LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE PRIMA CIVILE
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. GENOVESE Francesco A. – Presidente –
Dott. VALITUTTI Antonio – Consigliere –
Dott. PARISE Clotilde – Consigliere –
Dott. MERCOLINO Guido – rel. Consigliere –
Dott. LAMORGESE Antonio – Consigliere –
ha pronunciato la seguente:
SENTENZA
sui ricorsi riuniti iscritti ai nn. 14901 e 21019/2020 R.G. proposti da:
PROCURATORE GENERALE DELLA REPUBBLICA PRESSO LA CORTE D’APPELLO DI ROMA;
– ricorrente –
e MINISTERO DELL’INTERNO, in persona del Ministro p.t., rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, con domicilio legale in Roma, via dei Portoghesi, n. 12;
– ricorrente –
contro
M.D., e G.R., in proprio e nella qualità di genitore investito della responsabilità sulla minore G.C., rappresentate e difese dall’Avv. Federica Tempori, con domicilio eletto in Roma, via Gregoriana, n. 54, presso lo studio dell’Avv. Vincenzo Miri;
– controricorrenti –
e COMUNE DI ROMA e PROCURATORE DELLA REPUBBLICA PRESSO IL TRIBUNALE DI ROMA;
– intimati –
avverso il decreto della Corte d’appello di Roma depositato il 27 aprile 2020;
Udita la relazione svolta nella pubblica udienza del 16 giugno 2021 dal Consigliere Dott. Guido Mercolino;
uditi il Sostituto Procuratore generale della Repubblica presso la Corte d’appello di Roma Dott. Polella Roberto, e l’Avv. Federica Tempori;
udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore generale Dott. CARDINO Alberto, che ha concluso chiedendo la dichiarazione d’inammissibilità del ricorso proposto dal Procuratore generale presso la Corte d’appello di Roma e l’accoglimento del secondo, del terzo, del quarto e del quinto motivo del ricorso proposto dal Ministero dell’interno.
FATTI DI CAUSA
1. G.R., in proprio e nella qualità di genitore esercente la responsabilità nei confronti della minore G.C., e M.D., convivente con la G., proposero ricorso al Tribunale di Roma, ai sensi del D.P.R. n. 3 novembre 2000, n. 396, art. 95 per sentir dichiarare illegittimo il rifiuto opposto dall’ufficiale di stato civile del Comune di Roma all’annotazione del riconoscimento della minore quale figlia della M., effettuato da quest’ultima successivamente al riconoscimento da parte dell’altra ricorrente.
Premesso che la minore, nata a ***** e partorita dalla G., era stata dalla stessa concepita mediante il ricorso alla procreazione medicalmente assistita di tipo eterologo, effettuata all’estero senza alcun apporto biologico da parte della M., la quale aveva tuttavia prestato il proprio consenso all’intervento, chiesero disporsi la rettificazione dello atto di nascita, con l’annotazione del riconoscimento a margine dello stesso e con la modificazione del cognome della minore in ” G. M.”.
Si costituì il Ministero dell’interno, chiedendo il rigetto della domanda.
1.1. Con decreto del 2 luglio 2019, il Tribunale di Roma rigettò la domanda.
2. Il reclamo proposto dalla G. e dalla M. è stato accolto dalla Corte d’appello di Roma con decreto del 27 aprile 2010.
A fondamento della decisione, la Corte ha innanzitutto escluso il difetto di legittimazione del Comune, rilevando che lo stesso, che aveva partecipato al giudizio di primo grado, aveva ricevuto la notificazione del reclamo, sia pure a titolo di denuntiatio litis, in quanto portatore di un interesse tale da giustificarne la partecipazione al procedimento, in termini equiparabili a quelli dell’intervento adesivo.
Premesso inoltre che il procedimento previsto dal D.P.R. n. 396 del 2000, art. 95 è volto ad eliminare una difformità tra la situazione di fatto e quella risultante dall’atto di stato civile, per un vizio comunque originato nel procedimento di formazione dell’atto stesso, ha precisato che la materia del contendere consisteva nell’accertare se il riconoscimento successivo della figlia da parte della M., priva di legame biologico con la minore, fosse o meno conforme all’ordine pubblico, e se per effetto del rifiuto opposto dall’ufficiale di stato civile i registri rispecchiassero fedelmente la situazione di fatto quale sarebbe dovuta essere in base alla legge.
Ciò posto, la Corte ha dichiarato di non condividere la risposta negativa fornita dalla giurisprudenza di legittimità in un caso analogo, ritenendo che dal divieto di accesso delle coppie omosessuali alla procreazione medicalmente assistita, previsto dalla L. 19 febbraio 2004, n. 40, art. 5 non possa desumersi che, nel caso in cui si sia fatto comunque ricorso a tali pratiche, possa essere riconosciuta come genitore soltanto colei che ha dato la luce al bambino. In proposito, ha richiamato un precedente di legittimità, relativo al caso di un minore nato a seguito di fecondazione omologa post mortem praticata all’estero, secondo cui la circostanza che si sia fatto ricorso all’estero alla procreazione medicalmente assistita, in casi non previsti o non ammessi dal nostro ordinamento, non esclude, ma anzi impone, nel preminente interesse del nato, l’applicazione di tutte le disposizioni che riguardano lo stato del figlio venuto al mondo all’esito di tale percorso. Ha richiamato inoltre i principi enunciati dalla Corte EDU e dalla Corte costituzionale, che distinguono la disciplina dell’accesso alla procreazione medicalmente assistita dalla preminente tutela del nato, affermando che le conseguenze della violazione delle prescrizioni e dei divieti posti dalla L. n. 40 del 2004 da parte degli adulti che hanno fatto ricorso ad una pratica fecondativa illegale in Italia non possono ricadere su chi è nato. Premesso che nella struttura della L. n. 40 cit. le norme che prevedono i requisiti soggettivi ed oggettivi per l’accesso alla procreazione medicalmente assistita sono collocate in un capo diverso da quelle che disciplinano la tutela del nascituro, ha affermato che il legislatore ha tenuto ben presente l’eventualità che l’accesso alle predette pratiche possa avvenire al di fuori dei casi consentiti, non solo non prevedendo sanzioni a carico dei soggetti che vi hanno fatto ricorso, ma disponendo che il nato a seguito di fecondazione eterologa acquista lo status di figlio dei membri della coppia sulla sola base del consenso prestato alla pratica, con il divieto del disconoscimento di paternità e dell’anonimato della madre. Rilevato quindi che la L. n. 40, pur prevedendo una sanzione pecuniaria per la violazione dei divieti da essa posti, non ne rimuove gli effetti, ma garantisce la più ampia