Corte di Cassazione, sez. III Civile, Ordinanza n.25515 del 21/09/2021

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LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TERZA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. VIVALDI Roberta – Presidente –

Dott. SESTINI Danilo – rel. Consigliere –

Dott. VALLE Cristiano – Consigliere –

Dott. TATANGELO Augusto – Consigliere –

Dott. MOSCARINI Anna – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 6222-2019 proposto da:

P.L., elettivamente domiciliato in MONTE SAN GIUSTO, VIA DURASTANTE 2, presso lo studio dell’avvocato GLORIA DROGHETTI, che lo rappresenta e difende;

– ricorrente –

contro

AGENZIA DELLE ENTRATE, elettivamente domiciliata in ROMA, VIA DEI PORTOGHESI 12, presso l’AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO, che lo rappresenta e difende;

– controricorrente –

nonché contro AGENZIA DELLE ENTRATE – RISCOSSIONE (già Equitalia Servizi di Riscossione s.p.a.);

– intimata –

avverso la sentenza n. 2025/2018 della CORTE D’APPELLO di ANCONA, depositata il 02/10/2018;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del 18/03/2021 dal Consigliere Dott. DANILO SESTINI.

RILEVATO

che:

P.L. convenne in giudizio l’Agenzia delle Entrate e la Marcheriscossioni s.p.a. (poi Equitalia Centro s.p.a.) per sentirle condannare alla restituzione di somme indebitamente percepite e al risarcimento dei danni conseguenti ad atti impositivi emessi relativamente agli anni ***** in asserita violazione dei principi di cui all’art. 2043 c.c. e art. 97 Cost.;

dedusse che, benché fosse stato assolto – con formula piena e con sentenza passata in giudicato – dal reato di evasione fiscale, gli Uffici finanziari avevano emesso, per i medesimi fatti, avvisi di accertamento con richiesta di pagamento di imposte per presunta evasione fiscale; che tali atti erano stati impugnati e annullati, con conseguenti provvedimenti di sgravio adottati nell’anno *****, persistendo tuttavia due ipoteche, una delle quali iscritta per un importo inferiore al minimo legale di 8.000,00 Euro e l’altra per un importo corrispondente ad avvisi di accertamento dichiarati illegittimi e ad una cartella già pagata; aggiunse che gli era stato intimato anche un fermo amministrativo D.P.R. n. 602 del 1973, ex art. 36; concluse che le condotte poste in essere dalle convenute nei suoi confronti integravano una violazione del principio del neminem laedere sia per la mancata osservanza della sentenza penale di assoluzione dal reato di evasione fiscale sia per l’illegittima iscrizione delle ipoteche; chiese, pertanto, un risarcimento di 95.112,95 Euro per danni patrimoniali (di cui Euro 90.000,00 per lucro cessante conseguente al fatto che aveva dovuto trascurare la propria attività professionale ed Euro 5.112,95 per danno emergente, a titolo di spese legali sostenute) e, altresì, il pagamento degli interessi legali sulla somma da lui corrisposta in forza degli avvisi di accertamento poi dichiarati illegittimi e il ristoro dei danni non patrimoniali per peggioramento della qualità dell’esistenza, depressione grave, danno all’immagine e impossibilità di accesso al credito;

il Tribunale di Macerata rigettò le domande e compensò integralmente le spese di lite;

pronunciando sul gravame del P., la Corte di Appello di Ancona ha condannato l’Agenzia delle Entrate al pagamento degli interessi sulla somma di 3.853,39 Euro e ha confermato, per il resto, la sentenza impugnata, con integrale compensazione delle spese di lite;

la Corte territoriale ha osservato, fra l’altro, che:

il P. ha prospettato “una imprudente e colposa azione posta in essere dalla Pubblica Amministrazione che avrebbe iscritto a ruolo somme per presunta evasione fiscale senza tener conto alcuno della sentenza di assoluzione con formula piena”;

