Corte di Cassazione, sez. I Civile, Sentenza n.23321 del 23/08/2021

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LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE PRIMA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. GENOVESE Francesco A. – Presidente –

Dott. VALITUTTI Antonio – Consigliere –

Dott. PARISE Clotilde – Consigliere –

Dott. MERCOLINO Guido – rel. Consigliere –

Dott. LAMORGESE Antonio – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso iscritto al n. 19595/2021 R.G. proposto da:

MINISTERO DELL’INTERNO, in persona del Ministro p.t., rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, con domicilio legale in Roma, via dei Portoghesi, n. 12;

– ricorrente –

contro

D.N., e M.E., in proprio e nella qualità di genitore investito della responsabilità sulla minore M.C.J., rappresentate e difese dagli Avv. Vincenzo Miri, e Federica Tempori, con domicilio in Roma, piazza Cavour, presso la Cancelleria civile della Corte di cassazione;

– controricorrenti –

e SINDACO DI *****, PROCURATORE DELLA REPUBBLICA PRESSO IL TRIBUNALE DI ***** e PROCURATORE GENERALE DELLA REPUBBLICA PRESSO LA CORTE D’APPELLO DI PERUGIA;

– intimati –

avverso il decreto della Corte d’appello di Perugia depositato il 21 novembre 2019;

Udita la relazione svolta nella pubblica udienza del 16 giugno 2021 dal Consigliere Dott. Guido Mercolino;

udito l’Avv. Federica Tempori;

udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore generale Dott. CARDINO Alberto, che ha concluso chiedendo l’accoglimento del secondo e del terzo motivo di ricorso.

FATTI DI CAUSA

1. M.E., in proprio e nella qualità di genitore esercente la responsabilità nei confronti della minore M.C.J., e D.N., convivente con la M., proposero ricorso al Tribunale di Terni, per sentir dichiarare illegittimo il rifiuto opposto dall’ufficiale di stato civile del Comune di ***** all’annotazione del riconoscimento della minore quale figlia della D., effettuato da quest’ultima successivamente al riconoscimento da parte dell’altra ricorrente.

Premesso che la minore, nata in Italia il ***** e partorita dalla M., era stata dalla stessa concepita mediante il ricorso alla procreazione medicalmente assistita di tipo eterologo, effettuata all’estero senza alcun apporto biologico da parte della D., la quale aveva tuttavia prestato il proprio consenso all’intervento, chiesero disporsi la rettificazione dello atto di nascita, con l’annotazione del riconoscimento a margine dello stesso e con la modificazione del cognome della minore in ” M. D.”.

Si costituì il Ministero dell’interno, chiedendo il rigetto della domanda.

1.1. Con decreto del 22 maggio 2019, il Tribunale di Terni rigettò la domanda.

2. Il reclamo proposto dalla M. e dalla D. è stato accolto dalla Corte d’appello di Perugia, che con decreto del 21 novembre 2019 ha rigettato anche il reclamo incidentale proposto dal Ministero dell’interno.

A fondamento della decisione, la Corte ha innanzitutto escluso la sussistenza di un difetto di rappresentanza della minore o di un conflitto d’interessi tra la stessa ed il genitore, rilevando che C.J. era rappresentata in giudizio dalla madre, i cui interessi non potevano considerarsi incompatibili con quelli della minore, né in relazione all’oggetto della domanda, costituito dal riconoscimento giuridico di un rapporto affettivo stabile e continuativo, né in relazione al rapporto omoaffettivo sottostante al predetto riconoscimento.

Ha disatteso inoltre l’eccezione d’inammissibilità della domanda, per esistenza di una madre che aveva già riconosciuto la minore, osservando che la possibilità del riconoscimento da parte di un’altra madre non si porrebbe in contrasto con l’art. 253 c.c., qualora si ritenesse che tale disposizione sia riferibile anche alla bigenitorialità intenzionale, la quale prescinde dall’unione eterosessuale.