tutela a colui che sia nato sia pure da pratiche vietate, attribuendo la prevalenza all’interesse del minore alla conservazione dello status filiationis, in conformità ai principi stabiliti dalle convenzioni internazionali in materia di protezione dei diritti dell’infanzia, ha ritenuto che nella specie, ai fini dell’individuazione del trattamento giuridico riservato alla minore, dovesse aversi riguardo non già alla condotta tenuta dalle ricorrenti, ma all’interesse superiore di C., nata a seguito di una pratica di procreazione medicalmente assistita vietata in Italia ma del tutto lecita nel Paese in cui era stata effettuata. Ribadito in proposito che la L. n. 40 del 2004, art. 8 attribuisce un ruolo centrale al consenso, quale fattore determinante la genitorialità, indipendentemente dalle norme che prevedono i confini soggettivi dell’accesso alle pratiche di procreazione medicalmente assistita, ed anche nel caso in cui sia espresso in forme diverse da quelle previste dall’art. 6, ha richiamato l’orientamento della giurisprudenza di legittimità secondo cui l’orientamento sessuale non incide sull’idoneità dell’individuo ad assumere la responsabilità genitoriale, ammettendo che la possibilità di riconoscere l’efficacia di atti stranieri dichiarativi del rapporto di filiazione da due donne discende dall’applicazione delle norme di diritto internazionale privato e dalla esigenza di tutelare il diritto alla continuità ed alla conservazione dello status filiationis acquisito all’estero, ma precisando che l’impossibilità di dare riconoscimento alla genitorialità intenzionale solo quando il minore sia nato in Italia contrasta con i principi di uguaglianza e di tutela preminente dell’interesse superiore del minore, conducendo a disparità di trattamento che potrebbero trarre origine solo da discriminazioni di tipo economico e sociale. Ha escluso che l’interesse del minore al riconoscimento della maternità intenzionale possa trovare una tutela equivalente nell’adozione in casi particolari, rilevando che quest’ultima salvaguarda il diritto alla vita familiare, ma non quello all’identità personale, e non instaura alcun rapporto con la famiglia dell’adottante, mentre il minore ha diritto a conoscere la sua provenienza e ad essere riconosciuto figlio di coloro che hanno contribuito alla sua nascita, nonché all’esercizio della responsabilità genitoriale ed all’adempimento dei relativi doveri da parte di entrambi i genitori, anche nel caso in cui il genitore intenzionale non intenda intraprendere iniziative giudiziarie in tal senso. Ha aggiunto che l’annotazione del riconoscimento nei registri dello stato civile non trova ostacolo né nel D.P.R. n. 396 del 2000, art. 29 il quale fa genericamente riferimento ai “genitori”, senza richiedere necessariamente un padre e una madre, né nell’indisponibilità dello status filiationis, essendo rimesso alla volontà delle parti soltanto l’atto procreativo, al pari di quanto accade in caso di procreazione naturale, né nella L. 20 maggio 2016, n. 76, la quale, pur non prevedendo che la coppia omosessuale possa adottare o accedere alla procreazione medicalmente assistita, non impedisce di distinguere tra le condizioni di accesso alla stessa e la disciplina dello status filiationis. Ha escluso che il riconoscimento si ponga in contrasto con l’ordine pubblico interno, ritenendo operanti le medesime valutazioni riguardanti la contrarietà all’ordine pubblico internazionale, negando l’esistenza, a livello costituzionale, di un divieto per le coppie omosessuali di accogliere e di generare figli, aggiungendo che l’identità di sesso dei genitori non può giustificare un trattamento deteriore dei figli, e precisando infine che l’art. 269 c.c., comma 3, non introduce un principio di ordine pubblico, ma attiene alla prova della filiazione.
La Corte ha infine accolto la domanda di attribuzione alla minore del cognome di entrambi i genitori, osservando che la stessa garantisce la piena ed effettiva realizzazione del diritto all’identità personale, che nel nome trova il primo ed immediato riscontro, unitamente al riconoscimento del paritario rilievo di entrambe le figure genitoriali nel processo di costruzione dell’identità personale. Premesso che nella specie non era possibile procedere all’ascolto della minore, in considerazione della sua età, ha ritenuto che, avuto riguardo al non ancora avvenuto inserimento nel circuito scolastico ed alla concorde richiesta dei genitori, l’attribuzione di entrambi i cognomi consentisse di dare integrale realizzazione al suo diritto all’identità personale.
3. Avverso il predetto decreto hanno ha proposto distinti ricorsi per cassazione il Procuratore generale della Repubblica presso la Corte d’appello di Roma, per un solo motivo, ed il Ministero, per cinque motivi. La G. e la M. hanno resistito con controricorsi, illustrati anche con memoria. Gli altri intimati non hanno svolto attività difensiva.
RAGIONI DELLA DECISIONE
1. Preliminarmente, va disposta, ai sensi dell’art. 335 c.p.c., la riunione dei ricorsi, proposti separatamente ma aventi ad oggetto l’impugnazione medesimo decreto.
2. Con l’unico motivo del proprio ricorso, il Pubblico Ministero osserva che il decreto impugnato ha fornito una lettura parcellizzata della L. n. 40 del 2004, non avendo tenuto conto della ratio degli artt. 8 e 9, i quali, nell’imporre all’uomo che abbia prestato il proprio consenso alla procreazione medicalmente assistita il divieto di agire per il disconoscimento della paternità ed alla donna che si sia sottoposta alla predetta pratica il divieto dell’anonimato, mirano inequivocabilmente a proteggere il prodotto del concepimento, una volta nato, da possibili ripensamenti di uno dei componenti della coppia. Sostiene che nella procreazione medicalmente assistita l’atto del concepimento non coincide con la prestazione del consenso, che costituisce la condizione per il legittimo accesso della coppia eterosessuale alla fecondazione omologa, ma con la fecondazione in vitro e il successivo impianto dell’ovulo nell’utero della donna. Contesta la pertinenza del richiamo al diritto alla bigenitorialità ed allo interesse superiore del minore, affermando che il primo assume rilevanza giuridica soltanto con riguardo al mantenimento di rapporti significativi con entrambi i genitori, intesi in senso biologico, mentre il secondo risulta adeguatamente tutelato attraverso l’istituto dell’adozione in casi particolari.
