Corte di Cassazione, sez. III Civile, Ordinanza n.21121 del 22/07/2021

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LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TERZA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. FRASCA Raffaele – Presidente –

Dott. SESTINI Danilo – Consigliere –

Dott. POSITANO Gabriele – rel. Consigliere –

Dott. VALLE Cristiano – Consigliere –

Dott. MOSCARINI Anna – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 4258-2019 proposto da:

C.A., CA.PA., elettivamente domiciliati in ROMA, VIA CRESCENZIO 19, presso lo studio dell’avvocato MASSIMO PANZARANI, rappresentati e difesi dall’avvocato BEATRICE BERTINI;

– ricorrenti –

contro

BANCA POPOLARE DI SONDRIO SCPA, elettivamente domiciliato in ROMA, VIA ANTONIO GRAMSCI N. 9, presso lo studio dell’avvocato GIUSEPPE LUDOVICO MOTTI BARSINI, che lo rappresenta e difende unitamente all’avvocato SILVIA BETTINI;

– controricorrenti –

avverso la sentenza n. 3119/2018 della CORTE D’APPELLO di MILANO, depositata il 25/06/2018.

RILEVATO

che:

con decreto ingiuntivo del 22 gennaio 2014 la Banca Popolare di Sondrio ingiungeva il pagamento della complessiva somma di Euro 450.000 nei confronti di C.A. (per l’importo di Euro 270.000), di Ca.Pa. (per l’importo di Euro 112.500), di P.C. (per l’importo di Euro 45.000) e, nei confronti di A.E. (per il residuo importo di Euro 22.500). La banca deduceva che gli ingiunti erano fideiussori omnibus pro quota del debitore principale, Srl *****, società verso la quale l’istituto aveva agito in sede di fallimento;

avverso tale decreto proponevano opposizione i dottori C. e Ca. davanti al Tribunale di Sondrio e si costituiva la banca opposta;

con sentenza del 3 novembre 2015 il Tribunale rigettava l’opposizione, confermando il decreto ingiuntivo e provvedendo sulle spese di lite;

con atto di citazione del 2 maggio 2016 gli opponenti proponevano appello davanti alla Corte territoriale di Milano, deducendo che la procura alle liti conferita dall’istituto di credito al proprio difensore, in calce al ricorso per decreto ingiuntivo, era nulla per mancata indicazione del nominativo di chi avrebbe conferito l’atto, atteso che le due firme apposte risultavano illeggibili e non era indicata la qualifica dei soggetti conferenti. Inoltre, la procura non era stata autorizzata dagli organi deliberativi della banca. Nel merito, la fideiussione era novativa rispetto alle precedenti, sostituendole ed estinguendo la precedente esposizione che, conseguentemente doveva ritenersi limitata ad Euro 150.000. Infine, la banca si era insinuata nel passivo del fallimento del debitore principale, con conseguente duplicazione di titoli. Si costituiva l’istituto di credito contestando la fondatezza dell’impugnazione;

La Corte d’Appello di Milano, con sentenza del 25 giugno 2018 rigettava l’impugnazione condannando gli appellanti al pagamento delle spese di lite;

avverso tale decisione propongono ricorso per cassazione C.A. e Ca.Pa. affidandosi a sei motivi, illustrati da memoria. Resiste con controricorso la Banca Popolare di Sondrio. La trattazione del ricorso è stata fissata ai sensi dell’art. 380-bis.1. c.p.c.

CONSIDERATO

che:

preliminarmente, il ricorso è inammissibile per violazione dell’art. 366 c.p.c., n. 3 perché sotto l’apparente indicazione dello svolgimento del giudizio di primo e secondo grado, i ricorrenti riportano soltanto i dati formali del credito azionato con il procedimento monitorio sulla base di tre fideiussioni omnibus. I ricorrenti omettono di:

indicarne i dati identificativi, la provenienza del debito consistente della debitrice principale. Non vengono riportate le ragioni della opposizione a decreto ingiuntivo;

precisare la causa petendi ed il petitum a fondamento del decreto e della comparsa di costituzione della banca posta;

menzionare le memorie, le udienze e i provvedimenti sulla provvisoria esecuzione senza indicarne le motivazioni;

