LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE TERZA CIVILE
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. FRASCA Raffaele – Presidente –
Dott. SESTINI Danilo – Consigliere –
Dott. SCARANO Luigi A. – Consigliere –
Dott. CIRILLO Francesco M. – Consigliere –
Dott. PORRECA Paolo – rel. Consigliere –
ha pronunciato la seguente:
ORDINANZA
sul ricorso 22353/2018 proposto da:
B.M.G., G.E., F.L., D.S., elettivamente domiciliati in ROMA, VIALE CARSO, 67, presso lo studio dell’avvocato CHIARA TAGLIAFERRO, rappresentati e difesi dall’avvocato IACOPO FRANCESCO ARMANNI;
– ricorrenti –
contro
CREDITO VALTELLINESE SPA, a mezzo del suo procuratore CERVED CREDIT MANAGEMENT SPA, elettivamente domiciliati in ROMA, VIA PRINCIPESSA CLOTILDE 2, presso lo studio dell’avvocato RENATO CLARIZIA, che li rappresenta e difende unitamente all’avvocato LUCA ALESSANDRO CANDIANI;
– controricorrente –
avverso la sentenza n. 2932/2018 della CORTE D’APPELLO di MILANO, depositata il 13/06/2018 udita la relazione della causa svolta nella Camera di consiglio del 21/05/2021 dal Consigliere Dott. PAOLO PORRECA.
FATTO E DIRITTO
Considerato che:
B.M.G., D.S., G.E. e F.L. si opponevano al decreto ingiuntivo ottenuto nei loro confronti, quali fideiussori del Credito Valtellinese, s.p.a., già Credito Artigiano s.p.a., per obbligazioni nascenti da un contratto di locazione finanziaria di un immobile concesso in utilizzazione alla s.r.l. Lemon;
esponevano che:
– la banca si era avvalsa della facoltà di risoluzione del contratto pattuita con clausola contrattuale in relazione al mancato pagamento di canoni, chiedendo la restituzione del bene;
– l’utilizzatrice era fallita e l’istituto di credito si era insinuato al passivo, al contempo agendo nei confronti dei garanti deducenti;
– il bene, occupato da un terzo in sublocazione, era stato oggetto poi di ulteriore contratto di “leasing” tra la banca e il terzo stesso;
– il Tribunale aveva rigettato l’opposizione con pronuncia confermata dalla Corte di appello secondo cui: a) l’eccezione di nullità del contratto ex art. 1938 c.c., per mancata indicazione, nella fideiussione da qualificare “omnibus”, dell’importo massimo garantito, era inammissibile perché sollevata tardivamente dopo, L’atto di opposizione, e comunque infondata perché l’importo in parola era espressamente indicato riguardo al contratto in discussione; b) la clausola dell’art. 11 del contratto, che prevedeva l’obbligazione di pagamento dei canoni scaduti con accessori, e, a titolo di penale, dei corrispettivi non ancora maturati maggiorati del prezzo per l’opzione di acquisto, era conforme all’art. 1526 c.c., realizzando l’interesse positivo del fornitore ed essendo prevista la detrazione dell’importo ricavato nel caso di futura vendita;
avverso questa decisione ricorrono per cassazione gli originari attori articolando sei motivi;
resiste con controricorso Cerved Credit Management s.p.a., quale procuratore del Credito Valtellinese s.p.a.;
il processo viene da ordinanza interlocutoria di questa Corte, n. 16350 del 2020, emessa a seguito di trattazione ai sensi dell’art. 380-bis.1 c.p.c. e pronunciata evidenziando la rimessione alle Sezioni Unite della questione inerente al secondo motivo di ricorso e di cui alla lett. b) sopra riportata in sintesi delle motivazioni della sentenza in questa sede gravata;
prima di tale ordinanza interlocutoria parte controricorrente ha depositato memoria;
successivamente entrambe le parti hanno depositato memorie.
