LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE TERZA CIVILE
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. FRASCA Raffaele Gaetano Antonio – Presidente –
Dott. SESTINI Danilo – rel. Consigliere –
Dott. SCARANO Luigi Alessandro – Consigliere –
Dott. CIRILLO Francesco Maria – Consigliere –
Dott. PORRECA Paolo – Consigliere –
ha pronunciato la seguente:
ORDINANZA
sul ricorso 15830/2019 proposto da:
ASSICURATRICE MILANESE SPA, elettivamente domiciliato in ROMA, VIA COLA DI RIENZO 212, presso lo studio dell’avvocato TIZIANO MARIANI, rappresentata e difesa dagli avvocati FRANCESCO PANNI, e ANDREA SIRENA;
– ricorrente –
contro
B.E., elettivamente domiciliato in ROMA, VIA E. DUSE 35, presso lo studio dell’avvocato STEFANO PANTALANI, che lo rappresenta e difende unitamente agli avvocati ROBERTO LONGHIN, e MARIA CARLA PAGNOTTA;
– controricorrente –
avverso la sentenza n. 1218/2019 della CORTE D’APPELLO di ROMA, depositata il 20/02/2019;
udita la relazione della causa svolta nella Camera di consiglio del 21/05/2021 dal Consigliere Dott. DANILO SESTINI.
RILEVATO
che:
con sentenza pronunciata dal Tribunale di Roma il 12.1.2012, B.E., chirurgo maxillo-facciale, venne dichiarato colpevole del reato di omicidio colposo in relazione al decesso del paziente C.M., avvenuto in data *****, e venne condannato anche al pagamento di una provvisionale di 300.000,00 Euro in favore dei congiunti della vittima;
con successivo ricorso ex art. 702 bis c.p.c., il B. agì in sede civile nei confronti della Assicuratrice Milanese s.p.a., con la quale aveva stipulato due polizze per la copertura della responsabilità professionale (la prima, decorrente dal *****, era stata sostituita da una seconda decorrente dal *****), chiedendo che la stessa venisse condannata a garantirlo e tenerlo indenne dalle richieste risarcitorie avanzate dagli eredi del C., manlevandolo dal pagamento delle somme provvisoriamente riconosciute a loro favore;
la compagnia resistette alla domanda sostenendo, fra l’altro, che la polizza stipulata il ***** (che aveva sostituito la precedente), seppur retroattivamente efficace per effetto della clausola claims made, non copriva il sinistro, giacché la garanzia concerneva l’attività prestata dal B. in qualità di medico dipendente e non anche quella svolta quale libero professionista (come nel caso oggetto di sinistro), nonché assumendo che la polizza era comunque inoperante ai sensi dell’art. 1892 c.c., per avere l’assicurato taciuto all’assicuratore la consapevolezza della propria responsabilità professionale, acquisita già in occasione dell’intervento chirurgico del *****;
il Tribunale di Roma accertò che il sinistro ricadeva sotto la vigenza della polizza n. ***** stipulata il ***** e che risultavano infondate sia la pretesa della assicuratrice di limitare la copertura alle prestazione effettuate in regime di lavoro dipendente, sia l’eccezione di inoperatività basata sull’art. 1892 c.c., in quanto il B. aveva acquisito conoscenza della possibile sussistenza di un illecito soltanto al momento della ricezione dell’informazione di garanzia in data 30.5.2007, successivamente alla stipulazione della polizza; il Tribunale rigettò pertanto le eccezioni di non operatività della garanzia e condannò la Assicuratrice Milanese a tenere indenne il B. dal pagamento delle somme richieste a titolo risarcitorio dagli eredi del C.;
la Corte di Appello di Roma ha rigettato il gravame dell’assicuratrice, osservando – fra l’altro – che:
ai sensi dell’art. 16 della polizza del 2007 (identico a quello della polizza del marzo 2006), l’assicurazione risultava “prestata per la responsabilità professionale derivante all’assicurato nell’esercizio dell’attività professionale connessa con la sua qualità di medico, in quanto iscritto al relativo albo”, garantendo pertanto una “copertura assicurativa globale dell’attività professionale di medico, senza alcuna diversificazione”; tanto più che “una limitazione alla sola attività di lavoro dipendente annullerebbe l’effetto della clausola claims made”; non rilevavano né il fatto che nella seconda polizza fosse barrata la voce “lavoro dipendente” (trattandosi di mera rappresentazione di una situazione lavorativa attuale dell’assicurato), né la circostanza che il premio fosse inferiore di 1/3 rispetto alla polizza del 2006 (costituendo tale riduzione il riflesso sul piano economico delle mutate condizioni in cui il B. avrebbe esercitato la propria professione); doveva pertanto individuarsi un “collegamento tra le due polizze che non ha dato luogo ad un nuovo ed autonomo contratto, ma ad una continuità assicurativa”;
l’inoperatività della garanzia – sostenuta dalla compagnia – non poteva farsi discendere dall’applicazione dell’art. 17 delle c.g.c. o dell’art. 1892 c.c., anche in considerazione del fatto che il B. aveva ricevuto l’avviso di garanzia in data successiva alla stipulazione della polizza e, altresì, della circostanza che la società aveva trascurato di esercitare il rimedio previsto dall’art. 1892 c.c., anche dopo che il B. aveva dato comunicazione dell’avviso di garanzia;
ha proposto ricorso per cassazione la Assicuratrice Milanese s.p.a., affidandosi a quattro motivi; ha resistito il B. con controricorso;
la trattazione del ricorso è stata fissata ai sensi dell’art. 380-bis.1. c.p.c..;
il controricorrente ha depositato memoria.