riportare il dispositivo della sentenza del Tribunale di Sondrio ed indicare le argomentazioni del primo giudice;

illustrare i motivi di appello, ma solo le conclusioni, la posizione adottata dalla banca nel giudizio di secondo grado e le argomentazioni della sentenza di appello;

la stessa riproduzione della sentenza non contiene, comunque, un’esposizione del fatto sufficiente a individuare la materia del contendere in senso sostanziale e nel suo dipanarsi nello svolgimento processuale;

se fosse possibile lo scrutinio dei motivi senza che il Collegio abbia percepito una chiara esposizione del fatto, essi meriterebbero le seguenti considerazioni:

con il primo motivo si deduce, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., nn. 3 e 5 la violazione dell’art. 83 c.p.c. riguardo alla nullità della procura speciale alle liti posta a fondamento del ricorso per decreto ingiuntivo; ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 3, si lamenta la violazione degli artt. 115 e 116 c.p.c. in ordine alla mancata e adeguata valutazione del documento n. 5 esibito dalla banca;

si deduce, altresì, l’omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio rappresentato dal predetto documento. La censura riguarda il mancato accoglimento dell’eccezione di nullità della procura posta in calce al ricorso per decreto ingiuntivo e la titolarità del potere rappresentativo dei soggetti che avrebbero conferito il mandato;

il motivo è infondato poiché la Corte territoriale ha fatto corretta applicazione del principio espresso a Sezioni Unite da questa Corte (sentenza 7 marzo 2005, n. 4810) secondo cui il profilo dell’eventuale illegittimità della firma è superato nel caso in cui il nome del sottoscrittore risulti dal testo dell’atto o dall’intestazione dello stesso. Nel caso di specie la Corte territoriale dà atto che, dall’epigrafe del ricorso per decreto ingiuntivo, emerge il nominativo dei soggetti che hanno rilasciato la procura, oltre che le funzioni degli stessi;

parte ricorrente deduce, altresì, che diversamente da quanto affermato dalla Corte territoriale, dai documenti prodotti nella fase di opposizione non risulterebbe, né qualifica di “direttore centrale” di F.L., né quella di “procuratore” di Pi.Gi.;

la censura è inammissibile perché dedotta in violazione dell’art. 366 c.p.c., n. 6 non avendo parte ricorrente trascritto il contenuto degli atti specificamente richiamati dalla Corte territoriale (epigrafe del ricorso monitorio e documentazione prodotta, oltre al contenuto della comparsa di costituzione in appello) al fine di dimostrare che l’assenza, in tali documenti, delle indicazioni richiamate dal giudice di appello;

i ricorrenti, lamentano, altresì, che dalla documentazione esibita dall’istituto di credito non emergerebbero, in capo ai firmatari, i poteri per conferire al difensore l’incarico di instaurare il giudizio monitorio;

la censura è inammissibile per quanto già detto con riferimento alla precedente doglianza atteso che, a fronte del riferimento specifico da parte della Corte territoriale alla documentazione esibita, già in primo grado, dalla banca (verbale del consiglio di amministrazione del 3 aprile 2003 relativo alle deleghe necessarie per la costituzione in giudizio dell’istituto di credito e verbale del consiglio di amministrazione con indicazione della qualifica di vice direttore centrale dirigente e di direttore centrale, rispettivamente del Piraino e del F.), la doglianza omette di trascrivere, allegare e localizzare tali documenti al fine di dimostrare la fondatezza della eccezione;

con il secondo motivo si lamenta, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 3, la violazione degli artt. 115 e 116 c.p.c. sulla mancata valutazione dell’assenza di prova della delibera di autorizzazione a promuovere il giudizio monitorio nei confronti dei fideiussori;

il motivo è inammissibile perché dedotto in violazione dell’art. 366, n. 6 c.p.c. avendo parte ricorrente omesso di documentare la produzione che si assume carente da parte della banca, attraverso la trascrizione, allegazione o individuazione nel fascicolo di legittimità dei verbali di causa e dei documenti richiamati dalla Corte territoriale, al fine di dimostrare l’inesistenza di una “previa autorizzazione degli organi deliberativi della banca”. Ciò a fronte di una specifica affermazione in senso contrario da parte della Corte d’Appello di Milano, secondo cui quei documenti sarebbero stati prodotti già in primo grado e nuovamente depositati su richiesta della Corte territoriale, nel giudizio di appello, menzionando l’atto di delega del 12 dicembre 2016, funzionale alla produzione dei documenti richiamati;

