Corte di Cassazione, sez. V Civile, Ordinanza n.21436 del 27/07/2021

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LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TRIBUTARIA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. CRUCITTI Roberta Maria Consolata – Presidente –

Dott. GUIDA Riccardo – Consigliere –

Dott. FEDERICI Francesco – rel. Consigliere –

Dott. D’ORAZIO Luigi – Consigliere –

Dott. D’AQUINO Filippo – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 18312-2015 proposto da:

C.F., elettivamente domiciliato in ROMA, VIA DELLA GIULIANA 32, presso lo studio dell’avvocato GIUSEPPE FISCHIONI, che lo rappresenta e difende unitamente all’avvocato LUIGI FERRAJOLI;

– ricorrente –

contro

AGENZIA DELLE ENTRATE, in persona del Direttore pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, VIA DEI PORTOGHESI 12, presso l’AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO, che la rappresenta e difende;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 114/2015 della COMM. TRIB. REG. PIEMONTE, depositata il 26/01/2015;

udita la relazione della causa svolta nella Camera di consiglio del 14/04/2021 dal Consigliere Dott. FRANCESCO FEDERICI.

RILEVATO

che:

C.F. ha proposto ricorso per la cassazione della sentenza n. 114/22/2015, depositata il 26.01.2015 dalla Commissione tributaria regionale del Piemonte, con la quale, a conferma della sentenza di primo grado, era stato rigettato il ricorso introduttivo del contribuente avverso gli avvisi di accertamento, con cui l’Agenzia delle entrate aveva rideterminato gli imponibili per gli anni dal 2003 al 2009, con conseguente richiesta di maggiori imposte ai fini Irpef, Iva e Irap.

Ha riferito che a seguito di verifica condotta nei suoi confronti, esercente impresa individuale edile, gli erano contestate operazioni oggettivamente inesistenti. L’Agenzia delle entrate, condividendo il processo verbale di constatazione, emise e notificò sette avvisi di accertamento, richiedendo il versamento della somma complessiva di Euro 4.465.938,34 per imposte, interessi e sanzioni. Seguì il contenzioso, esitato dinanzi alla Commissione tributaria provinciale di Novara con sentenza n. 52/06/2013, che rigettò il ricorso. La Commissione tributaria regionale, con la pronuncia ora impugnata, rigettò l’appello. Il giudice regionale ha ritenuto che non trovavano condivisione le doglianze del C. avverso gli atti impositivi relativi agli anni d’imposta 2003, 2004 e 2005, per i quali il contribuente aveva eccepito la decadenza dal potere accertativo della amministrazione finanziaria per inapplicabilità del raddoppio dei termini D.L. 4 luglio 2006, n. 223, ex art. 37, comma 24, convertito in L. 4 agosto 2006, n. 248. Nel merito ha ritenuto che il quadro probatorio deponesse per il fondamento dell’accertamento.

Il C. ha censurato la sentenza affidandosi a quattro motivi, cui ha resistito con controricorso l’Agenzia delle entrate.

Nell’adunanza camerale del 14 aprile 2021 la causa è stata trattata e decisa sulla base degli atti depositati dalle parti.

CONSIDERATO

che:

Con il primo motivo il ricorrente si duole della violazione e falsa applicazione del D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, art. 43, del D.P.R. 29 settembre 1973, n. 633, art. 57, del D.L. n. 223 del 2006, art. 37, commi 24 e 25, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, per aver erroneamente rigettato l’eccepita decadenza della Amministrazione finanziaria dalla potestà accertativa, non trovando applicazione il raddoppio dei termini previsti per le ipotesi di condotte illecite per le quali insorga l’obbligo della denuncia penale;

con il secondo ha lamentato la violazione del D.Lgs. 15 dicembre 1997, n. 447, art. 25, degli artt. 23 e 25 Cost., comma 2, del R.D. 16 marzo 1942, n. 262, art. 14, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, perché erroneamente aveva ritenuto applicabile la disciplina del raddoppio dei termini per l’accertamento anche in tema di Irap;

con il terzo si è doluto della violazione e falsa applicazione del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 39, comma 1, lett. d), degli artt. 2697, 2700,2727,2729 c.c., nonché degli artt. 115 e 116 c.p.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, per non aver fatto buongoverno delle norme relative alla ripartizione dell’onere probatorio e dei principi relativi alla valutazione delle prove;

con il quarto ha denunciato la violazione del D.Lgs. 22 dicembre 1992, n. 546, art. 36, comma 2, n. 4, dell’art. 132 c.p.c., dell’art. 118disp. att. c.p.c., dell’art. 111 Cost., comma 6, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4, per nullità della sentenza, viziata da motivazione apparente.

