epoca di strumento urbanistico, nonché tenuto conto del fatto che, per effetto delle sentenze della Corte Costituzionale n. 348 del 2007 e n. 181 del 2011, di declaratoria dell’incostituzionalità dei criteri riduttivi di determinazione degli indennizzi, previsti, rispettivamente, per le aree edificabile e per quelle, invece, agricole o comunque non edificabili, dalla L. n. 359 del 1992, art. 5 bis, commi 1, 2 e 4, l’intervenuta valutazione della Corte di merito si rivelava, in ogni caso, illegittima, dato lo ius superveniens, che imponeva, anche in riferimento ai suoli inedificabili, il criterio legale del valore venale, già previsto dalla L. n. 2359 del 1865, art. 39.

La Corte d’appello di Roma, in sede di rinvio, con sentenza n. 3930/2016, dichiarata inammissibile la domanda di risarcimento del danno da occupazione usurpativa, perché coperta dal giudicato per effetto della sentenza di merito del 2005, ed affermata l’inapplicabilità dell’art. 42 bis del T.U.E., D.Lgs. n. 327 del 2001, relativo alla c.d. acquisizione sanante, riteneva che dovesse applicarsi il criterio della edificabilità di fatto, in assenza di valido strumento urbanistico (adottato e approvato), e determinava, sulla base della stima di uno dei consulenti d’ufficio nominati, le indennità, di espropriazione, in Euro 168.332,00 e quella di occupazione in Euro 16.091,00, con riferimento alla data del decreto di esproprio, oltre interessi da tale data al saldo, escludendo la rivalutazione monetaria, trattandosi di debito di valuta, inammissibile, perché non tempestivamente formulata, la domanda di risarcimento del maggior danno, ai sensi dell’art. 1224 c.c., comma 2.

Impugnata tale sentenza dagli espropriati, questa Corte, poi, con l’ordinanza n. 8337/2018 che ha dato luogo al giudizio di rinvio definito dalla Corte d’appello di Roma con la sentenza qui impugnata, ha accolto, nei sensi di cui in motivazione, il secondo motivo di ricorso, con il quale gli espropriati ricorrenti lamentavano, come violazione di legge, che, pur avendo riconosciuto la qualità edificatoria delle aree, la Corte territoriale avesse ancorato la sua valutazione alla data dell’espropriazione, negando la rivalutazione, e così liquidato “indennizzi meramente simbolici, tenuto conto del tempo trascorso (45 anni)”, non attualizzati, assorbito il quarto motivo, in punto di spese legali, respinti gli altri motivi.

Questa Corte ha osservato che, dovendo l’indennità di espropriazione essere determinata in riferimento alle caratteristiche del bene al tempo dell’espropriazione, l’assunto dei ricorrenti “secondo cui la stima, ancorata alle caratteristiche del bene alla data dell’ablazione, dovrebbe esser riferita al valore del bene stesso al tempo “indefinito (…) prossimo alla decisione”” non era coerente con tale ricostruzione sistematica ed andava disatteso; in relazione al profilo della rivalutazione monetaria, questa Corte ha richiamato il proprio orientamento in ordine al fatto che “l’indennità di espropriazione, in quanto espressa ab origine in valori monetari, ha natura di debito di valuta (cfr. Cass. n. 17786 del 2015; 22923 del 2103; 3738 del 2012; 13456 del 2011; 719 del 2011), natura che non muta per il fatto che i criteri della sua determinazione vadano riferiti al valore del bene al tempo del provvedimento ablativo, in quanto, una volta che sia stato accertato, il relativo numerano costituisce, come si è detto, il ristoro, di cui all’art. 42 Cost., per la perdita del diritto reale, al quale si sostituisce”. Nella specie, la domanda, volta alla tutela della perdita del potere di acquisto della moneta, ex art. 1224 c.c., comma 2, risultava proposta il “15.10.1997”, dinanzi al Tribunale, cui la causa era stata rimessa, a seguito di pronuncia di questa Corte del 1991 di cassazione senza rinvio di pregressa decisione d’appello, ed era ammissibile, trattandosi di mera emendati(…) libelli e di specificazione quantitativa dell’originaria richiesta del danno da ritardo identificato con gli interessi legali; ad avviso della Corte il danno era poi “senz’altro ravvisabile tenuto conto che il processo, iniziato nel febbraio 1974, giunge all’esame di questa Corte per la quarta volta; conclusione che si pone in conformità col principio secondo cui il trascorrere del tempo non può ritorcersi in danno agli espropriati, in attesa della definizione del procedimento espropriativo, che deve concludersi con il pagamento del giusto indennizzo “in tempo utile” (art. 17 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea), ed è coerente con la giurisprudenza della Corte Edu”.