tale assunto non appare tuttavia decisivo perché la sentenza assolutoria risulta fondata sul difetto di prova che le differenze riscontrate fra gli investimenti effettuati dal P. e i ricavi dallo stesso dichiarati sia stata frutto di corrispettivi non annotati e non documentati, di modo che “la decisione così resa è riconducibile ad una valutazione della prova in ambito strettamente penalistico per presunzioni che, trovando una diversa configurazione e valenza in ambito civilistico (…), non si postula, in presenza di un giudicato di tal genere, come ostativa alla pretesa tributaria e ai conseguenti avvisi di accertamento ed iscrizione a ruolo di somme ritenute dovute”;

“in siffatto contesto, le iscrizioni a ruolo effettuate, prodromiche all’adozione di misure poste a garanzia del credito, non costituiscono una condotta contraria al diritto non essendo rinvenibile alcun riscontro circa la pretesa violazione di regole di comune prudenza o di prescrizioni normative alla cui osservanza la Pubblica Amministrazione era vincolata: nella specie soltanto alla definizione dei giudizi instaurati si è potuto appurare la debenza o meno delle somme da riscuotere, pervenendosi anche a pronunce dei giudici tributari di primo grado favorevoli all’Ufficio”; tanto più che la sentenza del giudice penale “non ha ritenuto inesistenti i fatti materiali accertati (in particolare gli accrediti effettuati dal contribuente reputati significativi di disponibilità finanziarie eccedenti il ricavato dall’attività svolta)”;

“priva di riscontro appare, pertanto, nella specie, l’imputazione di un comportamento negligente, imprudente ed irresponsabile da parte dell’Amministrazione come causa del danno”;

ha proposto ricorso per cassazione il P., affidandosi a undici motivi illustrati da memoria; ha resistito l’Agenzia delle Entrate con controricorso;

la trattazione del ricorso è stata fissata ai sensi dell’art. 380-bis.1. c.p.c..

CONSIDERATO

che:

con il primo motivo, il ricorrente denuncia – in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3 – la violazione dell’art. 116 c.p.c. e art. 2043 c.c. e – in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 4) – la violazione dell’art. 132 c.p.c., comma 2, n. 4 “per motivazione apparente, perplessa e contraddittoria”, censurando la sentenza per avere affermato che soltanto alla definizione dei giudizi si era potuto appurare “la debenza o meno delle somme da riscuotere, pervenendosi anche a pronunce dei giudici tributari di primo grado favorevoli all’Ufficio”; assume il P. che la Corte “ha travisato l’oggetto dell’azione di risarcimento danni (…) e non ha tenuto conto dell’esito finale e così non ha applicato il consolidato principio, secondo il quale presupposto della responsabilità è l’attività procedimentale illegittima”, di cui il P. aveva dato prova; aggiunge che la motivazione della sentenza impugnata “e’ solo apparente ed obiettivamente incomprensibile poiché le prove su cui si basa l’azione di responsabilità (…) sono sentenze di secondo grado tributarie e la sentenza penale che hanno riconosciuto il fatto che P. non ha omesso la fatturazione dei ricavi”;

il motivo è infondato nella parte in cui denuncia la carenza della motivazione, invero sussistente e idonea ad esplicitare il convincimento della Corte (ancorché non condivisa dal ricorrente), mentre è inammissibile per difetto di autosufficienza – ex art. 366 c.p.c., n. 6 – laddove richiama le sentenze che proverebbero l’illegittimità dell’attività procedimentale senza trascriverne il contenuto in misura idonea ad evidenziarne lo specifico oggetto e le ragioni delle decisioni;