Nel merito, premesso che l’oggetto del reclamo era costituito esclusivamente dall’accertamento della corrispondenza tra l’attestazione richiesta e la realtà di fatto, la quale dipendeva dall’individuazione della disciplina applicabile al figlio nato da fecondazione eterologa effettuata all’estero da una coppia omosessuale, ha rilevato che l’ordinamento vigente prevede tre diversi tipi di genitorialità, fondati rispettivamente sulla procreazione naturale, l’adozione legale e la procreazione medicalmente assistita, osservando che soltanto la prima è ancorata al dato biologico-genetico, e concludendo pertanto che la filiazione giuridica non coincide necessariamente con la discendenza genetica. Ha aggiunto che la L. 19 febbraio 2004, n. 40, nel dettare la prima normativa organica in materia di procreazione medicalmente assistita, attribuisce al minore nato mediante l’utilizzazione delle relative tecniche lo stato di figlio della coppia che ha espresso la volontà di farvi ricorso e vieta il disconoscimento da parte del partner maschile che abbia prestato il proprio consenso, in tal modo escludendo la coincidenza tra verità biologica e verità legale ed introducendo un nuovo sistema di filiazione, diverso ed autonomo rispetto a quello previsto dal codice civile, che, ai fini del riconoscimento dello status di figlio, attribuisce un rilievo determinante al consenso validamente prestato ad un progetto di genitorialità condivisa, a meno che il riconoscimento non consegua alla violazione di diritti fondamentali. Ha ritenuto ininfluenti, in proposito, sia l’assenza di stabilità della coppia che l’identità di sesso dei componenti, osservando che il ricorso alla procreazione medicalmente assistita è consentito non solo alle coppie coniugate, ma anche a quelle conviventi, senza distinzione tra coppie eterosessuali e coppie omosessuali. Ha reputato non decisiva anche l’assenza di un legame biologico tra il minore ed il genitore intenzionale, dando atto dell’intervenuto ampliamento dell’ambito applicativo della L. n. 40 cit., per effetto della dichiarazione d’illegittimità dell’art. 4, e della prevalenza accordata all’interesse del minore dalla giurisprudenza costituzionale. Ha escluso che il riconoscimento dello status di figlio al nato da tecniche di fecondazione eterologa nell’ambito di un progetto genitoriale riferito a una coppia omosessuale si ponga in contrasto con l’ordine pubblico, affermando che il punto di equilibrio tra il diritto della coppia di accedere alle predette tecniche, l’esigenza di adattare tale diritto all’interno di un modello tradizionale di famiglia, la tutela della dignità umana e quella del preminente interesse del nascituro dev’essere ricercato all’interno della stessa L. n. 40, la quale individua nel consenso, quale fattore determinante la genitorialità, il criterio di soluzione del conflitto tra l’esigenza di garantire la certezza dello status dell’individuo e la previsione di divieti e sanzioni a carico dei titolari delle altre posizioni giuridiche coinvolte. Ha rilevato che tale disposizione esprime un’opzione di fondo del legislatore rispetto ai conflitti tra la libera espressione della personalità e della sessualità dell’individuo che prescinde dalla patologia della fase genetica, distinguendo tra i principi e le finalità cui la procreazione medicalmente assistita dev’essere preordinata e la tutela del nato, la quale prescinde dai divieti previsti dall’art. 5 e dagli effetti delle relative violazioni, in una prospettiva di salvaguardia dei diritti del concepito. Ha aggiunto che tale salvaguardia corrisponde al principio del best interest of the child, sancito dall’art. 23 del regolamento CE n. 2201/2003, dalla Convenzione di New York sui diritti del fanciullo, dalla CEDU e dalla Carta dei Diritti Fondamentali dell’UE, e desumibile anche dall’art. 251 c.c., il quale impone di attribuire la prevalenza all’interesse del minore ad acquisire rapidamente la certezza della propria discendenza bigenitoriale, quale elemento di primaria rilevanza nella costruzione della propria identità familiare e sociale, derivante dalla nascita nell’ambito di un progetto di genitorialità realizzato mediante la procreazione medicalmente assistita effettuata all’estero. Ha precisato che l’unico vero limite all’operatività di tale principio è costituito dal divieto di riconoscimento dello status di figlio in caso di nascita da procedure di maternità surrogata, ritenendo invece non espressiva di un principio di ordine pubblico la disposizione di cui all’art. 269 c.c., che identifica la madre in colei che partorisce. Ha evidenziato l’ingiustificata disparità di trattamento che l’esclusione del riconoscimento determinerebbe tra le coppie che scelgano di far nascere in Italia il figlio concepito mediante il ricorso alla fecondazione eterologa e quelle che chiedano la trascrizione di atti di nascita formati all’estero, nonché l’inidoneità dell’istituto dell’adozione a soddisfare l’esigenza di tutela dell’identità personale del minore, che postula il riconoscimento giuridico del suo inserimento in un progetto di vita familiare. Ha escluso infine la portata ostativa del D.P.R. 3 novembre 2000, n. 396, art. 29 osservando che lo stesso non impedisce d’indicare il genitore intenzionale quale secondo genitore, ed ha accolto anche la domanda di attribuzione del doppio cognome, affermando che la stessa realizza il diritto del figlio all’identità personale ed il paritario rilievo di entrambe le figure genitoriali nel processo di costruzione dell’identità personale.

3. Avverso il predetto decreto il Ministero ha proposto ricorso per cassazione, articolato in tre motivi, illustrati anche con memoria. La M. e la D. hanno resistito con controricorso, anch’esso illustrato con memoria. Gli altri intimati non hanno svolto attività difensiva.

