LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE SECONDA CIVILE
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. GORJAN Sergio – Presidente –
Dott. BELLINI Ubalda – Consigliere –
Dott. CARRATO Aldo – rel. Consigliere –
Dott. PICARONI Elisa – Consigliere –
Dott. CRISCUOLO Mauro – Consigliere –
ha pronunciato la seguente:
SENTENZA
sul ricorso (iscritto al N. R.G. 19190/2016) proposto da:
AVV. L.M.C. (C.F.: *****), rappresentata e difesa, in virtù di procura speciale rilasciata su foglio separato allegato al ricorso, dall’Avv. Romano Vaccarella ed elettivamente domiciliata presso il suo studio, in Roma, C.so V. Emanuele II, n. 269;
– ricorrente –
contro
LABORATORIO ANALISI CLINICHE Dott. A.V. & FIGLI s.n.c.
(P.I.: *****), in persona del legale rappresentante pro-tempore, rappresentata e difesa, in virtù di procura speciale rilasciata su foglio separato allegato al controricorso, dagli Avv.ti Daniela Mazzuca e Guido Cammarella ed elettivamente domiciliato presso lo studio dell’Avv. Annita Cammarella, in *****;
– controricorrente –
avverso la sentenza della Corte di appello di Lecce – Sez. dist. di Taranto n. 266/2016 (pubblicata il 16 maggio 2016);
udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del 13 maggio 2021 dal Consigliere relatore Dott. Carrato Aldo;
letta la memoria depositata dalla difesa della controricorrente ai sensi dell’art. 380-bis c.p.c., comma 1.
RITENUTO IN FATTO
1. Con sentenza n. 777/2013 il Tribunale monocratico di Taranto accoglieva, per quanto di ragione, l’opposizione proposta dal Laboratorio Analisi cliniche del Dott. A.V. & figli s.n.c. avverso il decreto ingiuntivo n. 403/2007, emesso per il pagamento, in favore dell’avv. L.M.C., della somma di Euro 3.875,72, oltre accessori e spese legali, a titolo di compenso per l’espletamento dell’attività professionale svolta, su mandato del predetto Laboratorio, in una controversia amministrativa svoltasi dinanzi al TAR Calabria contro la Regione Calabria e l’Ausl Cosenza *****. La parziale fondatezza dell’opposizione veniva ritenuta giustificata sul presupposto che per la controversa attività professionale – effettuata unitariamente anche nell’interesse di altre 18 strutture associate – dovevano essere applicati i minimi tariffari con l’aumento previsto dal D.M. n. 127 del 2004, art. 5, comma 4, (riconoscendosi anche la particolare complessità della causa), ragion per cui il credito professionale vantato andava ridotto alla misura di Euro 736,52, con la conseguente revoca del decreto ingiuntivo.
2. Decidendo sull’appello formulato dal citato Laboratorio Analisi cliniche del Dott. A.V. & figli s.n.c., resistito dall’appellata, la Corte di appello di Lecce-sez. dist. di Taranto, con sentenza n. 266/2016 (pubblicata il 16 maggio 2016), accoglieva il gravame e, per l’effetto, in parziale riforma dell’impugnata sentenza, rigettava integralmente la domanda proposta (nelle forme del ricorso per decreto ingiuntivo) dall’avv. L. nei confronti del suddetto Laboratorio, con condanna dell’appellata al pagamento delle spese di entrambi i gradi di giudizio (ma con il rigetto della richiesta di condanna al risarcimento ex art. 96 c.p.c., pure avanzata dall’appellante).