3. Tanto premesso, la prima censura è infondata.

In sede di riassunzione del giudizio di rinvio in appello, gli espropriati avevano chiesto il risarcimento del maggior danno, ex art. 1224 c.c., comma 2, e art. 345 c.p.c., sofferto a causa della perdita del potere di acquisto della moneta derivato dalla lunga durata (dal 1974) del processo “ovvero la differenza tra le indennità, di occupazione d’urgenza e di esproprio stabilite dalla Corte d’appello con la sentenza n. 3930/2016, riferite al valore che avevano alla data del provvedimento espropriativo (anno 1973) e il valore attuale di terreni edificabili aventi le medesime caratteristiche e/o indici si edificabilità di quelli espropriati, oltre al risarcimento del danno derivato dal mancato godimento dei beni o, in alternativa, del mancato introito degli interessi legali derivanti dalle indennità”.

La Corte d’appello ha ritenuto che le pretese degli appellanti di riconoscimento del maggior danno, o ragguagliato al valore corrente ed attuale di mercato dei terreni espropriati con vocazione edificatoria o al maggior valore che i terreni avevano al tempo dell’espropriazione, maggiorato della rivalutazione monetaria effettiva derivata dalla perdita del potere di acquisto della moneta, non erano accoglibili: la prima, in quanto le indennità vanno determinate con riferimento al valore del bene al tempo dell’espropriazione, come confermato dalla Suprema Corte nell’ordinanza del 2018, la seconda in quanto, come sempre chiarito dalla Suprema Corte, l’indennità di espropriazione ha natura di debito di valuta ed i criteri della sua determinazione vanno sempre riferiti al valore del bene al tempo del provvedimento ablativo; neppure poteva tale danno essere liquidato, in difetto di pregressa tempestiva allegazione in tal senso, in misura pari alla maggiore spessa che gli espropriati sarebbero costretti oggi ad affrontare nell’ipotesi di acquisto di terreni con le stesse caratteristiche e nella stessa zona.

Di conseguenza, la Corte di merito ha fatto richiamo al principio di diritto posto dalle Sezioni Unite di questa Corte con la sentenza n. 19499/2008, secondo cui in caso di inadempimento di un’obbligazione di valuta il maggior danno ex art. 1224 c.c., comma 2, spetta, oltre ai già liquidati interessi legali, a qualunque creditore, senza necessità di inquadramento dello stesso in una specifica categoria, essendo determinato in via presuntiva nel parametro relativo all’eventuale differenza, durante la mora (nella specie iniziata con la domanda introduttiva del giudizio) e sul presupposto del ritardo colpevole dell’espropriante (nella specie sussistente, essendo risultate le indennità liquidate con la sentenza n. 3930/2016 della Corte di Appello superiori di gran lunga a quelle a suo tempo stimate dall’ente espropriante e non risultando che lo stesso avesse intrapreso iniziative atti a più celere definizione della lite e liquidazione delle giuste indennità), tra il tasso di rendimento medio annuo netto dei titoli di Stato di durata non superiore a dodici mesi ed il saggio degli interessi legali.