RAGIONI DELLA DECISIONE

1. Con il primo motivo d’impugnazione, il ricorrente denuncia l’eccesso di potere giurisdizionale, affermando che, nell’ordinare la trascrizione nei registri dello stato civile di una piena genitorialità omosessuale riguardante un individuo nato in Italia, il decreto impugnato ha disposto la formazione di un atto dello stato civile atipico, in assenza di una norma di legge che lo preveda, in tal modo invadendo la sfera di discrezionalità politica spettante al legislatore. Premesso che il nostro ordinamento prevede, oltre alla filiazione biologica, matrimoniale o naturale, tra persone di sesso diverso, quella adottiva, caratterizzata dall’assenza di un legame biologico, e quella derivante da procreazione medicalmente assistita, con o senza legame biologico, ma sempre tra persone di sesso diverso, rileva che la possibilità di accedere alla filiazione adottiva o alla procreazione medicalmente assistita tra persone dello stesso sesso senza legame biologico è espressamente esclusa dalla legge; afferma che tale divieto non comporta alcuna discriminazione, essendo previste forme giuridiche idonee a costituire un rapporto di responsabilità di tipo genitoriale indipendentemente dalla discendenza biologica, e spettando esclusivamente al legislatore una politica di sostegno delle coppie omosessuali, non necessariamente volta all’eliminazione di qualsiasi disparità di trattamento. Precisato inoltre che l’eventuale contrarietà di tale disciplina ai principi costituzionali dovrebbe essere denunciata mediante la proposizione della questione di legittimità costituzionale, osserva che la Costituzione non prevede una nozione di famiglia inscindibilmente correlata alla presenza di figli, e che la libertà e volontarietà dell’atto che consente di diventare genitori non implica che la stessa possa esercitarsi senza limiti; aggiunge che, come riconosciuto dalla Corte EDU, il divieto della fecondazione eterologa non comporta una violazione dell’art. 8 della CEDU, non eccedendo il margine di discrezionalità garantito agli Stati, e non risultando tutelato il semplice desiderio di fondare una famiglia; evidenzia che anche la prevalenza dell’interesse del minore non ha carattere assoluto, comportando una deroga alle preclusioni derivanti dalla contrarietà all’ordine pubblico, e dovendo quindi trovare applicazione secondo canoni di proporzionalità e bilanciamento; sostiene comunque che nel caso in esame non è in gioco l’interesse del minore, dal momento che il rifiuto opposto dall’ufficiale di stato civile non è idoneo a pregiudicare la stabilità del contesto familiare in cui si svolge la vita di relazione dell’interessato.

1.1. Il motivo è infondato.

La Corte d’appello ha infatti giustificato la propria decisione attraverso il richiamo a una pluralità di disposizioni, interpretate alla luce dei principi enunciati dalla giurisprudenza di legittimità, da quella costituzionale e dalla Corte EDU, sulla base delle quali ha concluso che il divieto di accesso alla procreazione medicalmente assistita da parte delle coppie omosessuali, previsto dalla L. n. 40 del 2004, art. 5 non impedisce, in caso di nascita di un figlio mediante il ricorso alle predette tecniche, il riconoscimento dello status di genitore anche in favore di colui che non abbia alcun legame biologico con il minore, ma abbia prestato il proprio consenso alla procreazione, nel quadro di un progetto di vita della coppia costituita con il genitore biologico. In quanto ancorato alla disciplina vigente, sia pure interpretata secondo criteri evolutivi, tale ragionamento consente di escludere la sussistenza del vizio lamentato, configurabile soltanto nel caso in cui il giudice non si sia limitato ad applicare una norma giuridica esistente, ma ne abbia creata una nuova, in tal modo esercitando un’attività di produzione normativa estranea alla sua competenza. E’ noto d’altronde che alla figura dell’eccesso di potere giurisdizionale per invasione della sfera di discrezionalità riservata al legislatore viene riconosciuta una rilevanza eminentemente teorica, trattandosi di un vizio ipotizzabile soltanto a condizione di poter distinguere l’attività di produzione normativa indebitamente esercitata dal giudice dall’attività interpretativa, la quale in realtà non ha una funzione meramente euristica, ma si sostanzia in un’opera creativa della volontà della legge nel caso concreto (cfr. Cass., Sez. Un., 27/06/2018, n. 16974; 12/12/2012, n. 22784; 28/01/2011, n. 2068).

L’eccesso di potere giurisdizionale non è configurabile neppure in relazione alla mancata proposizione della questione di legittimità costituzionale, non essendo il giudice tenuto senz’altro a promuoverla nel caso in cui ritenga che l’interpretazione corrente delle norme di legge applicabili alla fattispecie sottoposta al suo esame sia contraria alla Costituzione, ma dovendo, prima di rimettere gli atti alla Corte costituzionale, sperimentare la possibilità di una interpretazione costituzionalmente orientata, la cui mancata ricerca, a fronte di una pluralità di plausibili interpretazioni ed in assenza di un indirizzo interpretativo qualificabile come diritto vivente, può anzi costituire causa d’inammissibilità della questione.

