LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE SECONDA CIVILE
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. ORILIA Lorenzo – Presidente –
Dott. BELLINI Ubalda – rel. Consigliere –
Dott. CASADONTE Annamaria – Consigliere –
Dott. BESSO MARCHEIS Chiara – Consigliere –
Dott. VARRONE Luca – Consigliere –
ha pronunciato la seguente:
ORDINANZA
sul ricorso 20831-2016 proposto da:
O.A. e OL.AL., rappresentati e difesi dagli Avvocati FABIO GUANDALINI e ALESSANDRO BOZZA ed elettivamente domiciliati, presso lo studio del secondo, in ROMA VIA NAZIONALE 204;
– ricorrenti –
contro
FIN-AR s.p.a., in persona del legale rappresentante Avv. Federica Fregni, rappresentata e difesa dagli Avvocati CESARE FINI, ALESSANDRA FINI e MARCO MORETTI, elettivamente domiciliata, presso lo studio di quest’ultimo, in ROMA VIA FLAMINIA 135;
– controricorrente –
avverso la sentenza n..828/2016 della CORTE di APPELLO di BOLOGNA, pubblicata il 17/05/2016;
udita la relazione della causa svolta, nella camera di consiglio del 25/03/2021, dal Consigliere Dott. BELLINI UBALDO.
FATTI DI CAUSA
Con atto di citazione, notificato in data 23.7.2001, O.A. e OL.AL. convenivano in giudizio davanti al Tribunale di Bologna la FIN-AR s.p.a. per sentirla condannare a rimuovere, a sue spese, alcuni manufatti, rappresentati da un cancello e una rete di recinzione, in quanto installati, abusivamente, su terreno di loro proprietà e’, più esattamente, sull’ultimo tratto della strada di ***** (di cui erano proprietari in via esclusiva) o, in subordine, perché venisse riconosciuto il loro diritto alla rimozione, a cure e spese proprie. Riferivano che le opere erano state installate di recente e che essi ne avevano preso conoscenza soltanto nel 2001, ossia poco prima della notifica della citazione.
Si costituiva in giudizio la Fin-Ar s.p.a. assumendo che le opere erano state realizzate nel 1995 con il consenso degli attori, come poteva desumersi, tra l’altro, dagli accordi conclusi tra le parti, che avevano portato alla costituzione di una servitù di transito in favore di essa convenuta sul tratto iniziale della stessa strada privata e successivamente alla sistemazione del tratto successivo verso monte, dove era stato collocato un secondo cancello; aggiungeva che i manufatti si erano resi necessari al fine di chiudere all’accesso esterno ad entrambe le proprietà, degli attori e di essa convenuta, ed impedire l’ingresso abusivo di estranei a monte delle stesse. Con domanda riconvenzionale, subordinata all’accoglimento della domanda attorea, la convenuta chiedeva la condanna degli attori al rimborso dei costi sopportati per la sistemazione della strada e la costruzione delle opere oggetto di eventuale rimozione.
Esperita l’attività istruttoria, con CTU e prove per testi, con sentenza n. 689/2009, depositata in data 6.2.2009, il Tribunale di Bologna respingeva entrambe le domande degli O.. In particolare, il Tribunale osservava che la fattispecie dovesse ricondursi alla previsione dell’art. 936 c.c. che, in tema di accessione, prevedeva, nell’ipotesi di costruzioni realizzate da un terzo, con materiali propri, sul fondo altrui, che il proprietario non potesse obbligare il terzo a rimuovere le costruzioni medesime se realizzate senza l’opposizione del proprietario o se eseguite dal terzo in buona fede. Riteneva che le prove orali avessero dimostrato l’esistenza di un consenso espresso all’installazione dei manufatti da parte di O.A. e che si potesse presumere anche il consenso dell’altro proprietario, Ol.Al., o, quantomeno, che questi ne fosse a conoscenza o potesse esserlo; usando la minima diligenza, giacché le opere erano chiaramente visibili, erano conosciute dal fratello A. ed erano state realizzate da diversi anni. Quanto alla domanda subordinata, il Tribunale escludeva il diritto degli attori di provvedere direttamente alla demolizione delle opere controverse assumendo che il consenso degli O., espresso e presunto, pur non integrando un elemento costitutivo di alcun diritto di servitù, per difetto di forma scritta, aveva avuto comunque l’effetto, meramente obbligatorio tra le parti del giudizio, di far sorgere in capo alla società convenuta il diritto personale di mantenimento dei manufatti da essa realizzati, per un interesse legato al fondo di sua proprietà.