con il terzo motivo si lamenta, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 3, la violazione degli artt. 1230 c.c. e ss. e art. 1936 c.c. e ss. Il giudice di appello avrebbe erroneamente escluso la natura novativa della fideiussione del 5 luglio 2011, rispetto alle precedenti garanzie, rispettivamente, del 4 agosto 2008 e del 13 dicembre 2010, rilasciate dagli odierni ricorrenti. Contrariamente alla tesi sostenuta in appello, il riferimento alle nuove linee di credito presente nella terza fideiussione dimostrerebbe l’effetto novativo e la sostituzione delle precedenti obbligazioni con il nuovo vincolo, limitato al minore importo di Euro 150.000, a fronte di quello di Euro 450.000 oggetto della pretesa monitoria;

motivo è inammissibile per due ordini di ragioni:

in primo luogo, perché è dedotto in assoluta violazione dell’art. 366 c.p.c., n. 6 avendo il ricorrente omesso di trascrivere il contenuto dei tre documenti richiamati al fine di consentire a questa Corte di valutare la fondatezza delle pretese. Le tre fideiussioni, individuate per la prima volta in questa sede con la data di sottoscrizione, non sono allegate e neppure localizzate all’interno del fascicolo di legittimità, ad eccezione di due brevi riferimenti contenuti alle pagg. 20 e 21 del ricorso, al “doc 1”, che, peraltro, non viene nemmeno identificato nella sua natura, anche se presumibilmente da riferire al contenuto di una delle fideiussioni;

in secondo luogo, la doglianza contrasta la “interpretazione del giudice di seconde cure” (come si legge in rubrica) riguardo alla questione della natura novativa o meno della fideiussione, ma è dedotta senza alcun riferimento ai criteri ermeneutici previsti dagli artt. 1362 c.c. e s. e ciò ne determina la inammissibilità atteso che:

– l’interpretazione delle clausole contrattuali rientra tra i compiti esclusivi del giudice di merito ed è insindacabile in cassazione se rispettosa dei canoni legali di ermeneutica ed assistita da congrua motivazione, potendo il sindacato di legittimità avere ad oggetto non già la ricostruzione della volontà delle parti, bensì:

– solo l’individuazione dei criteri ermeneutici del processo logico del quale il giudice di merito si sia avvalso per assolvere la funzione a lui riservata, al fine di verificare se sia incorso in vizi del ragionamento o in errore di diritto (tra le molte, v. Cass. 31/03/2006, n. 7597; Cass. 01/04/2011, n. 7557; Cass. 14/02/2012, n. 2109; Cass. 29/07/2016, n. 15763);

pertanto, al fine di far valere una violazione sotto i due richiamati profili, il ricorrente per cassazione deve non solo fare esplicito riferimento alle regole legali di interpretazione mediante specifica indicazione delle norme asseritamente violate ed ai principi in esse contenuti, ma è tenuto, altresì, a precisare in quale modo e con quali considerazioni il giudice del merito si sia discostato dai canoni legali assunti come violati o se lo stesso li abbia applicati sulla base di argomentazioni illogiche od insufficienti, non essendo consentito il riesame del merito in sede di legittimità (Cass. 09/10/2012, n. 17168; Cass. 11/03/2014, n. 5595; Cass. 27/02/2015, n. 3980; Cass. 19/07/2016, n. 14715);

– di conseguenza, per sottrarsi al sindacato di legittimità, non è necessario che quella data dal giudice sia l’unica interpretazione possibile, o la migliore in astratto, sicché, quando di una clausola siano possibili due o più interpretazioni, non è consentito alla parte, che aveva proposto l’interpretazione disattesa dal giudice, dolersi in sede di legittimità del fatto che ne sia stata privilegiata un’altra (Cass. 22/02/2007, n. 4178; Cass. 03/09/2010, n. 19044);

nel caso di specie, i riferimenti ai due minimi passi documentali sono di tenore talmente poco significativo, da nemmeno costituire, in thesi, una prospettazione della dedotta novatività, rimasta, peraltro, a livello puramente assertivo;