2. Con il secondo motivo, il ricorrente deduce la violazione e/o la falsa applicazione del D.P.R. n. 396 del 2000, art. 30 dell’art. 269 c.c. e della L. n. 40 del 2004, artt. 4,5,8 e 12 sostenendo che la norma che regola la formazione dell’atto di nascita va letta congiuntamente con le disposizioni del codice civile che disciplinano la filiazione, le quali non solo postulano la diversità di sesso tra i genitori, ma attribuiscono la qualità di madre esclusivamente a colei che partorisce. Tali disposizioni dimostrano che il substrato sostanziale dell’attribuzione giuridica della maternità è costituito dal rapporto genetico di discendenza, quale fatto oggettivo accertabile in sede giudiziale, ed escludono pertanto la possibilità di ricollegare l’assunzione della predetta qualità ad un atto volitivo-negoziale, così come la possibilità che esistano due madri aventi la medesima relazione giuridica con il figlio.

3. Con il terzo motivo, il ricorrente insiste sulla violazione e/o la falsa applicazione della L. n. 40 del 2004, artt. 4,5,8 e 12 osservando che, nel ritenere consentita la genitorialità omosessuale, sulla base di un’interpretazione costituzionalmente orientata delle predette disposizioni, il decreto impugnato non ha tenuto conto del divieto della procreazione medicalmente assistita, dalle stesse imposto alle coppie omosessuali. Sostiene che la valorizzazione della genitorialità condivisa apre il varco ad una concezione del tutto svincolata dalle regole biologiche, facendo dipendere esclusivamente dalla volontà la sua attuazione e spostando su un piano meramente potestativo l’attribuzione dello status filiationis, finora pacificamente ritenuto sottratto alla disponibilità delle parti. Premesso che, anche a seguito della parziale dichiarazione d’illegittimità costituzionale della L. n. 40 del 2004, l’ampliamento delle ipotesi di filiazione, derivante dall’introduzione della disciplina della procreazione medicalmente assistita, resta finalizzato esclusivamente a consentire la filiazione a coppie che in astratto potrebbero procreare ma che in concreto ne sono impedite, rileva che per le coppie omosessuali l’impedimento deriva invece da un limite naturale, che rende impossibile la generazione di figli se non attraverso il ricorso a pratiche mediche richiedenti la cooperazione di terzi: nega pertanto la sussistenza della disparità di trattamento prospettata dal decreto impugnato, ponendo in risalto la diversità delle situazioni poste a confronto, ed evidenziando che la materia della filiazione e dell’adozione non ha trovato spazio neppure nella L. 20 maggio 2016, n. 76, la quale, nell’ammettere le unioni civili fra individui dello stesso sesso, ha escluso l’applicabilità delle relative disposizioni al di fuori dell’ambito espressamente previsto. Afferma, per converso, che dare copertura giuridica a situazioni giuridiche formatesi all’estero comporterebbe una disparità di trattamento rispetto a quelle sorte in Italia, incentivando comportamenti non solo elusivi dell’ordinamento italiano, ma posti in essere in dispregio delle norme interne. Ribadisce inoltre che il mancato riconoscimento della doppia genitorialità non comporta alcuna lesione dell’interesse del minore, avendo quest’ultimo già una madre riconosciuta dal nostro ordinamento, e non sussistendo alcuna norma che preveda la necessità di due genitori non aventi con lui alcun legame biologico. Contesta la pertinenza del richiamo al diritto del minore alla conservazione dell’identità familiare acquisita ed alla continuità dei rapporti affettivi, osservando che il riconoscimento della prevalenza dello stesso sul favor veritatis, normalmente riguardante lo status filiationis derivante da un atto di nascita legittimamente formato, nella specie si risolverebbe in una mera presa d’atto della volontà dei genitori e dello stato di fatto dagli stessi imposto, e nel conseguente consolidamento di una situazione familiare contra jus. Sostiene infine che il riconoscimento di un rapporto di filiazione svincolato dalle sue radici naturali, oltre a porsi in contrasto con l’interesse del minore a conoscere l’effettivo genitore biologico, quale dato rilevante della sua identità personale, comporterebbe gravi rischi sotto il profilo sanitario, precludendo la conoscenza di eventuali patologie ereditarie sia fisiche che psichiche, con conseguente pregiudizio per le possibilità di cura.

4. I predetti motivi, da esaminarsi congiuntamente, in quanto riflettenti profili diversi della medesima questione, sono fondati.

La questione in esame è stata già affrontata da questa Corte, e risolta mediante l’enunciazione del principio di diritto secondo cui il riconoscimento di un minore concepito mediante il ricorso a tecniche di procreazione medicalmente assistita di tipo eterologo da parte di una donna legata in unione civile con quella che lo ha partorito, ma non avente alcun legame biologico con il minore, si pone in contrasto con la L. n. 40 del 2004, art. 4, comma 3, e con l’esclusione del ricorso alle predette tecniche da parte delle coppie omosessuali, non essendo consentita, al di fuori dei casi previsti dalla legge, la realizzazione di forme di genitorialità svincolate da un rapporto biologico, con i medesimi strumenti giuridici previsti per il minore nato nel matrimonio o riconosciuto (cfr. Cass., Sez. I, 22/04/2020, n. 8029; 3/04/2020, n. 7668).