il secondo motivo denuncia “violazione e falsa applicazione dell’art. 2043 c.c., art. 97 Cost., nonché della L. 20 marzo 1865, n. 2248, All. E, art. 4 e della L. 27 luglio 2000, n. 212 (c.d. Statuto del contribuente), dal momento che la Corte territoriale afferma che il principio di cui alla Cass. 1191/2003 sarebbe fondato sull’inesigibilità del tributo (olii minerali) e pertanto non sarebbe utile a P.”; assume il ricorrente che – diversamente da quanto ritenuto dalla Corte di Appello – la sentenza della Corte di Cassazione “ha ritenuto illecita la condotta del Ministero ricorrente, non per l’inesigibilità del tributo ma per aver agito con imprudenza per non aver tenuto conto della sentenza penale di assoluzione e per l’inosservanza dell’obbligo generale della pubblica amministrazione di conformarsi alle sentenze di cui alla L. 20 marzo 1865, n. 2248, all. E, art. 4”;

il terzo motivo deduce la violazione e la falsa applicazione dell’art. 116 c.p.c. “per valutazione manifestamente illogica e/o travisamento della sentenza penale n. 73/98 Trib. MC di assoluzione di P. “perché il fatto non sussiste” alla quale la sentenza di appello ha attribuito nel merito un significato completamente diverso”; il ricorrente censura la decisione impugnata per aver affermato che la sentenza del giudice penale non aveva ritenuto inesistenti i fatti materiali accertati dalla Guardia di Finanza, in tal modo attribuendo alla sentenza di penale un “significato completamente diverso” da quello effettivo e incorrendo – di conseguenza – nell’errore di ritenere legittimo l’operato degli uffici convenuti;

col quarto motivo, il ricorrente lamenta la violazione e la falsa applicazione dell’art. 530 c.p.p., commi 1 e 2 in riferimento agli artt. 652-654 c.p.p., in relazione alla sentenza penale di assoluzione del P.: assume che detta sentenza – pronunciata “ai sensi dell’art. 530 c.p.p. perché il fatto non sussiste” – “contiene un effettivo e specifico accertamento circa l’insussistenza del fatto” e che la Corte di Appello ha invece interpretato la decisione ai sensi dell’art. 530 c.p.p., comma 2, non richiamato dal giudice penale;

il quinto motivo denuncia la “nullità della sentenza per violazione dell’art. 132 c.p.c., comma 2, n. 4 per irriducibile contraddittorietà della motivazione, nel momento in cui la sentenza di appello motiva sulla sentenza penale di assoluzione pronunciata “perché il fatto non sussiste” a pag. 16 come segue: “e considerato, come si è visto che la sentenza del giudice per le indagini preliminari non ha ritenuto inesistenti i fatti materiali accertati”; il ricorrente rileva che la sentenza impugnata è affetta da irriducibile contraddittorietà e che, se fosse vero l’assunto della Corte di Appello (che il P. era stato assolto per insussistenza del fatto e che la sentenza penale aveva ritenuto esistenti i fatti), si “configurerebbe un contrasto tra dispositivo e motivazione in sede penale fonte d’illecito della sentenza penale”;

i motivi dal secondo al quinto possono essere esaminati congiuntamente in quanto attinenti all’errore in cui la Corte di Appello sarebbe incorsa nella valutazione della portata della sentenza di assoluzione per il reato di evasione fiscale pronunciata dal Tribunale di Macerata nei confronti del P.;

i motivi terzo e quarto risultano inammissibili per difetto di autosufficienza (in relazione alla previsione dell’art. 366 c.p.c., n. 6) in quanto non ottemperano all’onere di trascrivere il contenuto della sentenza penale in misura idonea a illustrarne le ragioni fondanti e ad individuare il percorso logico-giuridico attraverso il quale il Tribunale di Macerata è pervenuto all’assoluzione del P. (non risultando a tal fine sufficienti i due brevi stralci riportati a pag. 22), non consentendo pertanto di apprezzare -in questa sede- la sussistenza del “travisamento” che il ricorrente ascrive alla Corte territoriale;