Avverso detta sentenza gli O. proponevano appello, al quale resisteva la Fin-Ar s.p.a., reiterando la domanda riconvenzionale, subordinata all’accoglimento dell’appello, che il Tribunale aveva ritenuto assorbita dal rigetto delle domande attoree.
Con sentenza n. 828/2016, depositata in data 17/5/2016, la Corte d’Appello di Bologna rigettava l’appello e condannava i due appellanti, in solido tra loro, a rifondere all’appellata le spese del grado. In particolare, la Corte territoriale riteneva che le censure svolte dagli appellanti in ordine all’interpretazione delle dichiarazioni rese dai testimoni non fossero fondate, non sussistendo le pretese discordanze o contraddizioni tra le deposizioni testimoniali. Si richiamava la scrittura privata del 4.10.1995, con la quale gli O. si erano impegnati a costituire una servitù di elettrodotto in favore dell’ENEL sul loro fondo e Fin-Ar, come corrispettivo, si era obbligata a eseguire la completa, sistemazione della strada di proprietà dei confinanti e altre attività di manutenzione ordinaria e straordinaria, rinunciando a pretendere dagli O. compensi e/o indennità per tali lavori, in quanto utilizzati anche dagli appellanti a vantaggio della loro proprietà. Dunque, nelle argomentazioni difensive dell’appellata, tra le parti era intervenuto un accordo che, pur non riconducibile alla costituzione di una servitù, comportava l’obbligo degli O. di conservare i manufatti sul loro fondo, il che equivaleva a dedurre ex professo la nascita di un rapporto obbligatorio tra le parti. La Corte di merito riconosceva, con il primo Giudice, che dall’accordo intercorso tra le parti fosse derivato l’effetto meramente obbligatorio di far sorgere in capo all’appellata il diritto personale al mantenimento dei due manufatti, ancorché insistenti sul fondo degli appellanti. Avverso la sentenza propongono ricorso per cassazione O.A. e Ol.Al. in base a sei motivi. Resiste con controricorso la FIN-AR. Entrambe le parti hanno depositato memorie.
RAGIONI DELLA DECISIONE
1. – Con il primo motivo, i ricorrenti lamentano la “Violazione di legge: art. 132 c.p.c., comma 2, n. 4 e art. 118 disp. att. c.p.c. in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4,”, non sussistendo il ragionamento logico giuridico che giustifichi la discrepanza tra la scrittura del 4.10.1995, sottoscritta da entrambi i fratelli O., che secondo la Fin-Ar contemplava l’esecuzione di tutte le opere, e la statuizione del Tribunale, fatta propria dalla Corte d’Appello, che il consenso espresso, che la sentenza non collocava nel tempo, da O.A. per il cancello e la recinzione potesse presumersi dato anche da Ol.Al., che aveva firmato una scrittura, ove non comparivano tali opere; sicché l’inesistenza del ragionamento e la mancata collocazione nel tempo dei fatti determinerebbe la nullità della sentenza.
1.1. – Il motivo non è fondato.
1.2. – I ricorrenti si limitano a far discendere la nullità della sentenza impugnata dalla generica violazione dell’art. 132 c.p.c., comma 2, n. 4, che prevede che -la sentenza debba contenere la concisa esposizione delle ragioni di fatto e di diritto della decisione.
Al contrario, la sentenza impugnata motivava legittimamente e coerentemente, per ciascun motivo di appello, il corretto iter logico giuridico seguito per addivenire alla decisione finale, indicando compiutamente gli elementi dai quali il giudice d’appello aveva desunto il proprio convincimento, e confutando le questioni prospettate dagli O. in secondo grado, anche sulla scorta delle prove acquisite nel corso del giudizio di primo grado, fra le quali la scrittura privata del 4.10.1995 e le testimonianze escusse.