2.1. Il ricorso è inammissibile.
Le censure proposte dal ricorrente, pur riflettendo il vizio di violazione di legge, la cui denuncia risulta chiaramente desumibile dal richiamo della rubrica all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, non sono infatti accompagnate dalla specifica indicazione delle norme giuridiche violate e delle argomentazioni attraverso le quali la Corte territoriale se ne sarebbe discostata, risolvendosi in generiche considerazioni riguardanti l’impostazione generale della L. n. 40 del 2004, prive di puntuali riferimenti all’articolata motivazione del decreto impugnato, e quindi inidonee a confutare il percorso logico-giuridico seguito per giungere alla decisione. Tali modalità d’illustrazione del motivo non soddisfano i requisiti di contenuto-forma prescritti dall’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 4, la cui osservanza postula non solo l’indicazione delle norme che si assumono violate, ma anche e soprattutto lo svolgimento di argomentazioni intellegibili ed esaurienti, intese a spiegare le ragioni per cui determinate affermazioni in diritto contenute nella sentenza impugnata devono considerarsi in contrasto con le indicate norme regolatrici della fattispecie o con l’interpretazione delle stesse fornite dalla giurisprudenza di legittimità, risultando altrimenti impedito a questa Corte di adempiere al suo compito istituzionale di verificare il fondamento della lamentata violazione (cfr. ex plurimis, Cass., Sez. I, 5/08/2020, n. 16700; 29/11/2016, n. 24298; 8/03/2007, n. 5353).
3. Con il primo motivo del proprio ricorso, il Ministero denuncia l’eccesso di potere giurisdizionale, sostenendo che, nel ritenere legittimo il riconoscimento effettuato dalla madre intenzionale, nonostante la mancanza di un legame biologico tra la stessa ed il minore, il decreto impugnato ha disposto la formazione di un atto dello stato civile atipico, in assenza di una norma di legge che lo preveda, in tal modo invadendo la sfera di discrezionalità politica spettante al legislatore. Premesso infatti che il nostro ordinamento, pur avendo riconosciuto alle coppie omosessuali una serie di diritti in prospettiva antidiscriminatoria, anche in materia di genitorialità, ha consentito alle stesse di ottenere l’adozione non legittimante, senza però equipararle pienamente alle coppie eterosessuali, osserva che l’eventuale contrarietà alla Costituzione delle norme delle L. n. 40 del 2004 e L. n. 76 del 2016 che vietano il ricorso alla maternità surrogata o alla procreazione medicalmente assistita da parte delle coppie omosessuali o l’adozione da parte di persone dello stesso sesso legate da unioni civili avrebbe dovuto essere fatta valere attraverso la proposizione della questione di legittimità costituzionale.
3.1. Il motivo è infondato.
La Corte d’appello ha infatti giustificato la propria decisione attraverso il richiamo a una pluralità di disposizioni, interpretate alla luce dei principi enunciati dalla giurisprudenza di legittimità, da quella costituzionale e dalla Corte EDU, sulla base delle quali ha concluso che il divieto di accesso alla procreazione medicalmente assistita da parte delle coppie omosessuali, previsto dalla L. n. 40 del 2004, art. 5 non impedisce, in caso di nascita di un figlio mediante il ricorso alle predette tecniche, il riconoscimento dello status di genitore anche in favore di colui che non abbia alcun legame biologico con il minore, ma abbia prestato il proprio consenso alla procreazione, nel quadro di un progetto di vita della coppia costituita con il genitore biologico. In quanto ancorato alla disciplina vigente, sia pure interpretata secondo criteri evolutivi, tale ragionamento consente di escludere la sussistenza del vizio lamentato, configurabile soltanto nel caso in cui il giudice non si sia limitato ad applicare una norma giuridica esistente, ma ne abbia creata una nuova, in tal modo esercitando un’attività di produzione normativa estranea alla sua competenza. E’ noto d’altronde che alla figura dell’eccesso di potere giurisdizionale per invasione della sfera di discrezionalità riservata al legislatore viene riconosciuta una rilevanza eminentemente teorica, trattandosi di un vizio ipotizzabile soltanto a condizione di poter distinguere l’attività di produzione normativa indebitamente esercitata dal giudice dall’attività interpretativa, la quale in realtà non ha una funzione meramente euristica, ma si sostanzia in un’opera creativa della volontà della legge nel caso concreto (cfr. Cass., Sez. Un., 27/06/2018, n. 16974; 12/12/2012, n. 22784; 28/01/2011, n. 2068).
L’eccesso di potere giurisdizionale non è configurabile neppure in relazione alla mancata proposizione della questione di legittimità costituzionale, non essendo il giudice tenuto senz’altro a promuoverla nel caso in cui ritenga che l’interpretazione corrente delle norme di legge applicabili alla fattispecie sottoposta al suo esame sia contraria alla Costituzione, ma dovendo, prima di rimettere gli atti alla Corte costituzionale, sperimentare la possibilità di una interpretazione costituzionalmente orientata, la cui mancata ricerca, a fronte di una pluralità di plausibili interpretazioni ed in assenza di un indirizzo interpretativo qualificabile come diritto vivente, può anzi costituire causa d’inammissibilità della questione.