I ricorrenti, deducendo che, per effetto dell’integrazione disposta con la decisione qui impugnata, “l’irrisorio indennizzo”, liquidato nel 2016 per le indennità di occupazione e di espropriazione, era stato aumentato dell’ulteriore importo di “C 319.679,10” (importo questo contestato dalla controricorrente RFI, sul rilievo che esso sia stato calcolato sull’intero capitale, da indennità liquidate, non detraendo la somma di Euro 43.649,00, già depositata dall’ente nel 1973), lamentano che non sia stato riconosciuto un maggior danno da perdita effettiva del potere di acquisto della moneta, sulla base di un asserito, inesistente, giudicato interno, essendo stato il criterio del c.d. rendistato indicato dalle Sezioni Unite di questa Corte del 2008 in via meramente presuntiva, salvo allegazione e prova da parte del creditore di un maggior danno.

Ma così facendo i ricorrenti introducono argomentazioni e censure (si pensi al richiamo al D.P.R. n. 327 del 2001, artt. 32 e 37, in ordine alla necessità di “attualizzazione” del valore dei beni espropriati ad epoca prossima alla decisione, o alla doglianza in ordine al mancato riconoscimento del diritto al risarcimento del danno patrimoniale e non patrimoniale ex art. 42 bis del TU, sulla base del fatto che la procedura, formalmente regolare, dovesse essere ritenuta illegittima, in quanto l’opera pubblica non era stata realizzata, con conseguente irrilevanza del decreto di espropriazione tempestivamente emesso, ed i terreni erano, poi, stati venduti a terzi dall’espropriante, con valore incrementato degli stessi), espressamente già ritenute infondate da questa Corte nell’ordinanza del 2018.

Ora, questa Corte ha da tempo affermato (Cass.17790/2014; Cass. 6707/2004) che “i limiti dei poteri attribuiti al giudice di rinvio sono diversi a seconda che la pronuncia di annullamento abbia accolto il ricorso per violazione o falsa applicazione di norme di diritto, ovvero per vizi di motivazione in ordine a punti decisivi della controversia, ovvero per entrambe le ragioni: nella prima ipotesi, il giudice deve soltanto uniformarsi, ex art. 384 c.p.c., comma 1, al principio di diritto enunciato dalla sentenza di cassazione, senza possibilità di modificare l’accertamento e la valutazione dei fatti acquisiti al processo, mentre, nella seconda, non solo può valutare liberamente i fatti già accertati, ma anche indagare su altri fatti, ai fini di un apprezzamento complessivo in funzione della statuizione da rendere in sostituzione di quella cassata, ferme le preclusioni e decadenze già verificatesi; nella terza, infine, la sua “potestas iudicandi”, oltre ad estrinsecarsi nell’applicazione del principio di diritto, può comportare la valutazione “ex novo” dei fatti già acquisiti, nonché la valutazione di altri fatti, la cui acquisizione, nel rispetto delle preclusioni e decadenze pregresse, sia consentita in base alle direttive impartite dalla decisione di legittimità”. Sempre questa Corte ha precisato che, in caso di cassazione con rinvio per vizio di motivazione (da solo o cumulato con il vizio di violazione di legge), “il giudice del rinvio non solo può valutare liberamente i fatti già accertati, ma può anche indagare su altri fatti, ai fini di un apprezzamento complessivo, in relazione alla pronuncia da emettere in sostituzione di quella cassata, con il solo limite del divieto di fondare la decisione sugli stessi elementi del provvedimento impugnato ritenuti illogici ed eliminando, a seconda dei casi, le contraddizioni ed i difetti argomentativi riscontrati” (Cass.12102/2014; Cass.1660/2017); cfr. Cass. 448/2020.

In definitiva, se l’annullamento da parte di questa Corte sia avvenuto, come nella specie, per violazione di norme di diritto, il giudice del rinvio è tenuto ad uniformarsi al principio di diritto enunciato nella sentenza di cassazione, senza possibilità di modificare l’accertamento e la valutazione dei fatti, già acquisiti al processo.