A fondamento di tali conclusioni, è stato osservato che a) nel caso in cui (come nella specie) il minore sia in possesso della cittadinanza italiana, in quanto, pur essendo stato concepito all’estero, sia nato in Italia da una cittadina italiana, la fattispecie è interamente regolata, ai sensi della L. 31 maggio 1995, n. 218, art. 33 dalla legge italiana, non presentando alcun elemento di estraneità all’ordinamento italiano, tale da giustificare il ricorso alla nozione di ordine pubblico internazionale, b) la L. n. 40 del 2004, artt. 4 e 5 i quali escludono il ricorso a tecniche di procreazione medicalmente assistita di tipo eterologo, assoggettando l’accesso alle altre tecniche al possesso di determinati requisiti soggettivi ed oggettivi, costituiscono espressione delle scelte di fondo sottese alla disciplina in questione, consistenti nella configurazione delle predette tecniche come rimedio alla sterilità o infertilità umana avente una causa patologica e non altrimenti rimuovibile e nell’intento di garantire che il nucleo familiare scaturente dalla loro applicazione riproduca il modello della famiglia caratterizzata dalla presenza di una madre e di un padre, c) tali coordinate sono rimaste inalterate anche a seguito delle sentenze della Corte costituzionale n. 162 del 2014 e n. 96 del 2015, che hanno comportato un ampliamento del novero dei soggetti abilitati ad accedere alla procreazione medicalmente assistita, d) la perdurante operatività delle linee guida sottese alla disciplina dettata dalla L. n. 40 del 2004 impedisce di desumere dalla stessa la configurabilità, anche al di fuori dei casi da essa previsti, di un rapporto genitoriale tra il nato ed il coniuge o il convivente del genitore che non abbia fornito alcun apporto biologico alla procreazione, in ossequio alla preminenza dell’interesse del minore al mantenimento di uno status filiationis corrispondente al progetto genitoriale concretizzatosi nella prestazione del consenso alla procreazione medicalmente assistita, e) non è possibile, in particolare, astrarre il disposto dell’art. 9 dal contesto in cui è inserito, per desumere dal divieto di anonimato per la madre biologica e dal divieto di disconoscimento della paternità per il coniuge o il convivente che abbia prestato il proprio consenso un principio generale in virtù del quale, ai fini dell’instaurazione del relativo rapporto, può considerarsi sufficiente il mero dato volontaristico o intenzionale, rappresentato dal consenso prestato alla procreazione o comunque dall’adesione ad un comune progetto genitoriale, f) l’intera disciplina del rapporto di filiazione, così come delineata dal codice civile, rimane infatti saldamente ancorata alla necessità di un rapporto biologico tra il nato ed i genitori, la cui esclusione richiederebbe, a pena d’inevitabili squilibri, radicali modifiche di sistema, non realizzabili attraverso un intervento episodico del giudice.

4.1. Tale orientamento trova conforto anche nella giurisprudenza costituzionale, e segnatamente nella sentenza n. 221 del 2019, con cui è stata dichiarata infondata la questione di legittimità costituzionale della L. n. 40 del 2004, artt. 5 e 12 nella parte in cui precludono alle coppie omosessuali l’accesso alle tecniche di procreazione medicalmente assistita: pur confermando che l’unione omosessuale rientra nella nozione di formazione sociale di cui all’art. 2 Cost., la Corte costituzionale ha infatti osservato che l’infertilità fisiologica della coppia omosessuale non è omologabile a quella della coppia eterosessuale affetta da patologie riproduttive, aggiungendo che la Costituzione non pone una nozione di famiglia inscindibilmente correlata alla presenza di figli; precisato comunque che il riconoscimento della libertà e volontarietà dell’atto che consente di diventare genitori di sicuro non implica che tale libertà possa esplicarsi senza limiti, la Corte costituzionale ha poi affermato che, a fronte della possibilità, dischiusa dai progressi scientifici e tecnologici, di una scissione tra atto sessuale e procreazione, mediata dall’intervento del medico, spetta alla discrezionalità del legislatore la ponderazione degli interessi in gioco, escludendo comunque l’arbitrarietà o l’irrazionalità dell’idea, sottesa alla disciplina in esame, che una famiglia ad instar naturae rappresenti, in linea di principio, il luogo più idoneo per accogliere e crescere il nuovo nato. Tali considerazioni sono state richiamate nella successiva sentenza n. 237 del 2019, con cui, nel dichiarare inammissibile la questione di legittimità costituzionale della norma desumibile dagli artt. 250 e 449 c.c., dal D.P.R. n. 396 del 2000, artt. 29, comma 2 e art. 44, comma 1, e dalla L. n. 40 del 2004, artt. 5 e 8 per contrasto con gli artt. 2,3,24,30 Cost. e art. 117 Cost., comma 1, nella parte in cui non consente di formare in Italia un atto di nascita in cui vengano riconosciute come genitori di un cittadino di nazionalità straniera due persone dello stesso sesso, la Corte costituzionale ha ritenuto di dover aggiungere che ad opposte conclusioni non può condurre neppure la L. n. 76 del 2016, la quale, pur riconoscendo la dignità sociale e giuridica delle coppie formate da persone dello stesso sesso, non consente comunque la filiazione, sia adottiva che per fecondazione assistita, in loro favore, poiché dal rinvio alle disposizioni sul matrimonio, contenuto nell’art. 1, comma 20 detta legge, restano escluse, in quanto non richiamate, proprio quelle che regolano la paternità, la maternità e l’adozione legittimante.