D’altronde, ai fini della sufficienza della motivazione della sentenza, il giudice non può, quando esamina i fatti di prova, limitarsi ad enunciare il giudizio nel quale consiste la sua valutazione, perché questo è il solo contenuto “statico” della complessa dichiarazione motivazionale, ma deve impegnarsi anche nella descrizione del processo cognitivo attraverso il quale è passato dalla sua situazione di iniziale ignoranza dei fatti alla situazione finale costituita dal giudizio, che rappresenta il necessario contenuto “dinamico” della dichiarazione stessa (Cass. n. 1236 del 2006; conf. Cass. n. 15964 del 2016).
La sentenza impugnata risultava, dunque, adeguatamente motivata, avendo indicato gli elementi dai quali i giudici di merito havevano tratto il proprio convincimento, ed avendo dunque, correttamente, ripercorso le dichiarazioni rese dai testimoni indotti dalla società resistente in primo grado, aventi tutte contenuto inequivoco circa la effettiva manifestazione del consenso di parte avversa alla realizzazione dei lavori in questione (cancello a monte e recinzione).
L’asserita inesistenza del ragionamento che avrebbe giustificato, secondo la tesi avversaria, l’esistenza del consenso (espresso di A. e presunto di Al.) alla realizzazione dei lavori, nonostante di questi non vi fosse traccia nella citata scrittura del 4.10.1995, così come la mancata collocazione nel tempo di detto consenso (se prima o dopo avere sottoscritto tale documento) appaiono dunque argomentazioni che non possono configurarsi come cause di nullità della sentenza impugnata, ex art. 132 c.p.c., comma 2, n. 4.
La Corte d’Appello rilevava altresì che gli O. non avevano mosso alcuna critica ai motivi con i quali il Tribunale, acclarato il consenso espresso di A., aveva ritenuto raggiunta la prova presuntiva di un consenso anche di Al., tenuto conto della visibilità delle opere e della loro conoscenza da parte del fratello. Il motivo è inammissibile anche sotto tale profilo, avendo i ricorrenti messo in discussione un ragionamento in fatto da parte del Giudice di prime cure sul quale shcloveva ritenersi già formato il giudicato per acquiescenza tacita qualificata ai sensi dell’art. 329 c.p.c., comma 2.
2. – Con il secondo motivo, i ricorrenti deducono la “Violazione di legge: artt. 2725,1350 e 1351 c.c. in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3”, osservando che che la scrittura del 4.10.1995 consacrava un contratto che richiede la forma scritta ad substantiam, giacché gli O. si impegnavano a costituire una servitù di elettrodotto sul loro terreno a favore dell’Enel, nell’interesse della Fin-Ar che, quale corrispettivo del peso che sarebbe stato imposto dall’Enel sulla loro strada, rinunciava a richiedere agli O. il rimborso delle spese dalla stessa sostenute per la sistemazione della strada di loro proprietà. Ora la costituzione e/o la promessa di costituzione di un diritto reale debbono rivestire ex artt. 1350 e 1351 c.c., la forma scritta: non è ammissibile ex art. 2725 c.c., provare per testi un contenuto diverso maggiore di quello consacrato nella scrittura de qua che prevedeva l’installazione di un solo cancello, quello a valle, e non prevedeva l’installazione di un altro cancello, quello a monte, e la realizzazione di una recinzione, manufatti che non avevano, inoltre, la funzione di migliorare la rete stradale, ma erano destinati alla protezione e alla sicurezza della proprietà privata della Fin-Ar. Se oggetto del contratto fosse stato anche la realizzazione del cancello a monte e questo fosse già stato costruito, la Fin-Ar avrebbe dovuto consegnare due chiavi e non una, come risulta dall’ultimo periodo del patto 4 della scrittura suddetta. E proprio dall’assunto della resistente (che prima avrebbe avuto un consenso verbale dagli O., che successivamente, a opera completata, avrebbero ratificato l’operato di Fin-Ar con la scrittura del 4.10.1995) che nella scrittura sarebbero dovute comparire tra le opere pattuite anche il cancello a monte e la recinzione; per cui dette opere sarebbero state costruite successivamente e abusivamente in violazione dei patti.