Rilevato che:
con il primo motivo si prospetta la violazione e falsa applicazione dell’art. 112 c.p.c., art. 134 c.p.c., n. 4, art. 1938 c.c., poiché la Corte di appello avrebbe errato motivando in modo tautologico sulla nullità per mancata indicazione dell’importo massimo garantito, rilevabile in ogni stato e grado d’ufficio e dunque non tardiva, oltre che sussistente perché l’importo in parola non comprendeva le obbligazioni future e ulteriori tra le parti, cui pure la garanzia unitariamente pattuita era riferita;
con il secondo motivo si prospetta la violazione e falsa applicazione dell’art. 1526 c.c. e della L. n. 124 del 2017, art. 1, commi 138 e 139, poiché la Corte di appello avrebbe errato mancando di considerare che il bene era stato riconsegnato e messo a reddito mediante nuova locazione finanziaria con opzione di acquisto, e non ne era stato detratto il valore dall’importo della clausola penale, sicché si alterava in modo manifestamente eccessivo l’equilibrio contrattuale quale conformato dalla legge, da intendere ermeneuticamente alla luce della novella normativa evocata, per i rapporti contrattuali sorti precedentemente, e comunque dagli effetti non esauriti, come quello in discussione;
con il terzo motivo si prospetta l’omesso esame di un fatto decisivo e discusso rappresentato dall’opzione di acquisto prevista dal contratto di nuova locazione finanziaria stipulato dalla concedente una volta riacquisita la disponibilità del bene, non vagliata dalla Corte territoriale che aveva apoditticamente escluso nell’ipotesi la rivendita del bene, nel valutare l’eventuale necessità di detrarre dalla penale il correlativo valore;
con il quarto motivo si prospetta la violazione e falsa applicazione dell’art. 112 c.p.c., art. 1341 c.c., poiché la clausola penale di cui all’art. 11 del contratto non era stata idoneamente approvata in via specifica per iscritto, poiché vessatoria e mescolata a clausole non vessatorie, nonché sottoscritta a parte ma dopo una dichiarazione unilaterale di verità;
con il quinto motivo si prospetta la violazione e falsa applicazione della L. n. 287 del 1990, artt. 2, 14, 20,33,34, nonché dell’art. 112 c.p.c., art. 1421 c.c., poiché la Corte di appello avrebbe errato mancando di considerare che le clausole contrattuali della fideiussione, rilasciate nel 2006, sub 2, 6, 8, erano corrispondenti a quelle dei formulari ABI e dichiarate illegittime dalla Banca d’Italia con provvedimento n. 55 del 2 maggio 2005, che i deducenti producevano;
con il sesto motivo di ricorso si prospetta la violazione e falsa applicazione dell’art. 96 c.p.c., poiché la Corte di appello aveva pronunciato condanna ai sensi di questa norma senza neppure chiarire a quale delle ipotesi previste dal precetto facesse riferimento;
Rilevato che:
preliminarmente dev’essere osservato che, secondo quanto già evidenziato nell’ordinanza interlocutoria n. 16350 del 2020, le procure speciali rilasciate da B.M.G. e D.S. recano formalmente una data (del 15 gennaio 2018) antecedente alla pubblicazione della sentenza impugnata (del 13 giugno 2018);
come però osservato dai ricorrenti nella memoria depositata telematicamente, le stesse procure riportano il numero della sentenza impugnata, sicché, ad avviso del Collegio, deve desumersene che la datazione sovrastante la sottoscrizione autenticata è frutto di un errore materiale, posto, al contempo, che non risulta elemento alcuno da cui evincere possibili formazioni progressive o alterazioni dell’atto;
nella stessa memoria, inoltre, i ricorrenti deducono la nullità della procura sostanziale con mandato conferiti dal Credito Valtellinese s.p.a., a Cerved Credit Management s.p.a., per indeterminatezza dell’oggetto, con conseguente nullità dell’intero processo, compreso quello monitorio;
si tratta di eccezione inammissibile in quanto si risolve nell’utilizzo di una memoria illustrativa per l’introduzione di un motivo di ricorso che, al contempo, involge profili fattuali nuovi e come tale ulteriormente inammissibili in questa sede;
nel residuo merito cassatorio vale quanto di seguito;
il primo motivo è infondato;
la decisione impugnata osserva che nell’atto di opposizione a decreto ingiuntivo la questione in parola non era stata sollevata, a differenza, in particolare, della pretesa decadenza ex art. 1957 c.c., ipotizzandone così una tardività;
e però aggiunge che si trattava di una nullità negoziale, come tale rilevabile d’ufficio, a fronte di domanda fondata sulla stessa clausola involta nel vizio (affermazione corretta, a mente di Cass., Sez. U., 12/12/2014, n. 26242, e succ. conf. quale ad esempio Cass., 15/09/2020, n. 19161);