il tutto a prescindere dal rilievo che i motivi presuppongono erroneamente – che il giudice civile investito della domanda di risarcimento danni per l’illecito procedimentale che sarebbe stato commesso dagli uffici finanziari sia vincolato al giudicato penale di assoluzione del contribuente e non debba invece valutare la correttezza dell’operato dell’Amministrazione alla luce della disciplina propria del procedimento tributario; e ciò alla stregua del principio secondo cui, “in materia di contenzioso tributario, nessuna automatica autorità di cosa giudicata può attribuirsi alla sentenza penale irrevocabile, di condanna o di assoluzione, emessa in materia di reati fiscali, ancorché i fatti esaminati in sede penale siano gli stessi che fondano l’accertamento degli Uffici finanziari, dal momento che nel processo tributario vigono i limiti in tema di prova posti dal D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 7, comma 4, e trovano ingresso, invece, anche presunzioni semplici, di per sé inidonee a supportare una pronuncia penale di condanna. Ne consegue che l’imputato assolto in sede penale, anche con formula piena, per non aver commesso il fatto o perché il fatto non sussiste, può essere ritenuto responsabile fiscalmente qualora l’atto impositivo risulti fondato su validi indizi, insufficienti per un giudizio di responsabilità penale, ma adeguati, fino a prova contraria, nel giudizio tributario” (Cass. n. 16262/2017; cfr. anche Cass. 8129/2012, Cass. n. 28174/2017 e Cass. n. 27814/2020);

il secondo motivo – che contesta l’interpretazione data dal giudice di appello alla sentenza n. 1191/2003 di questa Corte, in funzione della affermata necessità di adeguamento del giudizio civile di danno al giudicato assolutorio penale – risulta assorbito;

il quinto motivo è infondato, giacché non sussiste alcuna “irriducibile contraddittorietà” della sentenza impugnata nell’aver rilevato che il giudice penale non ha escluso l’esistenza dei fatti materiali accertati dalla Guardia di Finanza (né, ovviamente, rileverebbe quella interna alla sentenza penale prospettata, in ipotesi, dal ricorrente);

il sesto motivo denuncia la violazione e la falsa applicazione dell’art. 2043 c.c. e dell’art. 97 Cost., nonché del D.P.R. n. 602 del 1973, art. 76 in riferimento all’ipoteca n. 2803/2004 iscritta per l’importo di Euro 476,72: il ricorrente censura l’affermazione della Corte circa il fatto che il divieto di iscrizioni ipotecarie per crediti inferiori ad un determinato importo fosse stato introdotto successivamente ai fatti di causa e rileva che il testo del D.P.R. n. 602 del 1972, art. 76 all’epoca vigente prevedeva un credito complessivo minimo di tre milioni di lire per procedere ad esecuzione immobiliare e che le Sezioni Unite di questa Corte (n. 5771/2012) hanno affermato che non sono iscrivibili ipoteche per crediti non realizzabili a mezzo di esecuzione forzata;

il settimo motivo deduce “nullità della motivazione per violazione dell’art. 132, comma 2, n. 4 per motivazione solo apparente”, nonché “omesso esame circa un fatto decisivo che è stato oggetto di discussione tra le parti, in riferimento all’ipoteca n. 3182 del 18.1.***** iscritta in parte per l’importo di Euro 18.751,82 pari agli avvisi di accertamento dichiarati illegittimi e poi sgravati ed in parte per altra cartella (…) già pagata il 14.1.2005”: il ricorrente assume che, riguardo alla seconda ipoteca, “la Corte di appello dà una motivazione generica e solo apparente e non motiva sulla fattispecie concreta” e, altresì, omette di “valutare se è legittima l’iscrizione ipotecaria in data 18 gennaio ***** quando l’importo di quella iscrizione contiene una cartella che è già pagata il 14 gennaio 2005”;