2.1. – Il motivo non è fondato.
2.2. – La scrittura privata del 4.10.1995, con la quale gli O. si erano impegnati a costituire la servitù di elettrodotto sul fondo di loro proprietà, in realtà rivestiva la forma scritta, in quanto alla costituzione della suddetta servitù si era addivenuti con atto notarile del 16.10.1995. In ogni caso, la giurisprudenza della Suprema Corte ha chiarito che (per giungere alla reale ricostruzione della volontà delle parti, nell’interpretazione del contratto) può farsi ricorso alla prova testimoniale, anche quando si tratti di contratto per il quale è richiesta la forma scritta. Sicché, anche quando è richiesta a pena di nullità la forma scritta, il giudice ha la possibilità di “ammettere ugualmente la prova testimoniale, allorquando questa, secondo il suo incensurabile apprezzamento, serva soltanto a chiarire la volontà” delle parti (Cass. n. 1337 del 1987; coni. Cass. n. 7635/1996; Cass., n. 4439 del 1884; Cass. n. 488 del 1979; Cass. n. 84 del 1978; Cass. n. 2505 del 1972; Cass. n, 2299 del 1967; Cass. n. 1106 del 66) (v. giurisrudenza sub n. 3.2).
I ricorrenti sostengono, altresì, che, se i manufatti fossero stati realizzati all’epoca della scrittura privata, la resistente avrebbe dovuto consegnare due chiavi per l’apertura di entrambi cancelli (quello a valle e quello a monte). Ma anche sotto questo aspetto il motivo è inammissibile in quanto viene prospettato un fatto nuovo. In ogni modo, la controricorrente evidenziava che che gli O. potevano accedere al fondo di loro proprietà sia tramite il cancello carrabile a valle, sia dalla vicina Via Villari, accesso per loro sicuramente più agevole.
3. – Con il terzo motivo, i ricorrenti censurano la “Violazione di legge: art. 1362 c.c. in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3”, la dove la Corte territoriale riteneva che, nelle argomentazioni difensive dell’appellata, tra le parti fosse intervenuto un accordo che comportava l’obbligo degli O. di conservare i manufatti sul loro fondo, il che comportava la nascita di un rapporto obbligatorio tra le parti. In questo modo la Corte di merito violava l’art. 1362 c.c., dimenticando che la comune volontà delle parti deve trarsi esclusivamente dal contratto, potendo il ricorso a elementi a esso estranei essere consentito al solo fine di chiarire l’intento manifestato, non potendo essere utilizzato per supplire alla volontà mancante o per integrarla. La violazione dell’art. 1362 c.c. sarebbe ancor più rilevante in quanto, trattandosi di contratto che prevede la forma scritta ad substantiam, la comune intenzione delle parti deve essere espressamente manifestata nell’atto scritto. Non rinvenendosi nella scrittura un riferimento al cancello a monte e alla recinzione, risultava escluso che le parti avessero voluto pattuire che gli O. fossero obbligati a conservare i manufatti sul loro fondo.
3.1. – Il motivo è fattuale.
3.2. – La Corte d’Appello richiamava le difese della Fin-Ar s.p.a. in ordine al diritto al mantenimento dei manufatti in oggetto, nell’esaminare il secondo motivo di appello proposto dagli O. (sentenza impugnata pag. 5), ovverosia l’asserito vizio di ultrapetizione in cui sarebbe incorso il Tribunale, che avrebbe fatto discendere il diritto in capo alla Fin-Ar ai mantenimento delle opere, in assenza di una deduzione in tal senso da parte di quest’ultima.