Ora, in effetti, con l’ordinanza del 2018 di questa Corte si è quindi ribadito, in accoglimento solo parziale, nei sensi di cui in motivazione, del secondo motivo di ricorso, che l’indennità in oggetto ha natura di debito di valuta e che quindi non è soggetta ad automatica rivalutazione monetaria in correlazione al deprezzamento della moneta (censure tutte che sono state respinte), salvo il rimedio di cui all’art. 1224 c.c., comma 2, stante la specifica domanda comunque formulata dagli espropriati.

Questa Corte ha invero già chiarito che “le obbligazioni di pagare l’indennità di espropriazione e di occupazione legittima costituiscono debiti di valuta (non di valore), sicché, nel caso in cui, in esito ad opposizione alla stima effettuata in sede amministrativa, venga riconosciuto all’espropriato una maggiore somma a titolo di indennità espropriativa, l’espropriante deve corrispondere, solo su detta maggiore somma, gli interessi legali, di natura compensativa, dal giorno dell’espropriazione e fino alla data del deposito della somma medesima” (Cass. 13456/2011; Cass. 2018/2017; Cass. 17797/2019; Cass. 3274/2020).

Si è poi precisato (Cass. 4885/2006; Cass. 3794/2015), in tema di operatività del disposto dell’art. 1224 c.c., comma 2, che, nel caso in cui, in esito ad opposizione alla stima, venga attribuita all’espropriato una maggiore somma, a titolo di indennità di esproprio, “il riconoscimento, ex art. 1224 c.c., comma 2, dell’ulteriore danno conseguente alla svalutazione monetaria di tale maggiore importo presuppone la mora dell’espropriante e, quindi, un suo comportamento colpevole ai sensi degli artt. 1218 e 1176 c.c.” (nella specie, questa Corte ha ritenuto che la “mora debendi” si configura solo a partire dalla data dell’inizio del giudizio di opposizione alla stima o di determinazione dell’indennità, perché soltanto da tale momento l’amministrazione espropriante può prestare adesione alla domanda del privato o offrire un accordo transattivo, incorrendo, in mancanza di tali iniziative, in responsabilità colpevole).

Nella specie, la Corte di merito ha ribadito, in conformità ad orientamento consolidato di questo giudice di legittimità, che il risarcimento del danno derivante dalla svalutazione monetaria verificatasi durante la mora del debitore, ex art. 1224 c.c., comma 2, nelle obbligazioni, quali quella in oggetto, di valuta, non costituisce una conseguenza automatica del fatto notorio della perdita del potere di acquisto della moneta, ma comporta l’onere dell’allegazione e della prova di circostanze, tali che consentano al giudice di desumere, in via presuntiva, la sussistenza e l’entità del maggior danno subito, in forme tali da superare il ristoro derivante dalla corresponsione dell’interesse legale all’epoca applicabile in caso di mora del debitore, da qualunque creditore quale che ne sia la qualità soggettiva o l’attività svolta (e quindi tanto nel caso di imprenditore, quanto nel caso di pensionato, impiegato, ecc.), in misura corrispondente alla differenza, durante la mora, tra il saggio degli interessi legali ed il saggio medio di rendimento netto dei titoli di Stato con scadenza non superiore a dodici mesi (Cass. SU 19499/2008; conf. Cass.3029/2015; Cass. 3954/2015; Cass. 24598/2015).

Vero che, se il creditore domanda, a titolo di risarcimento del maggior danno, una somma superiore a quella risultante dal suddetto saggio di rendimento dei titoli di Stato, egli potrà e dovrà provare l’esistenza e l’ammontare di tale pregiudizio, anche per via presuntiva, salva prova contraria, anche in via presuntiva, del debitore.

Ma, nella specie, i creditori espropriati si erano limitati ad invocare un maggior danno ragguagliato al valore corrente di mercato dei terreni espropriati con vocazione edificatoria, riferito all’attualità, o maggiorato della rivalutazione monetaria effettiva, argomentazioni tutte già respinte da questa Corte con l’ordinanza del 2018, cosicché la Corte d’appello, respingendo la richiesta di nuova consulenza tecnica per verificare il valore attuale dei terreni, ha correttamente ritenuto di applicare il criterio presuntivo dettato dalle Sezioni Unite del 2008, non essendo, peraltro, neppure mai stato allegato o dimostrato “che le somme dovute a titolo di giusta indennità di espropriazione, se tempestivamente percepite, sarebbero state impiegate per l’acquisto di siffatti terreni”.