con l’ottavo motivo, il ricorrente denuncia “violazione o falsa applicazione di norme di diritto in materia di nesso causale ex art. 2043 c.c., artt. 40 e 41 c.p., artt. 2727 e 2729 c.c., artt. 115-116 c.p.c. e liquidazione del danno art. 1227 c.c., in riferimento al danno patrimoniale al reddito professionale”, nonché “nullità della sentenza per violazione dell’art. 132, comma 2, n. 4 (c.p.c.) per motivazione apodittica e contraddittoria”: il P. censura la sentenza impugnata nella parte in cui ha affermato che, “in ogni caso, a tutto voler concedere, difetta completamente la prova del nesso di causalità relativo al preteso danno derivante dai dedotti mancati guadagni, non essendo univocamente riconducibile al minor ricavo realizzato dal richiedente professionista nell’anno successivo alla notifica degli avvisi di accertamento nemmeno essendo logicamente apprezzabile l’impegno personale del predetto ad un livello tale da non consentirgli di provvedere se non in minima parte alla cura della propria attività”;

assume il ricorrente che la Corte non avrebbe dovuto accertare se il danno fosse “univocamente” riconducibile ad un fatto, bensì che lo fosse “probabilmente sulla base del più probabile che non o preponderanza dell’evidenza” e, inoltre, avrebbe dovuto valutare le prove e tutti gli elementi presuntivi in modo complessivo e non “atomistico”; aggiunge di avere dimostrato la diminuzione patrimoniale che si era verificata dopo l’inizio delle cause tributarie e di aver “dedotto e documentato altri elementi da valutare e cioè le ipoteche e note di esperienza cioè il tempo che un professionista può dedicare al suo lavoro”; con riferimento ad altro passaggio della sentenza impugnata (“parimenti indimostrato è il dedotto danno alla reputazione sia in considerazione della legittimità delle iscrizioni ipotecarie sia in carenza assoluta di riscontri pregiudizievoli in tal senso”), il P. evidenzia la contraddittorietà della motivazione “che ragiona di voler “concedere” (condotta colposa per illegittimità degli avvisi dei ruoli e delle ipoteche) e poi nega (poiché le ipoteche sarebbero legittime) ciò che in premessa aveva concesso”;

il nono motivo denuncia la “violazione o falsa applicazione di norme di diritto in materia di nesso causale ex art. 2043 c.c., artt. 40 e 41 c.p., ex art. 2059 c.c., artt. 2,4,15 e 42 della Carta Costituzionale e liquidazione del danno 1227 c.c., in riferimento al danno non patrimoniale” e censura la sentenza nella parte in cui ha affermato la mancanza di prova del nesso causale fra le iscrizioni ipotecarie e l’impedimento dell’accesso al credito, non ritenendo sufficiente il riferimento alla richiesta di finanziamento ad un solo istituto bancario (peraltro a fronte di iscrizioni ipotecarie anche a carico della garante): il ricorrente – richiamato quanto già dedotto col motivo precedente – rileva che “il danno da ipoteche è danno sia patrimoniale sia non patrimoniale” e che quest’ultimo si configura “come danno alla reputazione d’immagine, danno al lavoro e di accesso al credito” e conclude che “l’iscrizione illegittima di ipoteca viola il disposto del neminem laedere, ex art. 2043 c.c., e, conseguentemente, ex art. 2059 c.c., è generativa di pregiudizio ai valori costituzionali, personali, quali l’onore e la reputazione del soggetto iscritto”;

risulta logicamente prioritario l’esame dei motivi ottavo e nono, aventi natura potenzialmente assorbente rispetto al sesto e al settimo;

entrambi i motivi – con cui si contesta, rispettivamente, il mancato riconoscimento del danno patrimoniale e di quello non patrimoniale -vanno disattesi, in quanto:

non sussiste il dedotto erroneo utilizzo del criterio di accertamento del nesso di causa giacché, benché sia corretto l’assunto che in ambito civilistico debba osservarsi il criterio della preponderanza dell’evidenza (“più probabile che non”), la lettura complessiva della motivazione della sentenza impugnata consente di escludere che la Corte territoriale abbia avuto riguardo ad un criterio di maggiore certezza; invero, un siffatto diverso criterio non è desumibile dal mero utilizzo dell’avverbio “univocamente”, che si colloca -comunque- in un contesto motivazionale (a pag. 20 e 21) in cui si afferma che “difetta completamente la prova del nesso di causalità relativo al preteso danno derivante dai dedotti mancati guadagni”, che “altrettanto deve dirsi in ordine alle ipoteche che gli avrebbero impedito l’accesso al credito”, che “analoghe considerazioni valgono per quanto riguarda il preteso “disagio” basato su documentazione medica” e che “parimenti indimostrato è il dedotto danno alla reputazione (…) in carenza assoluta di riscontri pregiudizievoli in tal senso”;

per il resto, le censure risultano inammissibili in quanto sono volte a sostenere l’assunto dell’esistenza del nesso causale fra le iniziative degli uffici finanziari e il danno lamentato dal P. e, prima ancora, l’assunto dell’esistenza stessa di tale danno sulla base di un’auspicata lettura alternativa della vicenda e degli elementi emersi in corso di causa, in tal modo sollecitando alla Corte di legittimità un non consentito diverso apprezzamento di merito;

del tutto erroneo e’, poi, l’assunto (di cui al nono motivo) circa la sussistenza di un danno in re ipsa in dipendenza dell’illegittima iscrizione ipotecaria, che ne comporterebbe senz’altro una liquidazione equitativa, dovendosi invece ritenere che, quand’anche risulti accertata l’illegittimità dell’iscrizione ipotecaria, “tuttavia, ai fini del risarcimento occorre accertare se in concreo si è verificato un danno-conseguenza, che non può essere configurato “in re ipsa”” (Cass. n. 12123/2020);

il rigetto dei motivi ottavo e nono, comportante la definitività dell’esclusione di danni risarcibili anche in relazione alle ipoteche di cui il ricorrente ha assunto l’illegittima iscrizione, determina l’assorbimento – per difetto di concreto interesse allo scrutinio – dei motivi sesto e settimo (concernenti specificamente la questione dell’illegittimità dell’iscrizione ipotecaria);

il decimo motivo denuncia “violazione art. 112 c.p.c. per omessa pronuncia sul motivo d’appello C punto 3 di pagina 13 dell’atto di appello relativo alla domanda di risarcimento danni patrimoniali in riferimento alle spese documentate da P.”: il ricorrente rileva che la sentenza impugnata “evita di esaminare e decidere il motivo di appello C punto 3 (…) relativo alla domanda di risarcimento dei danni da spese legali maturate in capo a P. per difendersi dopo l’assoluzione in via penale, per cui si configura l’omessa pronuncia sul punto”;

il motivo è infondato: deve ritenersi, infatti che vi sia una statuizione implicita di rigetto, atteso che la pretesa risarcitoria di cui al motivo non espressamente esaminato risulta incompatibile con l’impostazione logico-giuridica della decisione (cfr. Cass. n. 24155/209017, Cass. n. 20311/2011, Cass. n. 10696/2007 e Cass. n. 16788/2006);

l’undicesimo motivo – espressamente proposto in via subordinata rispetto al precedente – denuncia “omesso esame di un fatto decisivo oggetto di discussione (danno patrimoniale da spese legali)”, sull’assunto che “la sentenza di appello non ha motivato in merito alle circostanze di cui alla domanda di risarcimento di danno patrimoniale per le spese legali”, rispetto al quale – si assume – l’Agenzia delle Entrate non aveva contestato la prova e il calcolo effettuato dal P.;

il motivo risulta inammissibile alla luce dell’esisto del motivo precedente;

le spese di lite seguono la soccombenza;

sussistono le condizioni per l’applicazione del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater.

PQM

La Corte rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese di lite, liquidate in Euro 10.200,00 per compensi, oltre al rimborso delle spese prenotate a debito.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis se dovuto.

Così deciso in Roma, il 18 marzo 2021.

Depositato in Cancelleria il 21 settembre 2021

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