Con il primo motivo il ricorrente sostiene che il tenore della disciplina vieta una confusione dei concetti “raddoppio dei termini” e “riapertura di termini”, non essendo lecita l’applicazione del citato art. 37, anche quando il termine di decadenza del potere accertativo sia decorso anteriormente all’inoltro della denuncia penale. Peraltro, sostiene sempre la difesa del ricorrente, l’operatività del raddoppio dei termini deve essere “connessa all’accertamento dell’effettiva esistenza dei reati anteriormente al decorso dei termini ordinari di accertamento e non, semplicemente, alla mera denuncia di un’ipotesi di reato operata ai sensi dell’art. 331 c.p.c.”.

Questa Corte, con arresti anche recenti, ha rilevato che il D.L. n. 223 del 2006, art. 37, comma 24, integrando il D.P.R. n. 600 del 1973, art. 43, comma 3, ha previsto che, per le ipotesi in cui la violazione fiscale comporti obbligo di denuncia ai sensi dell’art. 331 c.p.p., per uno dei reati previsti dal D.Lgs. n. 74 del 2000, gli ordinari termini di decadenza per l’accertamento raddoppiano relativamente al periodo di imposta in cui è stata commessa la violazione. Il citato D.L. n. 223, art. 37, comma 25, ha introdotto analoga disposizione in materia di Iva, con modifica del D.P.R. n. 633 del 1972, art. 57.

Sono queste le disposizioni applicabili al caso di specie, benché relative a periodo di imposta antecedente l’entrata in vigore delle richiamate disposizioni in quanto, ex art. 37, comma 26, il raddoppio dei termini trovava applicazione dal periodo d’imposta per il quale, alla data di entrata in vigore del decreto legge, erano ancora pendenti i termini ordinari per l’accertamento. Nel caso di specie il primo atto impositivo si riferisce all’anno di imposta 2003. Deve invece escludersi l’applicabilità delle modifiche introdotte dal D.Lgs. 5 agosto 2015, n. 128, art. 2, commi 1 e 2, che ha circoscritto il raddoppio dei termini di accertamento per violazioni penali solo ai casi in cui la denuncia sia stata effettivamente presentata e trasmessa all’autorità giudiziaria entro il termine ordinario di decadenza dal potere di accertamento; nonché quelle introdotte dalla L. 28 dicembre 2015, n. 208, art. 1, commi 130, 131 e 132, che hanno infine eliminato la fattispecie del raddoppio dei termini ordinari.

Quanto alla prima modifica, in virtù dell’apposita norma di salvaguardia prevista dal citato D.Lgs. n. 128, art. 2, la stessa non si applica alle violazioni punibili constatate in processi verbali notificati prima del 2 settembre 2015 e seguite dalla notifica di atti impositivi entro il 31 dicembre 2015, così che esula dalle fattispecie per cui è causa. Quanto alla seconda, il regime transitorio previsto dalla citata L. n. 208, per i periodi d’imposta anteriori a quello in corso al 31 dicembre 2016 – secondo cui il raddoppio dei termini di accertamento, quali stabiliti dal comma 132, secondo periodo, opera, nel caso delle indicate violazioni penali, solo a condizione che la denuncia penale sia presentata o trasmessa dall’Amministrazione Finanziaria entro il termine stabilito nel primo periodo del medesimo comma 132 – riguarda solo le fattispecie non regolate dal precedente regime transitorio, cioè i casi in cui non sia stato notificato un atto impositivo (o di irrogazione di sanzioni) entro il 2 settembre 2015, in quanto, ai sensi del D.Lgs. n. 128 del 2015, art. 3 comma 2, sono comunque fatti salvi gli effetti degli avvisi di accertamento, dei provvedimenti che irrogano sanzioni amministrative tributarie e degli altri atti impugnabili con i quali l’Agenzia delle entrate fa valere una pretesa impositiva o sanzionatoria, notificati alla data di entrata in vigore di tale decreto (cfr. Cass., 14/05/2018, n. 11620; 9/08/2016, n. 16728; 16/12/2016, n. 26037).

Individuata la disciplina applicabile al caso di specie, il raddoppio dei termini deriva dal mero riscontro di fatti comportanti l’obbligo di denuncia penale ai sensi dell’art. 331 c.p.p., indipendentemente dall’effettiva presentazione della denuncia, dall’inizio dell’azione penale e dall’accertamento penale del reato, restando irrilevante, in particolare, che l’azione penale non sia proseguita o sia intervenuta una decisione penale di proscioglimento, di assoluzione o di condanna (cfr. Cass., 13/09/2018, n. 22337; 30/05/2016, 11171).