4. Con il secondo motivo, il ricorrente deduce la violazione e/o la falsa applicazione dell’art. 449 c.c. e del D.P.R. n. 396 del 2000, art. 1, art. 11, comma 3, art. 12, comma 1, artt. 29, 30, 42, 44 e 95 censurando il decreto impugnato nella parte in cui ha ritenuto ammissibile il ricorso al procedimento di rettificazione degli atti dello stato civile. Premesso infatti che l’art. 449 c.c. vincola l’Amministrazione a conformarsi, nella tenuta dei registri dello stato civile, al relativo ordinamento, e quindi alla legge italiana, la quale non consente la formazione di un atto di nascita recante l’indicazione di due genitori dello stesso sesso, osserva che il giudizio non riguardava la legittimità del rifiuto opposto dall’ufficiale di stato civile all’annotazione del riconoscimento, ma lo status del minore, che avrebbe dovuto costituire oggetto di accertamento nelle forme del rito ordinario di cognizione. Precisato inoltre che la legittimità del predetto rifiuto doveva essere valutata alla stregua dell’ordinamento interno, sostiene che i requisiti soggettivi prescritti dalla L. n. 40 del 2004 ai fini del ricorso alla procreazione medicalmente assistita mirano a garantire che il nucleo familiare scaturente dalle relative pratiche riproduca il modello della famiglia caratterizzata dalla presenza di un padre ed una madre. Afferma che l’annotazione del riconoscimento effettuato dalla madre intenzionale si pone in contrasto con i principi di ordine pubblico in materia di filiazione, tra i quali assume una portata fondamentale quello che identifica tale nozione con la discendenza da persone di sesso diverso. Rilevato inoltre che il nostro ordinamento prevede, oltre alla filiazione biologica, matrimoniale o naturale, tra persone di sesso diverso, quella adottiva, caratterizzata dall’assenza di un legame biologico, e quella derivante da procreazione medicalmente assistita, con o senza legame biologico, ma sempre tra persone di sesso diverso, evidenzia che la possibilità di accedere alla filiazione adottiva o alla procreazione medicalmente assistita tra persone dello stesso sesso senza legame biologico è espressamente esclusa dalla legge; afferma che tale divieto non contrasta con i principi sanciti dalla CEDU, i quali non escludono la legittimità di norme interne che attribuiscano alla procreazione medicalmente assistita una finalità esclusivamente terapeutica, non garantendo né il diritto di fondare una famiglia né quello di adottare, ed identificando nel legame genetico o biologico con il minore il limite oltre il quale è rimessa alla discrezionalità del legislatore nazionale l’individuazione degli strumenti più adeguati per conferire rilievo al rapporto genitoriale. Contesta la pertinenza del richiamo ai principi enunciati dalla giurisprudenza di legittimità in tema di fecondazione omologa post mortem e di maternità surrogata, osservando che la prima non è prevista dall’ordinamento, laddove il ricorso alla fecondazione eterologa da parte di coppie omosessuali è espressamente vietato, mentre in riferimento alla seconda è stato precisato che, al di fuori di casi eccezionali previsti dalla legge, l’interesse del minore al riconoscimento dello status filiationis non può prevalere sulla verità biologica. Aggiunge comunque che la più recente giurisprudenza di legittimità e quella costituzionale hanno ribadito la legittimità del divieto di accesso alla procreazione medicalmente assistita per le coppie omosessuali, precisando che, nonostante l’introduzione di altre forme di procreazione, rese possibili dallo sviluppo scientifico e tecnologico, la disciplina del rapporto di filiazione rimane saldamente ancorata alla necessità di un rapporto biologico con il nato, nella specie non sussistente nei confronti di colei che ha effettuato il riconoscimento.
4.1. Il motivo è inammissibile.
E’ pur vero che il rifiuto dell’ufficiale di stato civile di procedere all’annotazione nei registri anagrafici della dichiarazione di riconoscimento fatta dalla genitrice c.d. d’intenzione non dà luogo ad una difformità tra la situazione di fatto, qual è o dovrebbe essere nella realtà secondo la previsione di legge, e quella risultante dai registri dello stato civile, a causa di un vizio comunque originatosi nel procedimento di formazione del relativo atto (cfr. Cass., Sez. I, 2/10/2009, n. 21094; 27/03/1996, n. 2776; 30/10/1990, n. 10519): tale rifiuto trova infatti giustificazione nella disciplina dettata dal codice civile, richiamata dal D.P.R. n. 396 cit., artt. 42 e ss. conformemente a quanto stabilito dall’art. 449 c.c., che all’art. 250 consente il riconoscimento del figlio nato fuori del matrimonio alla madre ed al padre, intendendo con il primo termine esclusivamente la donna che ha partorito il nato, come previsto dall’art. 269 c.c., comma 3; in contrario, non può invocarsi il disposto della L. n. 40 del 2004, art. 8 il quale, nel prevedere che il nato a seguito dell’applicazione di tecniche di procreazione medicalmente assistita ha lo stato di figlio della coppia che ha espresso la volontà di farvi ricorso, dà per scontato che si tratti di una coppia di sesso diverso, conformemente a quanto previsto dal precedente art. 5. L’impugnazione del predetto rifiuto, traducendosi nella richiesta di un accertamento costitutivo in ordine allo status di una persona, dà quindi luogo ad una controversia di stato, che non può essere risolta attraverso il procedimento di rettificazione previsto dal D.P.R. n. 396 del 2000, art. 95 dovendo il giudizio svolgersi nelle forme del rito ordinario di cognizione, con la partecipazione di tutti i soggetti interessati a contraddire alla domanda (cfr. Cass., Sez. I, 21/12/1998, n. 12746; 27/03/ 1996, n. 2776; 26/01/1993, n. 951). Nella specie, tuttavia, il procedimento, pur essendo stato trattato con il rito camerale prescritto dal D.P.R. n. 396 cit., art. 96, comma 3, è stato promosso nei confronti di tutti i soggetti legittimati, avendovi preso parte, oltre al Ministero dell’interno, in qualità di Amministrazione centrale cui è riconducibile l’attività dell’ufficiale di stato civile, non solo il minore ed il genitore biologico, ma anche il Pubblico Ministero, cui l’art. 70 c.p.c., comma 1, n. 3 riconosce la posizione di litisconsorte necessario nelle cause riguardanti lo stato delle persone. L’errata individuazione del rito applicabile non può ritenersi poi sufficiente a giustificare la cassazione del decreto impugnato, non essendo stato dedotto né dimostrato che l’adozione del rito camerale in luogo di quello ordinario abbia pregiudicato l’esercizio del diritto di difesa da parte del ricorrente, il quale non ha pertanto interesse a far valere il predetto vizio: l’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4, nel consentire la denuncia di vizi di attività del giudice che comportino la nullità della sentenza o del procedimento, non tutela infatti l’interesse all’astratta regolarità dell’attività giudiziaria, ma garantisce soltanto l’eliminazione del pregiudizio subito dal diritto di difesa della parte in dipendenza del denunciato error in procedendo (cfr. Cass., Sez. I, 21/02/ 2008, n. 4435; 22/07/2004, n. 13662; Cass., Sez. II, 22/01/2007, n. 1279).