4.2. L’esclusione della possibilità di ricollegare, in assenza di un rapporto biologico, l’instaurazione del rapporto di filiazione tra il minore ed il genitore d’intenzione al consenso da quest’ultimo prestato all’applicazione delle tecniche di procreazione medicalmente assistita, è stata ritenuta non contrastante neppure con i principi sanciti dalla CEDU: in proposito, è stata richiamata la giurisprudenza della Corte EDU, la quale, pur riconoscendo alla coppia omosessuale il diritto al rispetto della vita privata, anche familiare, ed includendo in tale nozione anche il diritto al rispetto della decisione di diventare genitore e del modo di diventarlo (cfr. Corte EDU, 16/01/2018, Nedescu c. Romania; 27/08/2015, Parrillo c. Italia; 28/08/2012, Costa e Pavan c. Italia), ha escluso la possibilità di ravvisare un trattamento discriminatorio nella legge nazionale che attribuisca alla procreazione medicalmente assistita finalità esclusivamente terapeutiche, riservando alle coppie eterosessuali sterili il ricorso alle relative tecniche (cfr. Corte EDU, sent. 15/03/2012, Gas e Dubois c. Francia), ed ha riconosciuto che in tale materia gli Stati godono di un ampio margine di apprezzamento, soprattutto con riguardo a quei profili in relazione ai quali non si riscontra un generale consenso a livello Europeo (cfr. Corte EDU, sent. 3/11/2011, S.H. c. Austria). Quanto poi all’interesse del minore, la Corte EDU, pur osservando che il mancato riconoscimento del rapporto di filiazione è destinato inevitabilmente ad incidere sulla vita familiare del minore, ha escluso la configurabilità di una violazione del diritto al rispetto della stessa, ove sia assicurata in concreto la possibilità di condurre un’esistenza paragonabile a quella delle altre famiglie (cfr. Corte EDU, sent. 26/06/2014, Mennesson e Labassee c. Francia). La predetta violazione non è pertanto configurabile nel caso in cui (come nella specie) non sia in discussione il rapporto di filiazione con il genitore biologico, ma solo quello con il genitore d’intenzione, il cui mancato riconoscimento non preclude al minore l’inserimento nel nucleo familiare della coppia genitoriale né l’accesso al trattamento giuridico ricollegabile allo status filiationis, pacificamente riconosciuto nei confronti dell’altro genitore (in proposito, v. anche Cass., Sez. Un., 8/05/2019, n. 12193).

4.3. I predetti principi, già richiamati nelle precedenti pronunce di questa Corte riguardanti casi analoghi a quello in esame, sono stati recentemente ribaditi sia dalla Corte costituzionale che dalla Corte EDU.

Quest’ultima, nell’esaminare un caso riguardante il rifiuto di uno Stato membro di riconoscere il rapporto giuridico di filiazione tra un minore procreato mediante il ricorso alla maternità surrogata ed uno dei genitori, non avente alcun legame biologico con lo stesso, ha affermato che il diritto al rispetto della vita privata del minore richiede che il diritto interno offra la possibilità di un riconoscimento del legame di filiazione con il genitore d’intenzione, ma non anche che tale riconoscimento abbia luogo attraverso l’iscrizione nell’atto di nascita del minore; ribadito che la scelta degli strumenti per consentire tale riconoscimento rientra nel margine di apprezzamento degli Stati, ha precisato che esso può aver luogo anche in altro modo, come attraverso l’adozione, a condizione che le modalità previste dal diritto interno garantiscano l’effettività e la celerità della procedura (cfr. Corte EDU, sent. 16/07/2020, D. c. Francia).

