LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE TERZA CIVILE
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. FRASCA Raffaele – Presidente –
Dott. SCARANO Luigi Alessandro – Consigliere –
Dott. SCRIMA Antonietta – rel. Consigliere –
Dott. IANNELLO Emilio – Consigliere –
Dott. MOSCARINI Anna – Consigliere –
ha pronunciato la seguente:
ORDINANZA
sul ricorso 12393-2019 proposto da:
M.G., domiciliato in ROMA, PIAZZA CAVOUR, presso la CORTE DI CASSAZIONE, rappresentato e difeso dall’avvocato MARIAGRAZIA CARUSO;
– ricorrente –
contro
G.A., in proprio e nella qualità di erede di G.S., nonché S.A., e G.C., eredi di G.S., elettivamente domiciliati in ROMA, VIA COSSERIA N. 2, presso lo studio dell’avvocato SALVATORE VITTORIO, che li rappresenta e difende;
– controricorrenti –
avverso la sentenza n. 305/2019 della CORTE D’APPELLO di CATANIA, depositata il 12/02/2019;
udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del 11/03/2021 dal Consigliere Dott. ANTONIETTA SCRIMA.
FATTI DI CAUSA
Nel 2004 M.G. convenne in giudizio, innanzi al Tribunale di Catania, sezione staccata di Mascalucia, S. e G.A., chiedendone la condanna, in solido, al risarcimento dei danni per la somma di Euro 250.000,00, asseritamente causati nell’espletamento di un incarico professionale, conferito a G.S., geometra, nel quale il professionista aveva coinvolto anche il figlio A..
L’attore, premesso di aver conferito a G.S. l’incarico di richiedere l’autorizzazione per il cambio di destinazione d’uso di un immobile di sua proprietà, originariamente adibito a cinema, di eseguire le opere interne per suddividerne la superficie utile e per la “catastazione” dei locali, espose che non solo il professionista incaricato aveva predisposto progetti errati ma aveva fatto firmare parte della documentazione al figlio G.A., al quale non aveva mai conferito alcun incarico; rappresentò di non aver potuto vendere alcune unità immobiliari in quanto “malamente frazionate” e di aver dovuto restituire il doppio della caparra relativa al preliminare di vendita in favore di terzi di un’unità immobiliare, la cui estensione era maggiore di quella risultante catastalmente a causa di un errore commesso da G.S.; relativamente a quest’ultimo immobile, il M. precisò, in particolare, di aver chiesto il maggior prezzo – in considerazione della maggiore effettiva estensione del bene rispetto a quella “catastata” da G.S. – che il terzo promissario acquirente non aveva voluto corrispondere, con conseguenti risoluzione del contratto e restituzione del doppio della caparra.
I convenuti, costituitisi in giudizio, eccepirono, in via preliminare, l’intervenuta prescrizione del diritto al risarcimento, e contestarono, altresì, la fondatezza degli addebiti loro mossi.
Il Tribunale di Catania, sezione staccata di Mascalucia, rigettò la domanda attorea per intervenuta prescrizione di ogni pretesa risarcitoria.
Avverso detta sentenza il M. propose appello, del quale gli appellati, costituendosi in secondo grado, chiesero il rigetto.
Nel corso del giudizio di appello, la Corte territoriale dichiarò l’interruzione del processo per morte di G.S.; il processo venne quindi riassunto dall’appellante e si costituirono in giudizio gli eredi del de cuius, S.A., G.C. e G.A., quest’ultimo già parte del giudizio, in proprio.
La Corte di appello di Catara, con sentenza n. 305 del 12 febbraio 2019, rigettò l’impugnazione e condannò l’appellante alle spese di quel grado.
Avverso detta sentenza M.G. ha proposto ricorso per cassazione, basato su due motivi.
G.A., S.A. e G.C., il primo in proprio e tutti nella qualità di eredi di G.S., hanno resistito con controricorso illustrato da memoria.
RAGIONI DELLA DECISIONE
1. Con il primo motivo si denunzia la “violazione dell’art. 2947 c.c. in relazione all’art. 2935 e 2946 c.c.; violazione degli artt. 2232 c.c. e art. 1228 c.c. in relazione all’art. 2043 c.c. in relazione all’art. 360, n. 3 e 5”.
Sostiene il ricorrente che la sentenza impugnata sarebbe errata nella parte in cui ha ritenuto che il primo giudice avesse correttamente rilevato l’intervenuta prescrizione del diritto al risarcimento del danno nei confronti di G.S..