La norma invocata dai ricorrenti (art. 1362 c.c.) non si limita ad affermare che la comune volontà delle parti deve trarsi esclusivamente dal contratto, ma che nell’interpretare il contratto si deve indagare quale sia la comune intenzione delle parti e non limitarsi al senso letterale delle parole. La qual cosa (oltre ad attingere al principio giurisprudenziale per cui anche quando è richiesta a pena di nullità la forma scritta, il giudice ha la possibilità di ammettere ugualmente la prova testimoniale; v. sub n. 2.2.) ne amplia funzionalmente la portata. Sicché, nei contratti per i quali è prevista la forma scritta ad substantiam, la ricerca della comune intenzione delle parti, utilizzabile ove il senso letterale delle parole presenti un margine di equivocità, deve essere compiuta, con riferimento agli elementi essenziali del contratto, soltanto attingendo alle manifestazioni di volontà contenute nel testo scritto, mentre non è consentito valutare il comportamento complessivo delle parti, anche successivo alla stipulazione del contratto, in quanto non può spiegare rilevanza la formazione del consenso ove non sia stata incorporata nei documento scritto (cfr. Cass. n. 5112 del 2018; Cass. n. 14444 del 2006; Cass. n. 2216 del 2004).
Tale indagine era stata compiuta dalla Corte d’Appello, la quale coerentemente statuiva che il consenso espresso dagli O. “non si limitasse alla realizzazione delle opere, ma desse vita a un accordo in forza del quale i due O. si impegnavano a mantenere cancello e rete di recinzione sul loro fondo nei confronti della società proprietaria del fondo finitimo, ravvisando la causa dell’accordo nell’interesse di FIN-AR S.p.A. legato al fondo di sua proprietà”.
4. – Con il quarto motivo, i ricorrenti lamentano la “Violazione di legge: art. 112 c.p.c. in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4”, là dove con l’atto di appello gli O. contestavano che il Tribunale fosse andato ultra petita, in quanto, senza alcuna eccezione formulata dalla Fin-Ar per respingere la domanda di rimozione, aveva statuito che la stessa avesse il diritto di mantenere i manufatti realizzati sul terreno degli O.. La Corte respingeva l’eccezione di ultrapetizione ritenendo che, nelle argomentazioni difensive dell’appellata, tra le parti fosse intervenuto un accordo che comportava l’obbligo degli O. di conservare i manufatti sul loro fondo; la qual cosa comportava la nascita di un rapporto obbligatorio tra le parti; inoltre, la Corte territoriale rilevava d’ufficio un’eccezione, peraltro mai sollevata dalla resistente.
4.1. – Il motivo è fattuale.
4.2. – I Giudici di merito non incorrevano in alcun vizio di ultrapetizione in quanto la Fin-Ar aveva fin da subito eccepito, con comparsa di costituzione nel giudizio di primo grado, e con le memorie autorizzate, l’infondatezza delle domande attoree, ritenendo che tra le parti fossero intercorsi specifici accordi in ordine all’installazione dei manufatti per cui è causa, ma anche in relazione all’interesse della resistente al mantenimento delle stesse finalizzato a esercitare un più che mai legittimo diritto ai godimento della sua proprietà (evidenzindosi altresì che, con la più volte citata scrittura del 4.10.1995 la Fin-Ar si era accollata l’intero costo della sistemazione della strada, pari a quasi Euro 43.000,00 solo per il tratto di strada di proprietà degli O. a fronte del diritto al mantenimento delle opere realizzate). La Corte di merito correttamente recepiva l’accertamento compiuto dal Giudice di primo grado, il quale aveva affermato che il consenso avesse comunque l’effetto, meramente obbligatorio tra le parti, di far sorgere in capo alla Fin-Ar s.p.a. il diritto personale al mantenimento dei manufatti realizzati a proprie cure e spese, per un interesse legato al fondo di cui essa è intestataria.
5. – Con il quinto motivo, i ricorrenti deducono la “Violazione di legge: art. 832 c.c. e principi generali dell’ordinamento, nonché art. 1325 c.c. in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3” poiché i Giudici di merito, ritenuto erroneamente intervenuto tra le parti un rapporto obbligatorio, avrebbero dovuto dichiararne la nullità in quanto strutturato senza limitazioni di tempo. Il preteso patto confligge con la norma generale dell’art. 832 c.c., che non pone limiti al godimento pieno ed esclusivo del diritto di proprietà, mentre l’imposizione con il suddetto patto di mantenere il cancello a monte e la recinzione limita il diritto di proprietà dei ricorrenti.
5.1. – Il motivo non è fondato.