CONSIDERATO
che:
il primo motivo denuncia la “violazione dell’art. 112 c.p.c., artt. 1882,1917 e 2697 c.c.; nullità della decisione per vizio di omessa pronuncia; omesso apprezzamento degli effetti prodotti dalla sentenza numero 31490 pubblicata in data 21 luglio 2016 e resa dalla Suprema Corte di Cassazione ad estinzione del processo penale in cui rimase coinvolto il professor B.”;
il ricorrente premette che, con la pronuncia del 2016, la Corte di Cassazione penale aveva dichiarato l’estinzione del reato di omicidio colposo, annullando le statuizioni civili e rinviando al giudice civile competente per valore in grado di appello, e censura la sentenza impugnata per non aver tenuto conto che tale decisione aveva “rimosso i titoli sulla base dei quali il professor B. (aveva) agito nei confronti di Assicurazione Milanese”, chiedendo, col ricorso ex art. 702 bis c.p.c., “di essere garantito e manlevato “…delle somme risarcitorie provvisoriamente riconosciute agli eredi C. nelle more di definitiva quantificazione…” con la sentenza emessa dal Tribunale di Roma in data 12 gennaio 2012" poi annullata; deduce che, benché avesse sollevato la questione con la comparsa conclusionale, la Corte di Appello non aveva tenuto conto degli effetti conseguenti alla sentenza di annullamento ed era “incorsa in violazione di legge e, in particolare, dell’art. 112 c.p.c., non avendo pronunciato su una questione espressamente posta da Assicurazione Milanese, nonché degli artt. 1882,1917 e 2697 c.c.”;
il motivo è inammissibile sotto più profili, in quanto:
premesso che la corte territoriale nulla ha detto su quanto dedotto nella conclusionale circa la sopravvenienza della sentenza di cassazione penale di annullamento delle statuizioni civili e, dunque, anche della provvisionale, deve rilevarsi che la ricorrente non indica se abbia prodotto la conclusionale in questa sede e dove la stessa potrebbe essere esaminata e nemmeno riproduce il contenuto del verbale dell’udienza di precisazioni delle conclusioni del 12 gennaio 2018 (in cui dice di avere prodotto la copia della sentenza penale), né indica, come ammette Cass., Sez. Un., n. 22726 del 2011, di voler fare riferimento alla presenza di detti atti nel fascicolo d’ufficio del giudizio di appello; il motivo risulta dunque articolato senza ottemperare alla prescrizione dell’art. 366 c.p.c., n. 6;
deve inoltre rilevarsi che l’assunto che la sentenza di annullamento, resa da questa Corte in sede penale, avrebbe fatto venir meno i titoli in base ai quali era stata promossa l’azione del B. è svolto in difetto di autosufficienza, poiché il ricorso riporta solo un breve passaggio delle conclusioni del ricorso ex art. 702 bis c.p.c., che non consente di apprezzare il contenuto dell’originaria domanda attorea; domanda che, per quanto emerge dal controricorso, era più ampiamente articolata e non si limitava al rimborso delle somme di cui alla provvisionale concessa in sede penale, ma concerneva l’accertamento della copertura assicurativa del sinistro e richiedeva pertanto una condanna (generica) dell’assicuratrice a tenere indenne il B. dalla responsabilità risarcitoria (che costituiva oggetto della domanda proposta dalle parti civili in sede penale e che, per quanto si apprende dal controricorso, è stata successivamente coltivata in sede di rinvio avanti al giudice civile);
in riferimento agli artt. 1182,1917 e 2697 c.c. (richiamati nella rubrica e nel corpo del motivo), non risulta svolta alcuna specifica censura che valga ad illustrare l’error in iudicando in cui sarebbe incorsa la Corte di Appello: sul punto, il motivo è dunque generico e pertanto, anche per questa parte, inammissibile;