Assume il ricorrente che il termine di prescrizione decennale applicabile nella specie, trattandosi di responsabilità contrattuale, sarebbe iniziato a decorrere non dal momento in cui la condotta del professionista avrebbe determinato l’evento dannoso bensì dal momento in cui si sarebbe manifestato all’esterno, precisando che l’incarico de quo sarebbe stato conferito a G.S. nel 1986 (v. ricorso p. 18, ma nel medesimo ricorso si indica pure il 1987 come anno di conferimento dell’incarico, v. p. 2) e che solo nel 2001, a seguito del deposito della relazione del C.T.U. V., in altro giudizio, si sarebbe reso conto dei gravi errori e delle gravi negligenze commessi dai convenuti G..
Pertanto, ad avviso del ricorrente, alcun rilievo dovrebbe attribuirsi alle affermazioni degli appellali di cui alla comparsa di costituzione del 25 marzo 2015, prive di riscontro probatorio, secondo cui: a) il M. avrebbe curato personalmente il deposito presso gli uffici; b) al medesimo si sarebbe rivolto il Comune di Tremestieri Etneo; c) l’incarico avrebbe avuto ad i oggetto solo la redazione e non la presentazione dell’istanza, perché il M., al fine di ridurre le spese, avrebbe seguito personalmente l’iter burocratico.
Secondo il ricorrente, la Corte territoriale avrebbe anche omesso di esaminare che G.A. – figlio di S. e anch’egli geometra – avrebbe depositato nel 1993, sempre per conto del M., documentazione richiesta dal Comune. Inoltre, risulterebbero dalla consulenza tecnica espletata nel giudizio di primo grado non solo il nesso causale tra la condotta dei professionisti e il danno ma anche la mancata conclusione – al momento della redazione della predetta consulenza – delle attività del mandato, con il raggiungimento degli obiettivi per i quali era stato affidato l’incarico.
1.1. Il motivo è inammissibile sotto vari profili.
1.1.1. Ed invero con il mezzo all’esame il ricorrente non denuncia in alcun modo, né sotto il profilo della violazione né sotto quello della falsa applicazione, i profili in iure evocati nella intestazione, in particolare non esamina il contenuto precettivo delle norme richiamate in rubrica né lo raffronta con le affermazioni in diritto contenute nella sentenza impugnata, al fine di dimostrare che queste ultime contrastano col precetto normativo, ma si limita a postulare un diverso decorso del termine di prescrizione sulla base della valutazione di alcuni documenti, riguardo ai quali, incorrendo in violazione dell’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 6, non riproduce testualmente il contenuto, per la parte che qui rileva, ed inoltre e soprattutto (tranne che per la c.t.u. redatta dall’ing. V., del cui deposito si dà conto non nell’illustrazione del motivo ma nella parte introduttiva del ricorso, v. p. 6) non fornisce alcuna indicazione del se e quando tali atti siano stati prodotti nei gradi di merito (Cass., sez. un., 27/12/2019, n. 34469, Cass. 13/11/2018, n. 29093).
Per giunta, nessuna indicazione viene fornita sul se, come e dove il M. abbia argomentato in relazione a tali atti nel corso del giudizio di merito e, soprattutto, in che termini ne abbia trattato con l’atto di appello.
A quanto precede va aggiunto che, comunque, il motivo in scrutinio tende, in sostanza, inammissibilmente ad una rivalutazione delle risultanze del giudizio di merito che vengono evocate (Cass., sez. un., 27/12/2019, n. 34476) e ciò, in ogni caso, del tutto al di fuori dei ristretti limiti in cui il controllo sulla motivazione relativa alla ricostruzione della quaestio facti (nella specie concernente il dies a quo del corso della prescrizione) è possibile nella vigenza dell’attuale art. 360, n. 5 secondo l’esegesi che ne hanno fatto le Sezioni Unite nelle note sentenze nn. 8053 e 8054 del 2014.
A tale ultimo riguardo va però anche precisato che il mezzo all’esame e’, comunque, inammissibile ex art. 348-ter c.p.c., u.c. in relazione a censure motivazionali che, pur se non specificamente indicate nell’illustrazione del mezzo in parola, risultano evocate nella rubrica dello stesso, con il richiamo all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5.