Ora, in ricorso, i ricorrenti si limitano a dedurre che la prova di un diverso “maggior danno” ex art. 1224 c.c., comma 2, secondo diversi criteri di quantificazione, sarebbe stato dimostrato dalla produzione di una “proposta transattiva del 5/7/2004 con la quale chiedevano un indennizzo globale di Euro 4.485.664,14 o in alternativa la restituzione dei terreni oltre al pagamento delle spese dei vari gradi del giudizio”, con deduzione di non chiara comprensibilità, ovvero ad invocare un omesso esame di fatto decisivo, ex art. 360 c.p.c., n. 5, rappresentato sempre dalle prove, offerte e dedotte, al di fuori dei precisi limiti del nuovo disposto normativo.

4. La seconda doglianza è del pari infondata.

Nel corpo del motivo si fa riferimento al mancato riconoscimento di “interessi compensativi” ex art. 1499 c.c., da calcolarsi sul totale delle indennità liquidate dalla Corte di appello con la sentenza n. 3930/2016.

La Corte di merito ha ritenuto la domanda, di riconoscimento del danno da mancato godimento dei terreni espropriati o da perdita dei frutti che detti immobili sarebbero stati capaci di produrre o, per equivalente, di rimborso degli interessi legali che il “capitale corrispondente ai beni immobili”, espropriati, sarebbe stato in grado di produrre, inammissibile perché nuova e comunque esulante dall’oggetto del giudizio di opposizione alla stima, rivolto alla determinazione delle giuste indennità di espropriazione e di occupazione.

Come già chiarito da questa Corte (Cass. 9662/1997) gli interessi compensativi sono una categoria di interessi remunerativi (come gli interessi corrispettivi), riferita però ai crediti illiquidi: essi decorrono di pieno diritto anche sui crediti illiquidi ed indipendentemente dalla mora e dall’inadempimento. La norma di riferimento è l’art. 1499 c.c., che prevede, nella vendita, salvo diversa pattuizione, che, laddove vi sia uno scarto temporale tra godimento del bene acquistato, consegnato al compratore, e pagamento del prezzo, siano dovuti gli interessi compensativi sul prezzo, anche se questo non è ancora esigibile, al fine di reintegrare il venditore del mancato godimento del bene, in caso di consegna anticipata dello stesso al compratore, prima della ricezione del corrispettivo da parte dell’alienante.

Per le indennità di espropriazione per pubblica utilità, la giurisprudenza ha da tempo, sin dalla L. n. 2359 del 1865, ritenuto che gli interessi sull’indennità d’esproprio decorrevano dal giorno in cui s’avverava per il privato la perdita del bene (S.U. 2468/1951; Cass. 1285/68) e si è quindi affermato che “sul debito dell’espropriante relativo all’indennità di espropriazione, costituente obbligazione di valuta, sono dovuti gli interessi legali, per il fatto stesso che la relativa somma è rimasta a disposizione dell’espropriante, a prescindere quindi da una sua colposa responsabilità per il ritardo nel pagamento dell’indennità; e tali interessi, aventi natura compensativa, e non moratoria, decorrono coerentemente dal giorno dell’espropriazione, fino alla data dell’effettivo pagamento dell’indennità” (Cass. 9662/1997; da ultimo: Cass. n. 6186/2003; Cass. n. 10929/2008; Cass., n. 13456/2011; Cass. 20187/2017).