5. Con il terzo motivo, il ricorrente lamenta la violazione e la falsa applicazione del D.P.R. n. 396 del 2000, art. 30 dell’art. 269 c.c. e della L. n. 40 del 2004, artt. 4, 5, 8, 9 e 12 negando la sussistenza di un interesse del minore che possa prevalere sulle norme fondamentali interne ed internazionali che definiscono il concetto di maternità, ed osservando comunque che nel caso in esame l’inefficacia del riconoscimento posto in essere dal genitore intenzionale non impedirebbe alla minore né di accedere al trattamento giuridico proprio dello status filiationis, ricollegabile al riconoscimento compiuto dalla madre biologica, né di mantenere le relazioni affettive instaurate nell’ambito del rapporto di convivenza. Insiste sulla differenza tra genitorialità biologica e genitorialità intenzionale, sottolineando che la trascrizione del riconoscimento compiuto all’estero dal genitore d’intenzione comporterebbe la regolarizzazione di una posizione che nel nostro ordinamento non risulta in alcun modo tutelata, in quanto espressamente vietata. Premesso che nel nostro ordinamento la posizione di madre si caratterizza per un fondamento non già volitivo-negoziale, ma oggettivo-genetico, per effetto del quale deve escludersi la possibilità dell’esistenza di due madri, osserva che la legislazione più recente, nel disciplinare l’accesso all’adozione ed alle tecniche di procreazione medicalmente assistita, stabilisce il limite invalicabile della diversità di sesso, sostenendo che detto limite non risulta superato per effetto delle pronunce d’incostituzionalità che hanno ampliato l’ambito applicativo della L. n. 40 del 2004, avendo queste ultime confermato l’ammissibilità del ricorso alle tecniche di procreazione medicalmente assistita soltanto in presenza di sterilità o infertilità patologica o di malattie genetiche trasmissibili, con la conseguente esclusione delle ipotesi in cui, come nelle coppie omosessuali, l’impossibilità di generare è dovuta ad un limite naturale.
6. Con il quarto motivo, il ricorrente denuncia la violazione e/o la falsa applicazione della L. 31 maggio 1995, n. 218, artt. 16 e 65 censurando il decreto impugnato nella parte in cui ha richiamato il limite dell’ordine pubblico, senza considerare che lo stesso non impedisce soltanto la trascrizione di atti formati all’estero nei registri dello stato civile italiani, ma anche la produzione degli effetti giuridici agli stessi collegati, a garanzia dei principi e dei valori fondamentali dell’ordinamento italiano. Sostiene che, nel ritenere operante il predetto limite con riferimento esclusivo al divieto di surrogazione di maternità, la giurisprudenza di legittimità ha affermato che la compatibilità con lo stesso dev’essere valutata alla stregua non solo dei principi fondamentali della Costituzione e di quelli consacrati nelle fonti internazionali e sovranazionali, ma anche del modo in cui gli stessi si sono incarnati nella disciplina ordinaria dei singoli istituti e dell’interpretazione fornitane dalla giurisprudenza costituzionale ed ordinaria. Aggiunge che la nozione di ordine pubblico rilevante nell’ordinamento interno è più ampia di quella di ordine pubblico internazionale, corrispondendo al complesso dei principi informatori dei singoli istituti, desumibili dalle norme imperative che li disciplinano.
7. Con il quinto motivo, il ricorrente deduce la violazione e/o la falsa applicazione della L. n. 76 del 2016, art. 1, comma 20, e della L. n. 184 del 1983, art. 44, comma 1, lett. g), osservando che, contrariamente a quanto sostenuto nel decreto impugnato, la prima disposizione esclude espressamente l’applicabilità alle coppie omosessuali delle norme in materia di filiazione ed adozione, e richiamando l’orientamento della giurisprudenza di legittimità, che proprio in ragione di tale esclusione, ritiene ammissibile l’adozione non legittimante del figlio del convivente dello stesso sesso. Afferma che il tema della filiazione non coincide per intero con quello della genitorialità, essendo previste forme giuridiche idonee a costituire un rapporto di responsabilità di tipo genitoriale che prescindono dalla discendenza biologica, e spettando esclusivamente al legislatore una politica di sostegno delle coppie omosessuali, non necessariamente volta all’eliminazione di qualsiasi disparità di trattamento. Rileva in proposito che la giurisprudenza costituzionale, pur avendo accordato rilevanza giuridica e tutela all’unione omosessuale, inquadrate nella nozione di formazione sociale di cui all’art. 2 Cost., ha ribadito come la Costituzione non ponga un modello di famiglia inscindibilmente collegato alla presenza di figli, con la conseguenza che il riconoscimento della libertà e volontarietà dell’atto di diventare genitori incontra i limiti necessari al bilanciamento di tale libertà con altri valori costituzionalmente protetti.
8. I predetti motivi, da esaminarsi congiuntamente, in quanto riflettenti profili diversi della medesima questione, sono fondati.
La questione in esame è stata già affrontata da questa Corte, e risolta mediante l’enunciazione del principio di diritto secondo cui il riconoscimento di un minore concepito mediante il ricorso a tecniche di procreazione medicalmente assistita di tipo eterologo da parte di una donna legata in unione civile con quella che lo ha partorito, ma non avente alcun legame biologico con il minore, si pone in contrasto con la L. n. 40 del 2004, art. 4, comma 3, e con l’esclusione del ricorso alle predette tecniche da parte delle coppie omosessuali, non essendo consentita, al di fuori dei casi previsti dalla legge, la realizzazione di forme di genitorialità svincolate da un rapporto biologico, con i medesimi strumenti giuridici previsti per il minore nato nel matrimonio o riconosciuto (cfr. Cass., Sez. I, 22/04/2020, n. 8029; 3/04/2020, n. 7668).