5.2. – La Corte d’Appello ha correttamente posto in rilievo recisato che i rapporti obbligatori non sono tipici e possono anche assumere il contenuto proprio di un corrispondente rapporto reale e tradursi in un obbligo di patì a carico del proprietario di un fondo in favore del proprietario del fondo finitimo, senza assumere i requisiti della realità o inerenza al fondo (sentenza, pag. 11). Inoltre, il Giudice d’appello addiveniva alla propria pronuncia dopo aver esaminato le scritture in atti e le numerose e concordanti deposizioni dei testimoni, delle quali non si faceva più menzione nel presente ricorso, nonostante gli O. avessero tentato, in grado di appello, di minarne l’attendibilità e la precisione. Pertanto, gli accertamenti compiuti dalla Corte di merito in relazione alle prove testimoniali e a conferma del consenso espresso di A. e presunto di Al., circa la realizzazione delle opere in questione, dovevano ritenersi ormai in giudicato. Infine, si sottolineava che la causa dell’accordo tra le parti andava ravvisata nell’interesse concreto e tuttora attuale della resistente a salvaguardare la sicurezza dei luoghi impedendo l’accesso a terzi estranei tramite la recinzione e Il cancello a monte della strada.
6. – Con il sesto motivo, i ricorrenti censurano la “Violazione di legge: art. 936 c.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3” osservando che, se essi non avevano il diritto di ottenere la rimozione dei manufatti da parte della resistente, avevano comunque il diritto di rimuovere le opere in questione costruite sul loro suolo, opere che per accessione sono diventate di loro esclusiva proprietà, giacché la Fin-Ar non ha alcun diritto né sul fondo né sui manufatti.
6.1. – Il motivo è infondato.
6.2. – Dall’istruttoria espletata in primo grado risulta che i ricorrenti fossero a conoscenza dell’installazione dei manufatti in questione; che i lavori erano perfettamente visibili da chiunque passasse nei pressi della strada e che la durata dei lavori si era concentrata fra il 1993 e la fine del 1995.
La controricorrente aveva pertanto assolto l’onere probatorio sulla stessa incombente, mentre la ricorrente s’era limitata a sostenere di essersi accorta dell’esistenza dei manufatti solo nell’aprile 2001, ma tale affermazione è stata pienamente smentita da tutti i testimoni sentiti. Si richiama la giurisprudenza di legittimità secondo la quale, in caso di attività edificatoria intrapresa da un terzo, con materiali propri, sul fondo altrui, il proprietario di quest’ultimo, entro 6 mesi dalla notizia dell’avvenuta incorporazione, può manifestare l’intendimento di opporsi all’illecita invasione della propria sfera dominicale (Cass. n. 141 del 2016; Cass. n. 1506 del 1999).
Nella fattispecie, i ricorrenti sono decaduti dalla facoltà di esercitare lo ius tollendi, sia in quanto era stato provato il consenso dei medesimi, sia in quanto era decorso il termine di sei mesi previsto dall’art. 936 c.c. Se anche fosse vero, come ex adverso asserito, che l’art. 936 c.c. non impone a carico del proprietario di un fondo un obbligo perpetuo di mantenere le opere realizzate dal terzo, è altrettanto vero che, nella fattispecie, le parti avevano raggiunto accordi, prima orali e poi confermati nella scrittura richiamata, che esulano dal principio generale suddetto; Trattandosi di diritti disponibili tali per cui le parti possono, manifestando i rispettivi consensi, addivenire a patti diversi rispetto a quanto sancito da una norma non avente carattere imperativo.
7. – Il ricorso va pertanto rigettato. Le spese seguono la soccombenza e si liquidano come da dispositivo. Va emessa altresì la dichiarazione di cui al D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1-quater.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso. Condanna i ricorrenti alla refusione delle spese di lite in favore della controricorrente che liquida in complessivi Euro 3.700,00 di cui Euro 200,00 per rimborso spese vive, oltre al rimborso forfettario spese generali, in misura del 15%, ed accessori di legge. Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1-quater, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte dei ricorrenti, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis, se dovuto.
Così deciso in Roma, nella Camera di Consiglio della seconda sezione civile della Corte Suprema di Cassazione, il 25 marzo 2021.
Depositato in Cancelleria il 31 agosto 2021
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