Questa Corte ha, in sostanza, affermato che, sul debito dell’espropriante relativo all’indennità di espropriazione, sono dovuti gli interessi legali, aventi natura compensativa, che decorrono dal giorno dell’espropriazione, atteso che la piena disponibilità del bene da parte dell’espropriante, unitamente alla mancata numerazione dell’equivalente monetario, crea una situazione di ingiusto vantaggio a favore del debitore, il quale fruisce di un capitale che dovrebbe già far parte del patrimonio del creditore, e, per identiche ragioni, sulle somme dovute a titolo di indennità di occupazione, dalla scadenza di ciascuna annualità, quale momento di maturazione del relativo diritto (Cass. 16908/2003; Cass. 5520/2006; Cass. 13456/2011; Cass. 2018/2017; Cass. 17797/2019; Cass. 3274/2020).

Nella specie, sono stati comunque attribuiti, oltre al maggior danno come sopra quantificato, gli interessi legali sulle somme dovute a titolo di indennità di espropriazione e di occupazione, dalla data del decreto di esproprio al saldo, già riconosciuti nella sentenza della Corte d’appello del 2016 poi cassata, ma i ricorrenti vorrebbero degli interessi “compensativi” non del mancato godimento del capitale loro effettivamente spettante e riconosciuto a titolo di indennità ma del capitale corrispondente al valore attualizzato dei terreni espropriati, richiesta questa già ritenuta infondata con l’ordinanza di questa Corte del 2018, con conseguente preclusione anche per giudicato interno.

5. La terza censura è infondata.

La Corte d’appello ha ritenuto, con congrua ed esaustiva motivazione, tenuto conto del complesso andamento del processo, caratterizzato da nuovi orientamenti giurisprudenziali, connessi all’evoluzione della normativa in materia di espropriazione per pubblica utilità, novità legislative e sopravvenute declaratorie di illegittimità costituzionale, di potere escludere la sussistenza di malafede o colpa grave della parte soccombente, presupposti che sussistono “quando la parte abbia agito, o resistito, con la coscienza dell’infondatezza della domanda o dell’eccezione, ovvero senza avere adoperato la normale diligenza per acquisire la coscienza dell’infondatezza della propria posizione”, in relazione all’oggetto del giudizio.

Ora, come chiarito da questa Corte (Cass. 327/2010), l’accertamento, ai fini della condanna al risarcimento dei danni da responsabilità aggravata ex art. 96 c.p.c., dei requisiti dell’aver agito o resistito in giudizio con mala fede o colpa grave (comma 1) ovvero del difetto della normale prudenza (comma 2) implica un apprezzamento di fatto, non censurabile in sede di legittimità, se la sua motivazione in ordine alla sussistenza o meno dell’elemento soggettivo ed alli “an” ed al “quantum” dei danni di cui è chiesto il risarcimento risponde ad esatti criteri logico-giuridici (nella specie, questa Corte, rigettando il ricorso avverso una sentenza adottata in sede di rinvio, ha ritenuto adeguata la motivazione con la quale era stata respinta la domanda di risarcimento ex art. 96 c.p.c., in ragione della perdurante complessità delle questioni che erano state oggetto del giudizio, tali da escludere che l’esercizio dell’azione fosse stato imprudente, tenendo conto, altresì, che il principio precedentemente enunciato dal giudice di legittimità non aveva escluso la prospettazione di ulteriori questioni rilevanti nella sua applicazione).

Invero, presupposto della condanna al risarcimento dei danni a titolo di responsabilità aggravata per lite temeraria è la totale soccombenza, che va considerata in relazione all’esito del giudizio, come si desume dal fatto che la condanna al risarcimento si aggiunge, secondo la previsione dell’art. 96 c.p.c., alla condanna alle spese, la quale è correlata all’esito finale del giudizio (Cass. 11917/2002; Cass. 19583/2013).