così statuendo, la Corte territoriale ha ammesso, implicitamente quanto univocamente, che quella tardività non sussisteva, e ha proceduto a una statuiziòne di merito impugnabile;
l’eccezione di nullità risulta, per converso, correttamente respinta dalla Corte di appello;
infatti, emerge da quanto allegato dagli stessi odierni ricorrenti (ex art. 366 c.p.c., n. 6: pag. 15 del ricorso) che l’importo massimo garantito per le fideiussioni, con riferimento al “leasing” garantito, era specificatamente indicato, mentre solo per ulteriori e distinte obbligazioni (future ed eventuali) tra le parti tale difetto sussisteva, sicché l’obbligazione di garanzia era, al riguardo del “leasing” cui accedette, da sussumere in una fattispecie legale di piena validità;
il quarto e il quinto motivo di ricorso, da esaminare prioritariamente e congiuntamente per ragioni logiche, sono inammissibile il primo e rinunciato il secondo;
quanto al primo la censura:
i) prospetta una questione nuova – non essendo dimostrato sia stata discussa nelle fasi di merito – e rilevabile dal solo aderente trattandosi di opponibilità allo stesso (cfr., ad esempio, Cass., 21/08/2017, n. 20205 e Cass., 30/11/2020, n. 27320);
ii) è comunque aspecifica, non essendo spiegato (ma affermato del tutto apoditticamente) perché vi sarebbe tale inopponibilità nonostante la separata sottoscrizione seguente alla “dichiarazione unilaterale di verità delle informazioni”: deve ricordarsi che quando nel ricorso per cassazione è denunziata una violazione o falsa applicazione di norme di diritto, il vizio della sentenza previsto dall’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, dev’essere dedotto, a pena di inammissibilità, non solo mediante la puntuale indicazione delle norme asseritamente violate, ma anche mediante specifiche argomentazioni, intese a dimostrare in quale modo determinate affermazioni in diritto, contenute ovvero in tesi erroneamente omesse nella sentenza gravata, debbano ritenersi (quelle fatte o le mancanze di quelle omesse) in contrasto con le norme regolatrici della fattispecie o con l’interpretazione delle stesse fornita dalla dottrina e dalla prevalente giurisprudenza di legittimità (cfr., ad esempio, Cass., 21/08/2020, n. 17570);
la seconda delle due censure ora in scrutinio, d’altra parte, risulta oggetto di rinuncia esplicitata con la memoria del 10 giugno 2020, depositata in vista dell’udienza del 7 luglio 2020;
e’ opportuno rimarcare che nella memoria ultima del 4 maggio 2021, tale rinuncia è rammentata nell’atto medesimo senza che risulti resa oggetto di allegazione di revoca, pur procedendosi a una illustrazione delle sottese ragioni (v. pag. 18);
tale revoca, in ogni caso, sarebbe stata inammissibile, posto che, una volta consumato il potere di rinuncia – non al ricorso ma – al motivo, la sua riproposizione si risolverebbe in un motivo aggiunto come tale non ammissibile prim’ancora che tardivo (cfr. anche, e solo ad esempio, Cass., 28/11/2018, n. 30760, che ribadisce la natura meramente illustrativa delle memorie; nonché Cass., 06/05/2020, n. 8552, in cui si sottolinea la consumazione del potere d’impugnazione con il primo ricorso dei due eventualmente notificati, salva elisione dello stesso, per invalidità o inammissibilità o prim’ancora improcedibilità, e riproposizione del successivo nei termini);
del resto, la rinuncia a uno o più motivi di ricorso, che rende superflua una decisione in ordine alla fondatezza o meno di tali censure, è efficace anche in mancanza della sottoscrizione della parte o del rilascio di uno specifico mandato al difensore, in quanto, implicando una valutazione tecnica in ordine alle più opportune modalità di esercizio della facoltà d’impugnazione e non comportando la disposizione del diritto in contesa, è rimessa alla discrezionalità del difensore stesso, e resta, dunque, sottratta alla disciplina di cui all’art. 390 c.p.c., per la rinuncia al ricorso (Cass., 13/01/2021, n. 414);
una volta avvenuta tale rinuncia, il tema resta escluso dal contraddittorio, che, pertanto, non può più essere risollecitato al di fuori dello schema legale proprio del giudizio di legittimità e che conforma il correlativo diritto di difesa avversaria;