Ed invero, nell’ipotesi di cd. “doppia conforme”, prevista dall’art. 348-ter c.p.c., comma 5, applicabile, ai sensi del D.L. n. 83 del 2012, art. 54, comma 2, conv., con modif., dalla L. n. 134 del 2012, ai giudizi d’appello introdotti con ricorso depositato o con citazione di cui sia stata richiesta la notificazione dal giorno 11 settembre 2012 (si evidenzia che, nella specie, la sentenza di primo grado è datata 27 dicembre 2012, v. sentenza di appello p. 2, sicché la notifica dell’atto di citazione in appello è stata richiesta certamente in data successiva all’11 settembre 2012), il ricorrente in cassazione, per evitare l’inammissibilità del motivo di cui all’art. 360 c.p.c., n. 5 (nel testo riformulato dal D.L. n. 83 cit., art. 54, comma 3, ed applicabile alle sentenze pubblicate dal giorno 11 settembre 2012), deve indicare le ragioni di fatto poste a base, rispettivamente, della decisione di primo grado e della sentenza di rigetto dell’appello, dimostrando che esse sono t-a loro diverse (Cass. 22/12/2016, n. 26774; Cass. 10/03/2014, n. 5528). Nella specie tale onere non risulta essere stato assolto dal ricorrente.
2. Con il secondo motivo si deduce “violazione del principio di corrispondenza fra il chiesto e il pronunciato (art. 112 c.p.c.); violazione dell’art. 345 c.p.c. (tantum devolutum quantum appellatum); violazione dell’art. 360 c.p.c., n. 3 e dell’art. 360 c.p.c., n. 5”.
Il ricorrente censura la sentenza di secondo grado nella parte in cui la Corte di appello ha ritenuto che: “Quanto alle richieste avanzate in primo grado nei confronti di G.A. esse erano collegate all’asserita firma non autorizzata, della documentazione su incarico del di lui padre, senza alcuna specificazione di quali danni ciò avrebbe provocato al M.. Solo nel presente grado l’appellante ha proposto nei confronti del G.A. la domanda di condanna in solido con il proprio padre per asserito danno biologico, morale, esistenziale ed estetico. Trattandosi tuttavia di domande nuove esse sono inammissibili ex art. 345 c.p.c.”.
Afferma il ricorrente che, in realtà, era stata articolata già in primo grado domanda di risarcimento del danno anche nei confronti di G.A., a titolo di responsabilità extracontrattuale, invocandone la condanna in solido con il padre, avendo il primo firmato alcuni documenti depositati presso il Comune di Tremestieri Etneo benché non avesse direttamente ricevuto l’incarico professionale.
Il ricorrente conclude il motivo sostenendo l’inconfutabilità della responsabilità dei geometri S. e G.A. in relazione ai danni lamentati e chiedendo anche la cassazione della disposta condanna alle spese.
2.1. Anche il secondo motivo è inammissibile.
Con lo stesso, infatti, il ricorrente non spiega come e perché dalle conclusioni della citazione di primo grado e tra l’altro da esse soltanto si dovrebbe desumere che la domanda ritenuta nuova in appello era già in esse contenuta, sicché il mezzo in parola risulta del tutto privo di una idonea attività argomentativa.
A quanto precede va aggiunto che, comunque, il M. neppure ha pienamente colto e censurato la ratio decidendi, avendo la Corte di merito sostanzialmente ritenuto inammissibile la domanda di risarcimento del danno proposta nei confronti di G.A. per mancata allegazione in primo grado dei pretesi danni dallo stesso provocati con “l’asserita firma non autorizzata” (“senza alcuna specificazione di quali danni ciò avrebbe provocato al M.”, v. sentenza impugnata in questa sede), danni precisati solo in secondo grado.
3. Il ricorso deve essere, pertanto, dichiarato inammissibile.
4. Le spese del giudizio di cassazione, liquidate come da dispositivo, seguono la soccombenza.
5. Va dato atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, se dovuto, da parte del ricorrente, ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, nel testo introdotto dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello dovuto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis (Cass., sez. un., 20/02/2020, n. 4315).
P.Q.M.
La Corte dichiara inammissibile il ricorso; condanna il ricorrente al pagamento delle spese del presente giudizio di legittimità, che liquida, in favore dei controricorrenti, in Euro 6.200,00 per compensi, oltre alle spese forfetarie nella misura del 15%, agli esborsi liquidati in Euro 200,00 e agli accessori di legge ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, nel testo introdotto dalla L. n. 228 del 2012, art. 1, comma 17, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello eventualmente dovuto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis.
Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Sezione Terza Civile della Corte Suprema di Cassazione, il 11 marzo 2021.
Depositato in Cancelleria il 20 settembre 2021
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