6. Il quarto motivo è inammissibile.

I ricorrenti denunciano l’erroneità della disposta compensazione delle spese di lite per tutti i gradi delle “quattro” precedenti fasi, in realtà due, concluse con le sentenze di questa Corte Suprema nn. 134/1983, a Sezioni Unite, e 2798/1991 In tema di spese processuali, questa Corte ha costantemente affermato (Cass. 24502/2017; Cass. 8421/2017; Cass.15317/2013) che il sindacato della Corte di cassazione, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, è limitato ad accertare che non risulti violato il principio secondo il quale le stesse non possono essere poste a carico della parte totalmente vittoriosa, per cui vi esula, rientrando nel potere discrezionale del giudice di merito, la valutazione dell’opportunità di compensarle in tutto o in parte, sia nell’ipotesi di soccombenza reciproca che in quella di concorso di altri giusti motivi.

Peraltro, si è chiarito che “la compensazione delle spese processuali di un grado di giudizio, per gravi ed eccezionali ragioni (tenuto conto della formulazione dell’art. 92 c.p.c., comma 2, applicabile “ratione temporis”), non collidendo con il principio dell’infrazionabilità della soccombenza, può coesistere con la condanna alle spese in favore della parte vittoriosa in relazione ad altri gradi del medesimo giudizio, atteso che la violazione delle disposizioni relative all’onere delle spese processuali è configurabile solo quando queste vengano poste, in tutto o in parte, a carico della parte totalmente vittoriosa” (Cass. 7146/2017).

La Corte territoriale ha considerato che: a) le Sezioni Unite del 1983 avevano affermato la giurisdizione del giudice ordinario, in relazione ad un procedimento espropriativo, quale quello in oggetto, in cui l’amministrazione, all’epoca, in sede di determinazione dell’indennizzo aveva ritenuto di applicare una determinata legge prevista solo per specifiche opere pubbliche e comportante criteri di liquidazione dell’indennità riduttivi rispetto a quelli generali, precisando che era consentito al giudice ordinario, disapplicando il relativo provvedimento, ancorché non impugnato davanti al giudice amministrativo, così da liquidare le indennità secondo i criteri generali; b) con la sentenza n. 2798/1991, se effettivamente uno dei due ricorsi promossi dall’Ente ferroviario era stato respinto, questa Corte poi, “pronunciando” sui restanti ricorsi, principale dell’Ente ed incidentale dei proprietari espropriati, in relazione a sentenza definitiva della Corte d’appello del 1987, la cassava senza rinvio, rilevando che il giudice d’appello era stato investito solo ed esclusivamente dell’impugnazione immediata proposta contro la sentenza non definitiva del Tribunale, e con la decisione su di essa si erano esauriti i suoi poteri di cognizione, non rientrando in essi anche quello di determinare in concreto la misura dell’indennità, trattandosi di questione ancora sub iudice davanti al tribunale, e per la quale non risulta esservi stata decisione di primo grado, né tanto meno impugnazione contro la stessa.

Considerato quindi l’iter processuale complesso e peculiare, e le questioni di diritto, anche in rito, risolte con le pronunce di questa Corte a Sezioni Unite del 1983 ed a sezione semplice del 1991, la Corte di merito ha ritenuto motivatamente di compensare le spese processuali tra le parti integralmente.

Quanto alla seconda parte del motivo, in punto di erronea liquidazione delle spese di lite, per le fasi successive, secondo il criterio della soccombenza poste a carico dell’espropriante, la doglianza è inammissibile.

I ricorrenti deducono che lo scaglione applicabile non era quello relativo alle cause di valore indeterminabile ma quello relativo alle controversie di valore oltre Euro 520.000,00, contestando che la statuizione della Corte d’appello n. 3930/2016, in punto di spese (compensate solo in parte, per le fasi ed i gradi al giudizio di appello definito nel 2005), impugnata dagli espropriati, con ricorso per cassazione (quarto motivo, ritenuto da questa Corte nell’ordinanza n. 8337/2018, assorbito), solamente in punto di parziale compensazione per alcune fasi e gradi, non anche con riguardo alla questione dello scaglione di riferimento per le spese liquidate, individuato in quelle di valore indeterminabile, non aveva rilievo autonomo e quindi non comportava preclusione da giudicato interno, come invece sostanzialmente ritenuto nella decisione d’appello qui impugnata.