in ogni caso il motivo poneva una questione – prima che nuova e non meglio illustrata in ricorso, facendosi riferimento a clausole differenti da quella dell’art. 11 del contratto – fondata su documento, ossia il provvedimento della Banca d’Italia evocato e risalente al 2005, manifestamente inammissibile ai sensi dell’art. 372 c.p.c., come pure obiettato subito in controricorso, poiché non afferente alla nullità (formale o processuale: cfr. ad es. Cass., 11/09/2018, n. 22095) della sentenza, e men che meno all’ammissibilità del ricorso (fermo che, diversamente, il tema sarebbe stato correlato alla recente rimessione alle Sezioni Unite di Cass., 30/04/2021, n. 11486);
il secondo e terzo motivo, da esaminare congiuntamente per connessione, sono fondati per quanto di ragione;
al riguardo, è necessario ripercorrere la ricostruzione nomofilattica del tema, operata molto di recente da Cass., Sez. U., 28/01/2021, n. 2061;
con questo arresto è stata esclusa l’applicabilità retroattiva della novella di cui alla L. n. 124 del 2017, evocata in censura, anche quale indice ermeneutico, al fine di sostenere la nullità della clausola ex art. 11 del contratto, più volte richiamata, volta a permettere al concedente del “leasing” risolto, di ottenere, quale penale, sia i canoni, anche quelli a scadere, maggiorati del prezzo per l’esercizio dell’opzione di acquisto, sia il bene, senza detrazione del residuo valore di mercato di questo qualora, come nel caso, riottenuto;
la decisione, dopo avere precisato che “in tema di leasing finanziario, la disciplina di cui alla L. n. 124 del 2017, art. 1, commi 136-140, non ha effetti retroattivi, sì che il comma 138 si applica alla risoluzione i cui presupposti si siano verificati dopo l’entrata in vigore della legge stessa”, ha, altresì, statuito che “per i contratti anteriormente risolti resta valida, invece, la distinzione tra leasing di godimento e leasing traslativo, con conseguente applicazione analogica, a quest’ultima figura, della disciplina dell’art. 1526 c.c., e ciò anche se la risoluzione sia stata seguita dal fallimento dell’utilizzatore, non potendosi applicare analogicamente la L. Fall., art. 72 quater”;
le Sezioni Unite, una volta ribadita la collocazione delle vicende risolutive anteriori nell’ambito dell’art. 1526 c.c., hanno poi precisato quanto segue ai fini della corretta lettura di questa norma;
“4.71. Il risarcimento del danno del concedente può, infatti, come nell’ipotesi qui in scrutinio, essere “oggetto di determinazione anticipata attraverso una clausola penale ai sensi dell’art. 1382 c.c. e in questo senso si è dispiegata l’autonomia privata nella costruzione, in base a modelli standardizzati, del social-tipo “contratto di leasing”, come risulta dalla stessa casistica oggetto di cognizione giudiziale, anche da parte di questa Corte di legittimità.
In tale contesto, quindi, si è fatta applicazione dell’art. 1526 c.c., comma 2 e del principio, già contemplato dall’art. 1384 c.c. (di cui la prima disposizione è un portato specifico), della riduzione equitativa, ad opera del giudice, della penale che, sebbene comunque lecita, si palesi manifestamente eccessiva, così da ricondurre l’autonomia contrattuale nei limiti in cui essa appare meritevole di tutela e riequilibrando, quindi, la posizione delle parti, avendo pur sempre riguardo all’interesse che il creditore aveva all’adempimento integrale (Cass., S.U., 13 settembre 2005, n. 18128).
Ecco, dunque, che la complessiva operazione – originatasi in seno all’autonomia privata e sussunta, attraverso l’analogia, nell’art. 1526 c.c., trova la sua compiuta regolamentazione attraverso la peculiare rilevanza che viene ad assumere dello stesso art. 1526 c.c., comma 2, ossia la norma che disciplina la clausola penale (c.d. clausola di confisca) e, quindi, il risarcimento del danno spettante in base ad essa al concedente in ipotesi di risoluzione del contratto di “leasing” traslativo per inadempimento dell’utilizzatore.
Ed è attraverso lo spettro filtrante di detta disposizione che la giurisprudenza di questa Corte ha potuto selezionare quali delle clausole standardizzate dall’autonomia privata fosse o meno meritevole di tutela alla luce della “ratio” di evitare indebite locupletazioni in capo al concedente e rispondente, quindi, ad un equilibrato assetto delle posizioni delle parti contrattuali.
Pertanto, si è ritenuto manifestamente eccessiva la penale che, mantenendo in capo al concedente la proprietà del bene, gli consente di acquisire i canoni maturati fino al momento della risoluzione, ciò comportando un indebito vantaggio derivante dal cumulo della somma dei canoni e del residuo valore del bene (tra le molte, Cass., 27 settembre 2011, n. 19732, nonché… Cass. n. 1581 del 2020).