Il principio trova riscontro nella sentenza n. 247/2011 della Corte Costituzionale, secondo cui l’unica condizione per il raddoppio dei termini è costituita dalla sussistenza dell’obbligo di denuncia penale, indipendentemente dal momento in cui tale obbligo sorga ed indipendentemente dal suo adempimento, sicché “il giudice tributario dovrà controllare, se richiesto con i motivi di impugnazione, la sussistenza dei presupposti dell’obbligo di denuncia, compiendo, al riguardo, una valutazione ora per allora (cosiddetta “prognosi postuma”) circa la loro ricorrenza ed accertando, quindi, se l’amministrazione finanziaria abbia agito con imparzialità od abbia, invece, fatto uso pretestuoso e strumentale delle disposizioni denunciate al fine di fruire ingiustificatamente di un più ampio termine di accertamento” (cfr. anche Cass., 30/10/2018, n. 27629).

Il raddoppio infatti attiene solo alla commisurazione del termine di accertamento ed i termini raddoppiati sono anch’essi fissati direttamente dalla legge, come tali operanti automaticamente in presenza di una speciale condizione obiettiva, senza che all’Ufficio sia riservato alcun margine di discrezionalità per la loro applicazione. Non vi è obbligo pertanto neppure di esternare le ragioni in base alle quali l’Agenzia ritenga operante il raddoppio del termine, esulando l’applicazione da scelte discrezionali. Di conseguenza l’atto impositivo non deve contenere una specifica motivazione sul punto, in quanto l’onere motivazionale previsto dalla L. n. 212 del 2000, art. 7, afferisce all’an ed al quantum della pretesa tributaria e a delimitare l’ambito delle ragioni adducibili dall’Ufficio nell’eventuale successiva fase contenziosa (cfr. Cass. 7 maggio 2014, n. 9810; Cass. 10 giugno 2009, n. 13335).

Il giudice d’appello ha applicato i principi ora esposti, escludendo la decadenza dal potere d’accertamento non avveratasi. Nel caso di specie risulta infatti evidente che il raddoppio dei termini era dovuto alla esistenza di una speciale condizione obiettiva, quale l’entità della somma evasa, cui è automaticamente riconducibile l’obbligo di denuncia penale, a prescindere dalla sua materiale presentazione.

Il motivo va dunque rigettato.

Con il secondo motivo il contribuente sostiene che comunque la predetta disciplina non può essere applicata in tema di Irap, non assumendo alcuna rilevanza penale la violazione della relativa disciplina. Nel riconoscere l’applicazione del raddoppio dei termini il giudice avrebbe fatto ricorso ad una inammissibile interpretazione analogica.

La censura è fondata. La giurisprudenza di legittimità ha chiarito che ai fini della determinazione del termini di decadenza dal potere di accertamento, il cd. “raddoppio dei termini”, previsto dal D.P.R. n. 600 del 1973, art. 43, non può trovare applicazione anche per l’IRAP, poiché le violazioni delle relative disposizioni non sono presidiate da sanzioni penali (Cass., 3/05/2018, n. 10483; 24/02/2020, n. 4742). Il motivo va dunque accolto e in tali limiti la sentenza va cassata.

Con il terzo motivo il contribuente si duole del malgoverno delle regole di riparto dell’onere della prova e dei principi che presidiano la valutazione delle prove.

Con riferimento alla prima critica il motivo non coglie nel segno. La decisione impugnata ha esaminato e valorizzato le prove allegate dall’Amministrazione finanziaria. A tal fine sono stati riportati, con specifica elencazione (a pag. 4), tutti i riscontri raccolti dall’Agenzia delle entrate a dimostrazione della inesistenza oggettiva delle operazioni contestate. Appare dunque evidente che la decisione, al contrario di quanto lamenta il ricorrente, è fondata sulle prove allegate dall’Ufficio.

Quanto poi alla denunciata violazione dei principi regolatori delle modalità di valutazione delle prove, premesso che lo stesso giudice regionale ha avvertito come la controversia si fonda su prove presuntive, applicabili pur in presenza di documentazione formalmente corretta, sul governo delle prove presuntive questa Corte ha chiarito che in ordine al corretto governo delle regole sulla prova presuntiva deve ribadirsi che compete alla Corte di cassazione, nell’esercizio della funzione nomofilattica, il controllo della corretta applicazione dei principi contenuti nell’art. 2729 c.c., alla fattispecie concreta, poiché se è devoluta al giudice di merito la valutazione della ricorrenza dei requisiti enucleabili dagli artt. 2727 e 2729 c.c., per valorizzare gli elementi di fatto quale fonte di presunzione, tale giudizio è soggetto al controllo di legittimità quando risulti che, nel violare i criteri giuridici in tema di formazione della prova critica, il giudice non abbia fatto buon uso del materiale indiziario disponibile, negando o attribuendo valore a singoli elementi, senza una valutazione di sintesi (cfr. Cass., 5/05/2017, n. 10973/2017; 26/01/2007, n. 1715).