A fondamento dell’adottata decisione, la Corte tarantina premetteva in punto di fatto, che, successivamente alla proposizione del ricorso amministrativo, l’appellante aveva revocato il mandato “ad litem” conferito all’appellata, che doveva considerarsi passata in giudicato la statuizione relativa all’applicabilità dei minimi tariffari pattuiti e che il compenso andata rideterminato in senso riduttivo, tenuto conto della insussistenza delle condizioni per il riconoscimento della maggiorazione dell’onorario ai sensi del D.M. n. 127 del 2004, art. 5, comma 4, (da ricondurre all’esercizio di una facoltà discrezionale da parte del giudice). Sulla scorta di ciò ed in difetto della prova di altre attività professionali svolte dall’avv. L., il giudice di appello quantificava il compenso complessivamente alla stessa dovuto dai 19 assistiti in Euro 3.443,99, al netto della ritenuta d’acconto, donde la spettanza, in suo favore, dell’importo di Euro 181,26 da parte di ciascuno dei medesimi assistiti e, poiché era rimasto riscontrato che l’appellato Laboratorio aveva corrisposto alla professionista legale la somma di Euro 500,00 a titolo di acconto, nulla era più dovuto alla stessa dal medesimo Laboratorio, con conseguente totale infondatezza della sua pretesa creditoria.
3. Avverso la citata sentenza di appello ha proposto ricorso per cassazione, affidato a sei motivi, l’avv. L.M.C..
L’intimato Laboratorio Analisi cliniche del Dott. A.V. & figli s.n.c. si è costituito con controricorso, illustrato da memoria depositata ai sensi dell’art. 380-bis c.p.c., comma 1.
CONSIDERATO IN DIRITTO
1. Il primo motivo reca la rubrica “Sull’inammissibilità dell’appello” ma non indica alcuna specifica violazione di legge oggetto di ricorso per cassazione, lamentando la ricorrente – nello svolgimento dello stesso – che il giudice di secondo grado avrebbe dovuto dichiarare inammissibile l’appello per violazione dell’art. 342 c.p.c., comma 1, nn. 1 e 2, così, in effetti, riproponendo il medesimo motivo formulato con la comparsa di costituzione e risposta nel giudizio di appello.
2. Con la seconda censura la ricorrente ha denunciato – ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3 e 4 – la violazione o falsa applicazione del D.M. n. 127 del 2004, art. 6, comma 5, nonché dell’art. 2909 c.c. e art. 324 c.p.c., sul presupposto della sostenuta erroneità dell’impugnata sentenza nella parte in cui era stata ritenuta passata in giudicato la statuizione sull’applicazione dei minimi tariffari, scindendo la decisione del giudice di primo grado secondo cui l’applicazione (pacifica) di detti minimi era compatibile con il – e non precludeva, quindi, l’applicazione anche del – criterio relativo alla complessità della controversia.
3. Con la terza doglianza la ricorrente ha prospettato la violazione o falsa applicazione del D.M. n. 127 del 2004, art. 6, comma 5, ultima parte, oltre che dell’art. 2697 c.c., asserendo che, con l’impugnata sentenza, la Corte di appello aveva rilevato che non era stato possibile valutare l’effettiva complessità della causa non risultando prodotti i relativi atti, obliterando, però, la circostanza che tale presupposto avrebbe dovuto essere considerato sussistente sulla base dell’oggetto della lite.
4. Con il quarto mezzo la ricorrente ha denunciato – in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3 – la violazione o falsa applicazione del D.M. n. 127 del 2004, art. 5, comma 4, per effetto della supposta erroneità dell’impugnata sentenza nella parte in cui aveva ritenuto che, sulla scorta di detta norma, avrebbe dovuto ritenersi applicabile il principio generale secondo cui non spetta la maggiorazione dell’onorario dell’avvocato in relazione al numero delle parti assistite, principio derogabile solo in presenza della dimostrazione della peculiarità delle difese spiegate da ciascuna delle parti assistite.
5. Con il quinto motivo la ricorrente la ricorrente ha dedotto – avuto riguardo all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3 – la violazione o falsa applicazione degli artt. 91 e 92 c.p.c. poiché la Corte di appello, respingendo il motivo dell’appellante in ordine alla richiesta di risarcimento di condanna della controparte ai sensi dell’art. 96 c.p.c., non avrebbe potuto applicare il principio della totale soccombenza al fine della regolazione delle spese di entrambi i gradi di giudizio, dovendo ritenersi quantomeno sussistenti le condizioni per pervenire alla declaratoria di una parziale soccombenza.