A fondamento di tali conclusioni, è stato osservato che a) nel caso in cui (come nella specie) il minore sia in possesso della cittadinanza italiana, in quanto, pur essendo stato concepito all’estero, sia nato in Italia da una cittadina italiana, la fattispecie è interamente regolata, ai sensi della L. 31 maggio 1995, n. 218, art. 33 dalla legge italiana, non presentando alcun elemento di estraneità all’ordinamento italiano, tale da giustificare il ricorso alla nozione di ordine pubblico internazionale, b) la L. n. 40 del 2004, artt. 4 e 5 i quali escludono il ricorso a tecniche di procreazione medicalmente assistita di tipo eterologo, assoggettando l’accesso alle altre tecniche al possesso di determinati requisiti soggettivi ed oggettivi, costituiscono espressione delle scelte di fondo sottese alla disciplina in questione, consistenti nella configurazione delle predette tecniche come rimedio alla sterilità o infertilità umana avente una causa patologica e non altrimenti rimuovibile e nell’intento di garantire che il nucleo familiare scaturente dalla loro applicazione riproduca il modello della famiglia caratterizzata dalla presenza di una madre e di un padre, c) tali coordinate sono rimaste inalterate anche a seguito delle sentenze della Corte costituzionale n. 162 del 2014 e n. 96 del 2015, che hanno comportato un ampliamento del novero dei soggetti abilitati ad accedere alla procreazione medicalmente assistita, d) la perdurante operatività delle linee guida sottese alla disciplina dettata dalla L. n. 40 del 2004 impedisce di desumere dalla stessa la configurabilità, anche al di fuori dei casi da essa previsti, di un rapporto genitoriale tra il nato ed il coniuge o il convivente del genitore che non abbia fornito alcun apporto biologico alla procreazione, in ossequio alla preminenza dell’interesse del minore al mantenimento di uno status filiationis corrispondente al progetto genitoriale concretizzatosi nella prestazione del consenso alla procreazione medicalmente assistita, e) non è possibile, in particolare, astrarre il disposto dell’art. 9 dal contesto in cui è inserito, per desumere dal divieto di anonimato per la madre biologica e dal divieto di disconoscimento della paternità per il coniuge o il convivente che abbia prestato il proprio consenso un principio generale in virtù del quale, ai fini dell’instaurazione del relativo rapporto, può considerarsi sufficiente il mero dato volontaristico o intenzionale, rappresentato dal consenso prestato alla procreazione o comunque dall’adesione ad un comune progetto genitoriale, f) l’intera disciplina del rapporto di filiazione, così come delineata dal codice civile, rimane infatti saldamente ancorata alla necessità di un rapporto biologico tra il nato ed i genitori, la cui esclusione richiederebbe, a pena d’inevitabili squilibri, radicali modifiche di sistema, non realizzabili attraverso un intervento episodico del giudice.
8.1. Tale orientamento trova conforto anche nella giurisprudenza costituzionale, e segnatamente nella sentenza n. 221 del 2019, con cui è stata dichiarata infondata la questione di legittimità costituzionale della L. n. 40 del 2004, artt. 5 e 12 nella parte in cui precludono alle coppie omosessuali l’accesso alle tecniche di procreazione medicalmente assistita: pur confermando che l’unione omosessuale rientra nella nozione di formazione sociale di cui all’art. 2 Cost., la Corte costituzionale ha infatti osservato che l’infertilità fisiologica della coppia omosessuale non è omologabile a quella della coppia eterosessuale affetta da patologie riproduttive, aggiungendo che la Costituzione non pone una nozione di famiglia inscindibilmente correlata alla presenza di figli; precisato comunque che il riconoscimento della libertà e volontarietà dell’atto che consente di diventare genitori di sicuro non implica che tale libertà possa esplicarsi senza limiti, la Corte costituzionale ha poi affermato che, a fronte della possibilità, dischiusa dai progressi scientifici e tecnologici, di una scissione tra atto sessuale e procreazione, mediata dall’intervento del medico, spetta alla discrezionalità del legislatore la ponderazione degli interessi in gioco, escludendo comunque l’arbitrarietà o l’irrazionalità dell’idea, sottesa alla disciplina in esame, che una famiglia ad instar naturae rappresenti, in linea di principio, il luogo più idoneo per accogliere e crescere il nuovo nato. Tali considerazioni sono state richiamate nella successiva sentenza n. 237 del 2019, con cui, nel dichiarare inammissibile la questione di legittimità costituzionale della norma desumibile dagli artt. 250 e 449 c.c., dal D.P.R. n. 396 del 2000, art. 29, comma 2 e art. 44, comma 1, e dalla L. n. 40 del 2004, artt. 5 e 8 per contrasto con gli artt. 2,3,24,30 Cost. e art. 117 Cost., comma 1, nella parte in cui non consente di formare in Italia un atto di nascita in cui vengano riconosciute come genitori di un cittadino di nazionalità straniera due persone dello stesso sesso, la Corte costituzionale ha ritenuto di dover aggiungere che ad opposte conclusioni non può condurre neppure la L. n. 76 del 2016, la quale, pur riconoscendo la dignità sociale e giuridica delle coppie formate da persone dello stesso sesso, non consente comunque la filiazione, sia adottiva che per fecondazione assistita, in loro favore, poiché dal rinvio alle disposizioni sul matrimonio, contenuto nell’art. 1, comma 20 di detta legge, restano escluse, in quanto non richiamate, proprio quelle che regolano la paternità, la maternità e l’adozione legittimante.
8.2. L’esclusione della possibilità di ricollegare, in assenza di un rapporto biologico, l’instaurazione del rapporto di filiazione tra il minore ed il genitore d’intenzione al consenso da quest’ultimo prestato all’applicazione delle tecniche di procreazione medicalmente assistita, è stata ritenuta non contrastante neppure con i principi sanciti dalla CEDU: in proposito, è stata richiamata la giurisprudenza della Corte EDU, la quale, pur riconoscendo alla coppia omosessuale il diritto al rispetto della vita privata, anche familiare, ed includendo in tale nozione anche il diritto al rispetto della decisione di diventare genitore e del modo di diventarlo (cfr. Corte EDU, 16/01/2018, Nedescu c. Romania; 27/08/2015, Parrillo c. Italia; 28/08/2012, Costa e Pavan c. Italia), ha escluso la possibilità di ravvisare un trattamento discriminatorio nella legge nazionale che attribuisca alla procreazione medicalmente assistita finalità esclusivamente terapeutiche, riservando alle coppie eterosessuali sterili il ricorso alle relative tecniche (cfr. Corte EDU, sent. 15/03/2012, Gas e Dubois c. Francia), ed ha riconosciuto che in tale materia gli Stati godono di un ampio margine di apprezzamento, soprattutto con riguardo a quei profili in relazione ai quali non si riscontra un generale consenso a livello Europeo (cfr. Corte EDU, sent. 3/11/2011, S.H. c. Austria). Quanto poi all’interesse del minore, la Corte EDU, pur osservando che il mancato riconoscimento del rapporto di filiazione è destinato inevitabilmente ad incidere sulla vita familiare del minore, ha escluso la configurabilità di una violazione del diritto al rispetto della stessa, ove sia assicurata in concreto la possibilità di condurre un’esistenza paragonabile a quella delle altre famiglie (cfr. Corte EDU, sent. 26/06/2014, Mennesson e Labassee c. Francia). La predetta violazione non è pertanto configurabile nel caso in cui (come nella specie) non sia in discussione il rapporto di filiazione con il genitore biologico, ma solo quello con il genitore d’intenzione, il cui mancato riconoscimento non preclude al minore l’inserimento nel nucleo familiare della coppia genitoriale né l’accesso al trattamento giuridico ricollegabile allo status filiationis, pacificamente riconosciuto nei confronti dell’altro genitore (in proposito, v. anche Cass., Sez. Un., 8/05/2019, n. 12193).