con il quarto motivo si lamenta, senza art. 360 c.p.c., n. 3 l’erronea interpretazione, da parte del giudice di appello, dell’illegittimo comportamento della banca che, oltre ad avere agito in sede monitoria nei confronti dei garanti, avrebbe formulato istanza di ammissione al passivo del fallimento della debitrice principale;

il motivo è inammissibile, sia perché non individua le norme di diritto che sarebbero state violate e nemmeno esse sono desumibili per implicito dalla lettura dell’illustrazione, sia – comunque – perché non è strutturato in termini di specifica censura alle argomentazioni della Corte territoriale, ma quale mera reiterazione del corrispondente motivo di appello, senza confrontarsi effettivamente con la decisione impugnata. In sostanza, i ricorrenti sì limitano a non condividere il principio secondo cui il creditore avrebbe diritto di tutelare i propri interessi nei confronti di tutti i soggetti tenuti a rispondere in solido del debito, in ragione dell’autonoma obbligazione di garanzia, attraverso un’azione di accertamento del credito e di condanna. In sede esecutiva il creditore potrà agire nei limiti della parte residua del credito;

peraltro, la stessa logica della solidarietà fideiussoria è tale che le iniziative del creditore a tutela della sua posizione sono fisiologicamente possibili, salvo il rispetto delle previsioni degli artt. 1944 c.c. e ss.;

con il quinto e sesto motivo si deduce, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 3, la violazione dell’art. 91 c.p.c. e del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13. La condanna alle spese sarebbe in contrasto con le conseguenze negative già subite dagli appellanti a causa del fallimento del debitore principale, con evidente pregiudizio patrimoniale. Analoghe considerazioni riguarderebbero la condanna al pagamento del contributo unificato;

il quinto motivo è un non-motivo, dato che i ricorrenti non lamentano che non sia stata disposta una compensazione (e sotto tale profilo il motivo sarebbe stato inammissibile: Cass., Sez. Un., n. 14989 del 2005);

quanto al sesto motivo il capo relativo al contributo unificato e la conseguente declaratoria della sussistenza dei presupposti per il versamento di un ulteriore importo ex D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, in ragione dell’integrale rigetto, inammissibilità o improcedibilità dell’impugnazione, non può formare oggetto di impugnazione ed è inammissibile il motivo di ricorso inteso a censurare la statuizione di condanna al raddoppio del contributo (Cass. Sez L. n. 29424 del 13/11/2019 e Cass. Sez. 5, Ordinanza n. 27131 del 27/11/2020);

per il resto entrambi i motivi sono, altresì, manifestamente infondati perché la Corte d’Appello ha fatto corretta applicazione del principio della soccombenza e, con riferimento all’ulteriore importo dovuto a titolo di contributo unificato, del tenore letterale del citato art. 13 che non consente valutazioni discrezionali. Rispetto a tale assunto le argomentazioni dei ricorrenti sono assertive e solo apparentemente ancorate a una presunta violazione di norme di legge;

ne consegue che il ricorso deve essere dichiarato inammissibile; le spese del presente giudizio di cassazione – liquidate nella misura indicata in dispositivo seguono la soccombenza. Va dato atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, se dovuto, da parte del ricorrente, ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, nel testo introdotto dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato, in misura pari a quello dovuto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis (Cass., sez. un., 20/02/2020, n. 4315), evidenziandosi che il presupposto dell’insorgenza di tale obbligo non è collegato alla condanna alle spese, ma al fatto oggettivo del rigetto integrale o della definizione in rito, negativa per l’impugnante, del gravame (v. Cass. 13 maggio 2014, n. 10306).

PQM

dichiara inammissibile il ricorso e condanna i ricorrenti al pagamento delle spese in favore della controricorrente, liquidandole in Euro 10.000,00 per compensi, oltre alle spese forfettarie nella misura del 15 per cento, agli esborsi liquidati in Euro 200,00 ed agli accessori di legge.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte dei ricorrenti, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello previsto per il ricorso a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis se dovuto.

Così deciso in Roma, nella Camera di Consiglio della Sezione Terza della Corte Suprema di Cassazione, il 23 febbraio 2021.

Depositato in Cancelleria il 22 luglio 2021

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