6. Con la sesta ed ultima censura la ricorrente ha denunciato – ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3 – la violazione o falsa applicazione del D.M. n. 55 del 2014, con riferimento alla illegittimità dell’entità della sua condanna alle spese, non avendosi avuto riguardo al solo parziale accoglimento dell’appello e, quindi, alla mancata considerazione del contenuto effettivo della decisione (in base, per l’appunto, al criterio del c.d. “decisum”).
7. Rileva il collegio che il primo motivo è inammissibile sia perché con esso, in effetti, non risulta dedotta una specifica violazione riconducibile ad uno dei motivi previsti dall’art. 360 c.p.c., sia perché, in ogni caso, ove anche si volesse ritenere proposta la violazione dell’art. 342 c.p.c. (sussumibile sotto il n. 4 dell’art. 360 c.p.c., comma 1), il motivo difetta di specificità, non risultando riportato il contenuto dei motivi di appello ritenuti, in via preliminare, dal giudice di secondo grado rispettosi del dettato dello stesso art. 342 c.p.c..
A tal proposito si ricorda che la giurisprudenza di questa Corte (cfr., tra le più recenti, Cass. n. 22880/2017 e Cass. n. 29495/2020) è pacifica nel ritenere che il principio di necessaria specificità del ricorso per cassazione – che trova la propria ragion d’essere nella necessità di consentire al giudice di legittimità di valutare la fondatezza del motivo senza dover procedere all’esame dei fascicoli di ufficio o di parte – trova applicazione anche in relazione ai motivi di appello rispetto ai quali siano contestati errori da parte del giudice di merito. Da ciò consegue che, ove il ricorrente denunci la violazione e falsa applicazione dell’art. 342 c.p.c., che si assuma derivante dalla mancata declaratoria di nullità dell’atto di appello per genericità dei motivi, deve riportare nel ricorso, nel loro impianto specifico, i predetti motivi formulati dalla controparte, poiché l’esercizio del potere di diretto esame degli atti del giudizio di merito, riconosciuto al giudice di legittimità ove sia denunciato un “error in procedendo” presuppone comunque l’ammissibilità del motivo di censura, onde il ricorrente non è dispensato dall’onere di specificare (a pena, appunto, di inammissibilità) il contenuto della critica mossa alla sentenza impugnata, indicando anche specificamente i fatti processuali alla base dell’errore denunciato, e tale specificazione deve essere contenuta nello stesso ricorso per cassazione, proprio per assicurare il rispetto del principio di autosufficienza di esso.
8. Il secondo motivo è da ritenere infondato perché, innanzitutto, con esso non si contesta in modo specifico il fatto del passaggio in giudicato della statuizione sulla ritenuta operatività dell’accordo tra le parti in ordine all’applicazione dei minimi tariffari (oltretutto non risultata attinta con uno specifico motivo di appello incidentale), bensì l’assunta contraddizione tra la rilevata applicabilità di tali tariffe e la riconoscibilità, tuttavia, della maggiorazione in virtù della particolare importanza della questione trattata dalla ricorrente.
Senonché, oltre a rilevare che, nella sostanza, appare dedotto più un vizio di contraddittorietà della motivazione (non più ammissibile ai sensi del novellato n. 5 dell’art. 360 c.p.c.) che una violazione di legge, va evidenziato che la ravvisata intangibilità – per effetto del rilevato giudicato – dell’accordo sull’applicabilità dei minimi tariffari non può affatto dirsi incompatibile con la riconoscibilità della spettanza della maggiorazione di cui al D.M. n. 127 del 2004, art. 6, comma 5, in relazione alla possibile rilevazione (ove rappresentata) dell’importanza della causa.
9. Anche la terza censura è priva di fondamento poiché la Corte di appello ha, nell’impugnata sentenza, fermo restando che l’avv. L. non aveva riscontrato documentalmente in che cosa consistesse la particolare complessità della controversia (indipendentemente dalla sua natura), correttamente ritenuto che, nel caso in esame, dovesse trovare applicazione, in modo assorbente, il principio generale – emergente dal D.M. n. 127 del 2004, ‘art. 5, comma 4, – della non spettanza della maggiorazione dell’onorario, non ricorrendo specifiche ragioni, e che solo nel caso in cui esse fossero sussistite essa avrebbe avuto l’obbligo di motivare l’esercizio della relativa facoltà.