8.3. I predetti principi, già richiamati nelle precedenti pronunce di questa Corte riguardanti casi analoghi a quello in esame, sono stati recentemente ribaditi sia dalla Corte costituzionale che dalla Corte EDU.
Quest’ultima, nell’esaminare un caso riguardante il rifiuto di uno stato membro di riconoscere il rapporto giuridico di filiazione tra un minore procreato mediante il ricorso alla maternità surrogata ed uno dei genitori, non avente alcun legame biologico con lo stesso, ha affermato che il diritto al rispetto della vita privata del minore richiede che il diritto interno offra la possibilità di un riconoscimento del legame di filiazione con il genitore d’intenzione, ma non anche che tale riconoscimento abbia luogo attraverso l’iscrizione nell’atto di nascita del minore; ribadito che la scelta degli strumenti per consentire tale riconoscimento rientra nel margine di apprezzamento degli Stati, ha precisato che esso può aver luogo anche in altro modo, come attraverso l’adozione, a condizione che le modalità previste dal diritto interno garantiscano l’effettività e la celerità della procedura (cfr. Corte EDU, sent. 16/07/2020, D. c. Francia).
La Corte costituzionale ha dichiarato a sua volta inammissibile la questione di legittimità costituzionale della L. n. 76 del 2016, art. 1, comma 20, e del D.P.R. n. 396 del 2000, art. 29, comma 2, per contrasto con l’art. 2 Cost., art. 3 Cost., commi 1 e 2, 30 e art. 117 Cost., comma 1, nella parte in cui precludono alle donne omosessuali unite civilmente che abbiano fatto ricorso alla procreazione medicalmente assistita la possibilità di essere indicate, entrambe, quali genitori nell’atto di nascita, osservando che l’obiettivo del riconoscimento del diritto ad essere genitori di entrambe le donne unite civilmente non è raggiungibile attraverso il sindacato di costituzionalità delle predette disposizioni, ma dev’essere perseguito per via normativa, implicando una svolta che, anche e soprattutto per i contenuti etici ed assiologici che la connotano, non è costituzionalmente imposta, ma propriamente attiene all’area degli interventi, con cui il legislatore, quale interprete della volontà della collettività, è chiamato a tradurre il bilanciamento tra valori fondamentali in conflitto, tenendo conto degli orientamenti e delle istanze che apprezzi come maggiormente radicati, nel momento dato, nella coscienza sociale (cfr. Corte Cost., sent. n. 230 del 2020). Nel dichiarare inammissibile la questione di legittimità costituzionale della L. n. 40 del 2004, art. 12, comma 6, e del D.P.R. n. 396 del 2000, art. 18 per contrasto con gli artt. 2,3,30,31 Cost. e art. 117 Cost., comma 1, nella parte in cui non consentono il riconoscimento e la dichiarazione di esecutività del provvedimento giudiziario straniero relativo all’inserimento del genitore d’intenzione nell’atto di stato civile di un minore procreato con le modalità della gestione per altri, la Corte ha poi riconosciuto che l’interesse di un bambino accudito sin dalla nascita da una coppia che ha condiviso la decisione di farlo venire al mondo è quello di ottenere un riconoscimento anche giuridico dei legami che, nella realtà fattuale, già lo uniscono a entrambi i componenti della coppia, e non solo di quello con il genitore biologico, ma ha affermato che tale interesse non può essere considerato automaticamente prevalente rispetto agli altri interessi in gioco, dovendo essere bilanciato con questi ultimi, alla luce del criterio di proporzionalità. Ha quindi escluso l’illegittimità costituzionale delle norme che impediscono l’indicazione del genitore intenzionale nell’atto di nascita del minore, evidenziando nel contempo la necessità di assicurare la tutela dell’interesse del minore attraverso un procedimento di adozione effettivo e celere, che riconosca la pienezza del legame di filiazione tra adottante e adottato, allorché ne sia stata accertata in concreto la corrispondenza agli interessi del bambino. Ha comunque precisato che il compito di adeguare il diritto vigente alle predette esigenze di tutela non può che spettare, in prima battuta, al legislatore, al quale deve essere riconosciuto un significativo margine di manovra nell’individuare una soluzione che si faccia carico di tutti i diritti e i principi in gioco (cfr. Corte Cost., sent. n. 33 del 2021).
8.4. Sulla base delle predette considerazioni, che il Collegio condivide ed intende ribadire anche in questa sede, non può condividersi il ragionamento svolto nel decreto impugnato, il quale ha proceduto ad un arbitrario frazionamento della disciplina dettata dalla L. n. 40 del 2004, distinguendo nello ambito della stessa le disposizioni che individuano i requisiti per l’accesso alle tecniche di procreazione medicalmente assistita da quelle riguardanti lo stato giuridico del minore nato a seguito del ricorso alle predette tecniche, e proponendo un’interpretazione di queste ultime completamente svincolata dai principi ispiratori della legge, in virtù della quale vi ha ravvisato il fondamento di una nuova forma di filiazione, caratterizzata da uno statuto giuridico diverso da quella biologica e quella adottiva, ma produttiva dei medesimi effetti. Tale frazionamento si pone in contrasto con l’unitarietà della disciplina in esame, volta ad adattare le modalità di costituzione del rapporto di filiazione alla diversa realtà determinata dalla procreazione medicalmente assistita, nei limiti in cui il ricorso alla stessa risulta consentito, al fine di porre rimedio a forme patologiche di sterilità o infertilità o di evitare la trasmissione di malattie genetiche: esso non può ritenersi autorizzato dalla portata circoscritta delle sanzioni comminate dalla legge per l’inosservanza dei predetti limiti, la quale non esclude, al di fuori delle ipotesi espressamente previste, la necessità di un rapporto biologico, ai fini della costituzione del rapporto giuridico di filiazione tra il nato e colui che ha prestato il proprio consenso all’utilizzazione delle predette tecniche.