il secondo motivo deduce la violazione dell’art. 2909 c.c., “nella parte in cui il giudice ha ritenuto che la polizza individuata dal numero ***** fosse in continuità con la precedente polizza numero *****”: assume la ricorrente che l’ordinanza che aveva definito il giudizio di primo grado era divenuta definitiva (in difetto di appello incidentale) nella parte in cui aveva affermato che il sinistro rientrava nel perimetro operativo della seconda polizza (quella stipulata nel marzo 2007) e che pertanto doveva ritenersi definitivamente accertata l’autonomia fra le due polizze e “la operatività rispetto alla vicenda sub judice esclusivamente del secondo contratto”;
il motivo è inammissibile, in quanto evoca un preteso giudicato interno senza fornire l’indicazione specifica degli atti su cui si fonda, particolarmente quanto alla localizzazione in questo giudizio dell’ordinanza di primo grado e dell’atto di costituzione in appello del resistente;
per di più, il raffronto fra il motivo e il contenuto della sentenza impugnata evidenzia il difetto di concreto interesse alla censura, giacché l’affermazione della Corte circa il collegamento fra le due polizze (che non avrebbe dato luogo ad un nuovo ed autonomo contratto, ma ad una continuità assicurativa) non conduce – nel tessuto argomentativo e nella logica complessiva della sentenza – all’esito di ritenere che la copertura del sinistro debba essere valutata in relazione ad entrambe le polizze, anziché unicamente rispetto a quella del ***** (in merito alla quale si è poi dipanata l’ulteriore motivazione della sentenza); deve dunque ritenersi che l’espressione qui censurata sia valsa soltanto ad argomentare nel senso che sia la prima che la seconda polizza erano accomunate dalla finalità di garantire in modo globale l’attività svolta dal medico, a prescindere dal fatto che si collocasse in un ambito libero-professionale o di lavoro dipendente, e che, in tal modo, l’Assicuratrice Milanese aveva garantito al B. una “continuità assicurativa”;
col terzo motivo, si deduce “violazione e falsa applicazione degli artt. 1322,1362 c.c. e segg., artt. 1882 c.c. e segg. nella parte in cui il giudice ha ritenuto che oggetto della polizza individuata dal numero ***** fosse una copertura globale inerente l’attività medica comunque praticata”: assume la ricorrente che la lettura integrale dell’art. 16 delle c.g.c. avrebbe consentito alla Corte di affermare che la garanzia non era correlata genericamente all’attività professionale connessa alla qualità di medico, bensì all'”esercizio dell’attività dichiarata in polizza”, dovendosi pertanto tener conto del fatto che, al momento della stipula della polizza, il B. aveva dichiarato di svolgere attività dipendente nell’ambito di una struttura pubblica; rileva, altresì, che il rapporto di dipendenza aveva comportato una riduzione del premio (rispetto alla precedente polizza stipulata in relazione ad attività libero-professionale); conclude che “il criterio letterale di cui all’art. 1362 c.c., costituisce sempre il fondamento di una corretta interpretazione di ogni clausola pattizia, tenuto sussidiariamente conto della comune intenzione dei contraenti e della loro autonomia contrattuale, quale espressione della volontà, solo laddove ricorrano incertezze interpretative sul dato testuale”;
il motivo è inammissibile perché non localizza le polizze assicurative nell’ambito del giudizio di legittimità e, dunque, viola l’art. 366 c.p.c., n. 6.