Peraltro, ai fini dell’utilizzo degli indizi, mentre la gravità, precisione e concordanza degli stessi permette di acquisire una prova presuntiva, che, qualora anche unica, può ritenersi sufficiente nel processo tributario a sostenere i fatti fiscalmente rilevanti, accertati dalla Amministrazione (Cass., 24/01/2007, n. 1575), quando manca tale convergenza qualificante è necessario disporre di ulteriori elementi per la costituzione della prova.

La giurisprudenza di legittimità ha tracciato il corretto procedimento logico del giudice di merito nella valutazione degli indizi, in particolare affermando che la gravità, precisione e concordanza richiesti dalla legge vanno ricavati dal loro complessivo esame, in un giudizio globale e non atomistico di essi (ciascuno dei quali può essere insufficiente), ancorché preceduto dalla considerazione di ognuno per individuare quelli significativi, perché è necessaria la loro collocazione in un contesto articolato, nel quale un indizio rafforza e ad un tempo trae vigore dall’altro in vicendevole completamento (cfr. Cass., 2/03/2017, n. 5374; 16/05/2017, n. 12002; 12/04/2018, n. 9059; 25/10/2019, n. 27410). Ciò che rileva, in base a deduzioni logiche di ragionevole probabilità, non necessariamente certe, è che dalla valutazione complessiva emerga la sufficienza degli indizi a supportare la presunzione semplice di fondatezza della pretesa, salvo l’ampio diritto del contribuente a fornire la prova contraria. Quanto alla ipotesi dell’unico indizio, si è affermato che in tema di accertamento induttivo del reddito di impresa, ai sensi del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 39, comma 1, lett. d), il convincimento del giudice in ordine alla sussistenza di maggiori ricavi non dichiarati da un’impresa commerciale può fondarsi anche su una sola presunzione semplice, purché grave e precisa (Cass., 22/12/2017, n. 30803; 12/02/2018, n. 3276).

Ebbene, nel caso di specie il ragionamento seguito dal giudice d’appello non evidenzia illogicità argomentative oppure fallaci o contraddittorie valutazioni. Nella motivazione della decisione ha elencato gli elementi su cui l’Amministrazione finanziaria ha fondato l’accertamento, dettagliando anche le ragioni per le quali il contribuente ha contestato le determinazioni dell’accertamento. Con ciò ha fatto mostra di conoscere e tener conto delle contrapposte difese. Ha affermato che la controversia si basava sulla raccolta di prove indiziarie; ha ritenuto, facendo richiamo anche agli esiti e dunque al giudizio del giudice di primo grado, che le difese del contribuente non erano idonee a confutare il quadro indiziario prospettato dall’Ufficio. Ha valorizzato, non come prova ma ad ulteriore conferma del proprio convincimento sull’illecita condotta fiscale del C., la sentenza penale di condanna del contribuente, che pur sulle testimonianze rese in quel processo ha preteso di fondare le proprie difese nella controversia fiscale. La motivazione in conclusione ha mostrato una corretta ponderazione degli elementi allegati al processo. Se poi con il motivo la difesa del ricorrente ha inteso sollecitare una rivalutazione degli elementi probatori del processo, cioè un nuovo giudizio sul merito della vicenda, ciò è inammissibile perché inibito in sede di legittimità. Le censure del ricorrente si rivelano pertanto infondate.

Il quarto motivo infine, con cui ci si duole della apparenza della motivazione, è infondato per quanto spiegato in riferimento al terzo motivo.

La sentenza dunque va cassata, nei soli limiti dell’accoglimento del secondo motivo, e il processo va rinviato alla Commissione tributaria regionale del Piemonte, cui va demandato, in diversa composizione, la valutazione in ordine alla decadenza del potere accertativo dell’Agenzia delle entrate, ai soli fini Irap, per le annualità in cui risulti inapplicabile il raddoppio dei termini, nonché, in caso di esito favorevole per il contribuente, la rideterminazione delle maggiori imposte ai fini Irap, oltre che la liquidazione delle spese del giudizio di legittimità.

P.Q.M.

La Corte accoglie il secondo motivo di ricorso, rigetta gli altri. Cassa la sentenza nei limiti del motivo accolto e rinvia alla Commissione tributaria regionale del Piemonte, cui demanda, in diversa composizione, anche la liquidazione delle spese del giudizio di legittimità.

Così deciso in Roma, il 14 aprile 2021.

Depositato in Cancelleria il 27 luglio 2021

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