Non merita consenso, in contrario, il richiamo del decreto impugnato ad una recente pronuncia di questa Corte, che ha ritenuto ammissibile il riconoscimento dello stato di figlio nato dal matrimonio in favore di un minore nato a seguito di fecondazione assistita omologa post mortem, avvenuta mediante l’utilizzazione del seme crioconservato del coniuge della madre che, dopo aver prestato il proprio consenso a tale pratica, era deceduto prima della formazione dell’embrione (cfr. Cass., Sez. I, 15/05/2019, n. 13000): in tal caso, infatti, indipendentemente da ogni altra considerazione, non era in discussione l’esistenza di un rapporto biologico tra il nato ed il genitore d’intenzione, il quale non si era limitato a prestare il proprio consenso alla fecondazione, ma aveva messo a disposizione i gameti a tal fine necessari, senza poter vedere coronati da successo gli sforzi compiuti per acquistare lo status giuridico di genitore, a causa del prematuro decesso. Parimenti inappropriato deve ritenersi il richiamo ai precedenti di questa Corte che hanno riconosciuto l’efficacia nel nostro ordinamento dell’atto di nascita formato all’estero dal quale risulti che il nato, concepito mediante il ricorso a tecniche di procreazione medicalmente assistita, è figlio di due persone dello stesso sesso, ancorché una di esse non abbia alcun rapporto biologico con il minore (cfr. Cass., Sez. I, 15/06/2017, n. 14878; 30/09/2016, n. 19599): indipendentemente dalla considerazione che in uno dei due casi esaminati nelle predette pronunce entrambe le donne indicate come genitrici potevano vantare un rapporto biologico con il minore, avendo l’una fornito l’ovulo per la fecondazione e l’altra provveduto alla gestazione, è sufficiente rilevare che il riconoscimento dello atto straniero non fa venir meno l’estraneità dello stesso all’ordinamento italiano, il quale si limita a consentire la produzione dei relativi effetti, così come previsti e regolati dall’ordinamento di provenienza, nei limiti in cui la relativa disciplina risulti compatibile con l’ordine pubblico. Tale compatibilità, com’e’ noto, dev’essere valutata alla stregua dei principi fondamentali della Costituzione e di quelli consacrati nelle fonti internazionali e sovranazionali, nonché del modo in cui detti principi si sono incarnati nella disciplina ordinaria dei singoli istituti e dell’interpretazione fornitane dalla giurisprudenza costituzionale e ordinaria, la cui opera di sintesi e ricomposizione dà forma a quel diritto vivente, dal quale non può prescindersi nella ricostruzione della nozione di ordine pubblico, quale insieme dei valori fondanti dello ordinamento in un determinato momento storico (cfr. Cass., Sez. Un., 8/05/2019, n. 12193). Contrariamente a quanto sostenuto nel decreto impugnato, la nozione di ordine pubblico rilevante ai fini del riconoscimento dell’efficacia degli atti e dei provvedimenti stranieri è più ristretta di quella rilevante nell’ordinamento interno, corrispondente al complesso dei principi informatori dei singoli istituti, quali si desumono dalle norme imperative che li disciplinano: non può quindi ravvisarsi alcuna contraddizione tra il riconoscimento del rapporto di filiazione risultante dall’atto di nascita formato all’estero e l’esclusione di quello derivante dal riconoscimento effettuato in Italia, la cui efficacia dev’essere valutata alla stregua della disciplina vigente nel nostro ordinamento (cfr. Cass., Sez. I, 22/04/2020, n. 8029). Tale disparità di trattamento non comporta la violazione di alcun precetto costituzionale, costituendo il naturale portato della differenza tra la normativa italiana e quelle vigenti in altri Paesi, la cui diversità, pur rendendo possibili condotte elusive della più restrittiva disciplina dettata dal nostro ordinamento, non costituisce di per sé causa d’illegittimità costituzionale di quest’ultima (cfr. Corte Cost., sent. n. 221 del 2019).
Quanto infine all’interesse del minore, la prevalenza da accordarsi allo stesso non legittima, come affermato anche dal Giudice delle leggi, l’automatica estensione delle disposizioni dettate per la procreazione medicalmente assistita anche ad ipotesi estranee al loro ambito di applicazione, non potendo questa Corte sostituirsi al legislatore, cui spetta, nell’esercizio della propria discrezionalità, l’individuazione degli strumenti giuridici più opportuni per la realizzazione del predetto interesse, compatibilmente con il rispetto dei principi sottesi alla L. n. 40 del 2004.
9. L’accoglimento delle predette censure, comportando la caducazione del decreto impugnato, anche nella parte concernente l’attribuzione alla minore del cognome di entrambi i genitori, determina l’assorbimento del sesto motivo, con cui il Ministero ha lamentato la violazione e/o la falsa applicazione dell’art. 262 c.c. e ss., richiamando le censure proposte, anche in riferimento alla predetta statuizione.
10. Il decreto impugnato va pertanto cassato, nei limiti segnati dall’accoglimento del terzo, del quarto e del quinto motivo, e, non risultando necessari ulteriori accertamenti di fatto, la causa può essere decisa nel merito, ai sensi dell’art. 384 c.p.c., comma 2, con il rigetto della domanda.
La peculiarità della questione trattata, che ha costituito oggetto di una complessa vicenda giurisprudenziale, giustifica l’integrale compensazione delle spese dei tre gradi di giudizio.
P.Q.M.
riuniti i ricorsi, dichiara inammissibile il ricorso proposto dal Procuratore generale della Repubblica presso la Corte d’appello di Roma, rigetta il primo motivo del ricorso proposto dal Ministero dell’interno, dichiara inammissibile il secondo, accoglie il terzo, il quarto ed il quinto, dichiara assorbito il sesto motivo, cassa il decreto impugnato, in relazione ai motivi accolti, e, decidendo nel merito, rigetta la domanda. Compensa integralmente le spese processuali.
Dispone che, in caso di utilizzazione della presente sentenza in qualsiasi forma, per finalità di informazione scientifica su riviste giuridiche, supporti elettronici o mediante reti di comunicazione elettronica, sia omessa l’indicazione delle generalità e degli altri dati identificativi delle parti riportati nella sentenza.
Così deciso in Roma, il 16 giugno 2021.
Depositato in Cancelleria il 23 agosto 2021