per di più, deve considerarsi che il motivo, lungi dall’individuare specifiche violazioni del parametro ermeneutico di riferimento (indicato nell’art. 1362 c.c.), si limita ad offrire una lettura alternativa rispetto a quella compiuta dalla Corte di merito, sull’assunto che la considerazione dell'”attività dichiarata in polizza” consentirebbe di affermare che la copertura assicurativa era esclusa per l’attività libero-professionale; la censura non sembra tuttavia tener conto del fatto che l’attività (che il certificato assicurativo fotoriprodotto in ricorso indica in quella del “chirurgo specialista in chirurgia maxillo-facciale”) è cosa diversa dalle modalità (tipo di rapporto e natura della struttura) con cui essa viene svolta, che – secondo la Corte di Appello – costituisce dato non dirimente, “in quanto meramente rappresentativo della situazione lavorativa attuale dell’assicurato”; di talché, a ben vedere, la ricorrente non individua dati letterali ignorati dalla Corte di Appello, ma propone la valorizzazione di un elemento (la dichiarazione dello svolgimento dell’attività alle dipendenze di una struttura pubblica) che il giudice di merito ha mostrato di aver valutato (considerandolo tuttavia non dirimente), in tal modo non prospettando effettivamente un error in iudicando, ma sollecitando un diverso apprezzamento dei medesimi elementi considerati dalla Corte di merito;
il quarto motivo denuncia “violazione e falsa applicazione degli artt. 1892 e 1932 c.c., nonché art. 17 c.g.c. della polizza numero *****; nullità della decisione per omessa pronuncia; violazione dell’art. 112 c.p.c.”: la ricorrente lamenta che la Corte abbia dato rilievo, nel valutare le dichiarazioni precontrattuali dell’assicurato, alla notificazione dell’avviso di garanzia, come momento in cui egli avrebbe avuto conoscenza della ipotesi di responsabilità professionale a suo carico, anziché considerare che, già al momento dell’intervento infausto, il B. aveva necessariamente acquisito la consapevolezza della possibilità di essere chiamato a risponderne; deduce che la Corte ha offerto una interpretazione dell’art. 1892 c.c., difforme da quella saldamente offerta dalla giurisprudenza di legittimità; si duole, infine, che abbia erroneamente stabilito l’inefficacia ex art. 1932 c.c., della disposizione pattizia dell’art. 17 c.g.c.;
più precisamente, deduce che la Corte non ha adeguatamente apprezzato una serie di elementi, tutti anteriori all’avvio del rapporto assicurativo e ben noti al B., dimostrativi del già intervenuto avveramento dei presupposti del rischio e tali da rendere “assurda” l’affermazione che l’assicurato possa aver avuto conoscenza della ricorrenza della propria responsabilità solo con l’avviso di garanzia ricevuto il 30.5.2007; per altro verso, assume che la Corte “ha violato la ratio sostanziale dell’art. 1892 c.c.” giacché l’istituto assicuratore non è tenuto a promuovere l’annullamento del contratto quando il sinistro si verifichi prima che sia decorso il termine di tre mesi dal momento in cui ha conosciuto l’inesattezza o la reticenza delle dichiarazioni dell’assicurato (ciò che nel caso di specie non poteva che essere avvenuto dopo la denuncia del sinistro), di talché risultava sufficiente il rimedio dell’eccezione di inadempimento; tanto più che l’eccezione era relativa allo specifico sinistro e non assoluta; quanto alla disposizione dell’art. 17 c.g.c. (comportante l’obbligo di comunicare non solo di non avere ricevuto richieste di risarcimento, ma anche di non essere a conoscenza di elementi che potessero far supporre l’insorgenza di obblighi risarcitori), contesta che la norma contribuisca a delimitare l’oggetto del contratto o a offrire all’assicuratore un maggiore vantaggio in violazione dell’art. 1932 c.c.;
il motivo segue la sorte del precedente, dato che poggia sull’assunto dell’erronea interpretazione della clausola 17 delle c.g.c., rispetto al quale non risulta assolto – quanto alla localizzazione – l’onere di cui all’art. 366 c.p.c., n. 6.
sotto altro profilo e sempre nel senso dell’inammissibilità, deve rilevarsi che il motivo ruota intorno ad un nucleo centrale costituito dalla contestazione dell’accertamento della Corte circa il fatto che il B. avesse acquisito notizia del reato contestatogli soltanto con la notifica dell’avviso di garanzia, non sussistendo prima di tal momento gli estremi del dolo o della colpa grave nel non riferire il fatto all’assicuratore; sicché le censure non delineano, nella sostanza, un error iuris, ma investono tale accertamento di fatto col contrapporgli un’opposta valutazione di merito, non deducibile in sede di legittimità; le spese di lite seguono la soccombenza;
sussistono le condizioni per l’applicazione del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater.
P.Q.M.
La Corte dichiara l’inammissibilità del ricorso e condanna la ricorrente al pagamento delle spese di lite, liquidate in Euro 6.000,00 per compensi, oltre alle spese forfettarie nella misura del 15%, al rimborso degli esborsi (liquidati in Euro 200,00) e agli accessori di legge.
Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis, se dovuto.
Così deciso in Roma, il 21 maggio 2021.
Depositato in Cancelleria il 30 settembre 2021
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