La Corte costituzionale ha dichiarato a sua volta inammissibile la questione di legittimità costituzionale della L. n. 76 del 2016, art. 1, comma 20, e del D.P.R. n. 396 del 2000, art. 29, comma 2, per contrasto con l’art. 2 Cost., art. 3 Cost., commi 1 e 2, art. 30 Cost., e art. 117 Cost., comma 1, nella parte in cui precludono alle donne omosessuali unite civilmente che abbiano fatto ricorso alla procreazione medicalmente assistita la possibilità di essere indicate, entrambe, quali genitori nell’atto di nascita, osservando che l’obiettivo del riconoscimento del diritto ad essere genitori di entrambe le donne unite civilmente non è raggiungibile attraverso il sindacato di costituzionalità delle predette disposizioni, ma dev’essere perseguito per via normativa, implicando una svolta che, anche e soprattutto per i contenuti etici ed assiologici che la connotano, non è costituzionalmente imposta, ma propriamente attiene all’area degli interventi, con cui il legislatore, quale interprete della volontà della collettività, è chiamato a tradurre il bilanciamento tra valori fondamentali in conflitto, tenendo conto degli orientamenti e delle istanze che apprezzi come maggiormente radicati, nel momento dato, nella coscienza sociale (cfr. Corte Cost., sent. n. 230 del 2020). Nel dichiarare inammissibile la questione di legittimità costituzionale della L. n. 40 del 2004, art. 12, comma 6, della L. n. 218 del 1995 e del D.P.R. n. 396 del 2000, art. 18 per contrasto con gli artt. 2,3,30,31 Cost. e art. 117 Cost., comma 1, nella parte in cui non consentono il riconoscimento e la dichiarazione di esecutività del provvedimento giudiziario straniero relativo all’inserimento del genitore d’intenzione nell’atto di stato civile di un minore procreato con le modalità della gestione per altri, la Corte ha poi riconosciuto che l’interesse di un bambino accudito sin dalla nascita da una coppia che ha condiviso la decisione di farlo venire al mondo è quello di ottenere un riconoscimento anche giuridico dei legami che, nella realtà fattuale, già lo uniscono a entrambi i componenti della coppia, e non solo di quello con il genitore biologico, ma ha affermato che tale interesse non può essere considerato automaticamente prevalente rispetto agli altri interessi in gioco, dovendo essere bilanciato con questi ultimi, alla luce del criterio di proporzionalità. Ha quindi escluso l’illegittimità costituzionale delle norme che impediscono l’indicazione del genitore intenzionale nell’atto di nascita del minore, evidenziando nel contempo la necessità di assicurare la tutela dell’interesse del minore attraverso un procedimento di adozione effettivo e celere, che riconosca la pienezza del legame di filiazione tra adottante e adottato, allorché ne sia stata accertata in concreto la corrispondenza agli interessi del bambino. Ha comunque precisato che il compito di adeguare il diritto vigente alle predette esigenze di tutela non può che spettare, in prima battuta, al legislatore, al quale deve essere riconosciuto un significativo margine di manovra nell’individuare una soluzione che si faccia carico di tutti i diritti e i principi in gioco (cfr. Corte Cost., sent. n. 33 del 2021).

4.4. Sulla base delle predette considerazioni, che il Collegio condivide ed intende ribadire anche in questa sede, non può condividersi il ragionamento svolto nel decreto impugnato, il quale ha proceduto ad un arbitrario frazionamento della disciplina dettata dalla L. n. 40 del 2004, distinguendo nello ambito della stessa le disposizioni che individuano i requisiti per l’accesso alle tecniche di procreazione medicalmente assistita da quelle riguardanti lo stato giuridico del minore nato a seguito del ricorso alle predette tecniche, e proponendo un’interpretazione di queste ultime completamente svincolata dai principi ispiratori della legge, in virtù della quale vi ha ravvisato il fondamento di una nuova forma di filiazione, caratterizzata da uno statuto giuridico diverso da quella biologica e quella adottiva, ma produttiva dei medesimi effetti. Tale frazionamento si pone in contrasto con l’unitarietà della disciplina in esame, volta ad adattare le modalità di costituzione del rapporto di filiazione alla diversa realtà determinata dalla procreazione medicalmente assistita, nei limiti in cui il ricorso alla stessa risulta consentito, al fine di porre rimedio a forme patologiche di sterilità o infertilità o di evitare la trasmissione di malattie genetiche: esso non può ritenersi autorizzato dalla portata circoscritta delle sanzioni comminate dalla legge per l’inosservanza dei predetti limiti, la quale non esclude, al di fuori delle ipotesi espressamente previste, la necessità di un rapporto biologico, ai fini della costituzione del rapporto giuridico di filiazione tra il nato e colui che ha prestato il proprio consenso all’utilizzazione delle predette tecniche.