10. Pure la quarta doglianza non coglie nel segno e deve essere respinta per le stesse ragioni di cui al precedente motivo sul presupposto della sostanziale equiparazione tra il contenuto del D.M. n. 585 del 1994, art. 5, comma 4 e del D.M. n. 127 del 2004, art. 5, comma 4, (quest’ultimo applicabile “ratione temporis” nella fattispecie e, quindi, correttamente ed effettivamente preso in considerazione dalla Corte di appello).
11. Il quinto motivo è anch’esso infondato e va rigettato dal momento che, legittimamente, il giudice di appello ha applicato il principio della soccombenza di cui all’art. 91 c.p.c., coniugato con quello di causalità, tenendo conto del risultato definitivo raggiunto con l’adottata sentenza, con la quale è stata respinta per intero la domanda di pagamento delle competenze professionali dell’avv. L., non incidendo sul punto – ai fini della complessiva regolazione delle spese giudiziali – il rigetto di quella che è un’ istanza (come formulata dall’appellante) di possibile verifica, da parte del giudice, della sussistenza, in una causa già instaurata (con carattere, perciò, endoprocessuale), delle ragioni per l’applicazione dell’art. 96 c.p.c., tanto è vero che essa non può costituire oggetto di un’azione autonoma.
In senso conforme la più recente e condivisibile giurisprudenza di questa Corte (v. Cass. n. 9532/2017 e Cass. n. 11792/2018) ha, in proposito, chiarito che il rigetto, in sede di gravame, della domanda, meramente accessoria, ex art. 96 c.p.c., a fronte dell’integrale accoglimento di quella di merito proposta dalla stessa parte, in riforma della sentenza di primo grado, non configura un’ipotesi di parziale e reciproca soccombenza, né in primo grado né in appello, sicché non può giustificare la compensazione delle spese di lite ai sensi dell’art. 92 c.p.c..
12. Il sesto ed ultimo motivo deve essere pur esso rigettato perché la Corte di appello ha, nell’impugnata sentenza, ai fini della liquidazione delle spese giudiziali del doppio grado poste a carico della soccombente appellata, applicato i parametri tariffari in concreto vigenti, tenuto conto – si badi – dell’effettivo valore della controversia e, soprattutto, della complessiva attività difensiva svolta in concreto nell’interesse dell’odierna parte controricorrente, in relazione al D.M. n. 55 del 2014, art. 4, comma 1. E’ infatti risaputo che, in tema di liquidazione delle spese processuali successiva all’entrata in vigore del citato D.M., non trova fondamento normativo un vincolo alla determinazione secondo i valori medi ivi indicati, dovendo il giudice solo quantificare il compenso tra il minimo ed il massimo delle tariffe, dando conto quantomeno in via essenziale – delle ragioni giustificative della liquidazione effettuata, che possono essere correlate alla complessità dell’attività difensiva ed assistenziale globalmente eseguita per ogni grado di giudizio e con esplicitazione della relativa quantificazione per ognuno di esso (come ha fatto la Corte di appello con la sentenza qui impugnata).
13. In definitiva, sulla scorta delle ragioni complessivamente esposte, il ricorso deve essere integralmente respinto, con la conseguente condanna della ricorrente al pagamento delle spese del presente grado, che si liquidano nei sensi di cui in dispositivo, con attribuzione ai difensori della controricorrente che si sono dichiarati anticipatari.
Infine, ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, occorre dare atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte della ricorrente, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per i corrispondenti ricorsi, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis se dovuto.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento delle spese del presente giudizio, liquidate in Euro 1700,00, di cui Euro 200,00 per esborsi, oltre contributo forfettario, iva e cpa nella misura e sulle voci come per legge, con distrazione in favore dei difensori della controricorrente.
Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte della ricorrente, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per i rispettivi ricorsi, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis, se dovuto.
Così deciso in Roma, nella Camera di Consiglio della 2 Sezione civile, il 13 maggio 2021.
Depositato in Cancelleria il 31 agosto 2021
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