La doglianza posta da tale parte del motivo sarebbe fondata, al di là della questione circa la formazione o meno di un giudicato interno, in quanto “la cassazione della sentenza di appello travolge sia la pronuncia sulle spese di secondo grado, perché in tal senso espressamente disposto dall’art. 336 c.p.c., comma 1, sia quella sulle spese del primo grado, se sull’onere delle stesse il giudice di appello si sia pronunciato disattendendo uno specifico motivo di appello proprio a causa della decisione di merito” (Cass. 827/2006; Cass. 4887/2016; Cass. 1775/2017); sempre questa Corte (Cass. 5987/2001; Cass. 14075/2002; Cass. 9783/2003) ha ribadito che “in tema di spese processuali, la cassazione con rinvio anche di un solo capo di una sentenza d’appello si estende alla statuizione relativa alle spese processuali, con la conseguenza che il giudice di rinvio, se riforma la sentenza di primo grado, ha il potere di rinnovare totalmente la regolamentazione delle spese alla stregua dell’esito finale della lite e, in conseguenza di questo apprezzamento unitario, di pervenire anche ad un provvedimento di compensazione totale o parziale delle spese dell’intero giudizio” e che “il giudice di rinvio è tenuto a provvedere sulle spese dell’intero giudizio di merito se riforma la sentenza di primo grado, ovvero sulle spese delle fasi d’impugnazione se rigetta l’appello”. Invero, il potere del giudice d’appello di procedere d’ufficio ad un nuovo regolamento delle spese processuali, quale conseguenza della pronunzia di merito adottata, sussiste in caso di riforma in tutto o in parte della sentenza impugnata, poiché gli oneri della lite devono essere ripartiti in ragione del suo esito complessivo; invece “in caso di conferma della sentenza impugnata, la decisione sulle spese può essere modificata dal giudice del gravame soltanto se il relativo capo della sentenza abbia costituito oggetto di specifico motivo d’impugnazione” (Cass. 14916/2020).

Ora, la sentenza di appello del 2016 venne cassata da questa Corte con l’ordinanza del 2018.

Tuttavia, nel motivo di ricorso, i ricorrenti si limitano a ritenere ingiusta la liquidazione delle spese (avendo la Corte d’appello riconosciuto, a titolo di compensi, in relazione alle fasi successive, concluse con sentenza di questa Corte del 2012 e del 2018: Euro 11.500,00 per il giudizio di appello n. 3004/1999; Euro 9.000,00 pe il giudizio di legittimità definito con sentenza n. 15075/2012; Euro 44.000,00 per il giudizio di rinvio n. 989/2013; Euro 26.244,00 per il giudizio di legittimità definito con ordinanza n 8337/2018; Euro 50.734,00 per il giudizio di rinvio n. 4804/2018, conclusosi con la decisione oggi impugnata).

Ora, il superamento da parte del giudice dei limiti minimi e massimi della tariffa forense nella liquidazione delle spese giudiziali configura un vizio in iudicando e pertanto per l’ammissibilità della censura è necessario che nel ricorso per cassazione siano specificati i singoli conteggi contestati e le corrispondenti voci della tariffa professionale violate al fine di consentire alla Corte il controllo di legittimità senza dover espletare un’inammissibile indagine sugli atti di causa (Cass. 15172/2003; Cass. 22983/2014).

7. Per tutto quanto sopra esposto, va respinto il ricorso. Attese le questioni oggetto della lite e tutte le peculiarità, anche processuali, della controversia, ricorrono giusti motivi per compensare integralmente tra le parti le spese del presente giudizio di legittimità.

PQM

La Corte respinge il ricorso; dichiara compensate integralmente tra le parti le spese del presente giudizio di legittimità.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della ricorrenza dei presupposti processuali per il versamento da parte dei ricorrenti dell’importo a titolo di contributo unificato, pari a quello dovuto per il ricorso, ove dovuto, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis.

Così deciso in Roma, nella Camera di Consiglio, il 21 maggio 2021.

Depositato in Cancelleria il 21 luglio 2021

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