Non merita consenso, in contrario, il richiamo del decreto impugnato ad una recente pronuncia di questa Corte, che ha ritenuto ammissibile il riconoscimento dello stato di figlio nato dal matrimonio in favore di un minore nato a seguito di fecondazione assistita omologa post mortem, avvenuta mediante l’utilizzazione del seme crioconservato del coniuge della madre che, dopo aver prestato il proprio consenso a tale pratica, era deceduto prima della formazione dell’embrione (cfr. Cass., Sez. I, 15/05/2019, n. 13000): in tal caso, infatti, indipendentemente da ogni altra considerazione, non era in discussione l’esistenza di un rapporto biologico tra il nato ed il genitore d’intenzione, il quale non si era limitato a prestare il proprio consenso alla fecondazione, ma aveva messo a disposizione i gameti a tal fine necessari, senza poter vedere coronati da successo gli sforzi compiuti per acquistare lo status giuridico di genitore, a causa del prematuro decesso. Parimenti inappropriato deve ritenersi il richiamo ai precedenti di questa Corte che hanno riconosciuto l’efficacia nel nostro ordinamento dell’atto di nascita formato all’estero dal quale risulti che il nato, concepito mediante il ricorso a tecniche di procreazione medicalmente assistita, è figlio di due persone dello stesso sesso, ancorché una di esse non abbia alcun rapporto biologico con il minore (cfr. Cass., Sez. I, 15/06/2017, n. 14878; 30/09/2016, n. 19599): indipendentemente dalla considerazione che in uno dei due casi esaminati nelle predette pronunce entrambe le donne indicate come genitrici potevano vantare un rapporto biologico con il minore, avendo l’una fornito l’ovulo per la fecondazione e l’altra provveduto alla gestazione, è sufficiente rilevare che il riconoscimento dello atto straniero non fa venir meno l’estraneità dello stesso all’ordinamento italiano, il quale si limita a consentire la produzione dei relativi effetti, così come previsti e regolati dall’ordinamento di provenienza, nei limiti in cui la relativa disciplina risulti compatibile con l’ordine pubblico. Tale compatibilità, com’e’ noto, dev’essere valutata alla stregua dei principi fondamentali della Costituzione e di quelli consacrati nelle fonti internazionali e sovranazionali, nonché del modo in cui detti principi si sono incarnati nella disciplina ordinaria dei singoli istituti e dell’interpretazione fornitane dalla giurisprudenza costituzionale e ordinaria, la cui opera di sintesi e ricomposizione dà forma a quel diritto vivente, dal quale non può prescindersi nella ricostruzione della nozione di ordine pubblico, quale insieme dei valori fondanti dello ordinamento in un determinato momento storico (cfr. Cass., Sez. Un., 8/05/2019, n. 12193). Contrariamente a quanto sostenuto nel decreto impugnato, la nozione di ordine pubblico rilevante ai fini del riconoscimento dell’efficacia degli atti e dei provvedimenti stranieri è più ristretta di quella rilevante nell’ordinamento interno, corrispondente al complesso dei principi informatori dei singoli istituti, quali si desumono dalle norme imperative che li disciplinano: non può quindi ravvisarsi alcuna contraddizione tra il riconoscimento del rapporto di filiazione risultante dall’atto di nascita formato all’estero e l’esclusione di quello derivante dal riconoscimento effettuato in Italia, la cui efficacia dev’essere valutata alla stregua della disciplina vigente nel nostro ordinamento (cfr. Cass., Sez. I, 22/04/2020, n. 8029). Tale disparità di trattamento non comporta la violazione di alcun precetto costituzionale, costituendo il naturale portato della differenza tra la normativa italiana e quelle vigenti in altri Paesi la cui diversità, pur rendendo possibili condotte elusive della più restrittiva disciplina dettata dal nostro ordinamento, non costituisce di per sé causa d’illegittimità costituzionale di quest’ultima (cfr. Corte Cost., sent. n. 221 del 2019).

Quanto infine all’interesse del minore, la prevalenza da accordarsi allo stesso non legittima, come affermato anche dal Giudice delle leggi, l’automatica estensione delle disposizioni dettate per la procreazione medicalmente assistita anche ad ipotesi estranee al loro ambito di applicazione, non potendo questa Corte sostituirsi al legislatore, cui spetta, nell’esercizio della propria discrezionalità, l’individuazione degli strumenti giuridici più opportuni per la realizzazione del predetto interesse, compatibilmente con il rispetto dei principi sottesi alla L. n. 40 del 2004.

5. Il decreto impugnato va pertanto cassato, nei limiti segnati dai motivi accolti, e, non risultando necessari ulteriori accertamenti di fatto, la causa può essere decisa nel merito, ai sensi dell’art. 384 c.p.c., comma 2, con il rigetto della domanda.

La peculiarità della questione trattata, che ha costituito oggetto di una complessa vicenda giurisprudenziale, giustifica l’integrale compensazione delle spese dei tre gradi di giudizio.

P.Q.M.

rigetta il primo motivo di ricorso, accoglie il secondo e il terzo motivo, cassa il decreto impugnato, in relazione ai motivi accolti, e, decidendo nel merito, rigetta la domanda. Compensa integralmente le spese processuali.

Dispone che, in caso di utilizzazione della presente sentenza in qualsiasi forma, per finalità di informazione scientifica su riviste giuridiche, supporti elettronici o mediante reti di comunicazione elettronica, sia omessa l’indicazione delle generalità e degli altri dati identificativi delle parti riportati nella sentenza.

Così deciso in Roma, il 16 giugno 2021.

Depositato in Cancelleria il 23 agosto 2021

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