E’ stata, invece, reputata coerente con la previsione contenuta dell’art. 1526 c.c., comma 2, la penale inserita nel contratto di “leasing” traslativo prevedente l’acquisizione dei canoni riscossi con detrazione, dalle somme dovute al concedente, dell’importo ricavato dalla futura vendita del bene restituito (tra le altre… Cass. n. 15202 del 2018 e Cass. n. 1581 del 2020, nonché Cass., 28 agosto 2019, n. 21762 e Cass., 8 ottobre 2019, n. 25031).
Trattasi, dunque, di patto che, quale espressione di una razionalità propria della realtà socio-economica, ha trovato origine e sviluppo nell’ambito dell’autonomia privata, il cui regolamento è stato, per un verso, assunto dal legislatore a parametro di una disciplina dapprima solo settoriale e specifica (tra cui quella dettata dalla L. Fall., art. 72-quater) e poi, da un dato momento in avanti, generale (con la L. n. 124 del 2017) e, per altro verso, dalla giurisprudenza a metro di rispondenza alla “ratio” della disciplina applicata analogicamente al contratto di “leasing” traslativo.
4.7.2. In tale prospettiva va allora considerato che, ove la vendita o altra allocazione sul mercato del bene concesso in “leasing” non avvenga, non vi può essere (come precisato da Cass. n. 15202 del 2018, citata) “in concreto una locupletazione che eluda il limite… ai vantaggi perseguiti e legittimamente conseguibili dal concedente in forza del contratto”.
Per cui resta fermo il diritto dell’utilizzatore “di ripetere l’eventuale maggior valore che dalla vendita del bene (a prezzo di mercato)” ricavi il concedente, “rispetto alle utilità che (quest’ultimo)… avrebbe tratto dal contratto qualora finalizzato con il riscatto del bene” (quale tutela già settorialmente tipizzata legalmente, come detto, dalla L. Fall., stesso art. 72-quater). Con l’ulteriore puntualizzazione che, nel caso in cui la clausola penale non faccia riferimento ad una collocazione del bene a prezzi di mercato, essa “dovrà esser letta negli stessi termini alla luce del parametro della buona fede contrattuale, ex art. 1375 c.c.” (così ancora Cass. n. 15202 del 2018).
Se, invece, il contratto preveda una clausola penale manifestamente eccessiva (acquisizione dei canoni riscossi e mantenimento della proprietà del bene: c.d. clausola di confisca), essa, ai sensi dell’art. 1526 c.c., comma 2, andrà ridotta dal giudice, anche d’ufficio (ove, naturalmente, la penale stessa sia stata fatta oggetto di domanda ovvero dedotta in giudizio come eccezione – in senso stretto – nel rispetto delle preclusioni di rito: Cass., 12 settembre 2014, n. 19272), nell’esercizio del potere correttivo della volontà delle parti contrattuali affidatogli dalla legge, al fine di ristabilire in via equitativa un congruo contemperamento degli interessi contrapposti (Cass., S.U., n. 18128 del 2005, citata) e, quindi, nella specie dovendo operare una valutazione comparativa tra il vantaggio che la penale inserita nel contratto di “leasing” traslativo assicura al contraente adempiente e il margine di guadagno che il medesimo si riprometteva legittimamente di trarre dalla regolare esecuzione del contratto (tra le altre, Cass. n. 4969 del 2007… e Cass., 21 agosto 2018, n. 20840).
A tal riguardo, tenuto conto delle circostanze concrete del caso oggetto di sua cognizione, occorrerà che il giudice privilegi la soluzione innanzi evidenziata, e, quindi, ferma restando l’irripetibilità dei canoni già riscossi, provveda ad una stima del bene ai valori di mercato al momento della restituzione dello stesso (se il bene non sia stato venduto o altrimenti allocato e, dunque, in tale evenienza costituendosi a parametro i valori rispettivamente conseguiti) e, quindi, detragga il valore stimato dalle somme dovute al concedente…”;
il Collegio, sulla base dei principi affermati dalle Sezioni Unite, rileva che vicende come quelle di cui è processo, vanno apprezzate dovendosi escludere che clausole come quella di cui nei motivi in esame si sostiene l’invalidità, siano nulle, in quanto l’arresto delle Sezioni Unite lo ha escluso;
ne consegue che l’approdo finale dei due motivi in esame, là dove invoca la declaratoria di nullità è privo di pregio;
viceversa, dette vicende e, dunque, anche quelle per cui è processo, si prestano ad essere apprezzate, una volta considerato che la clausola in parola non può essere considerata invalida, nel senso che l’operatività in concreto della stessa e, quindi, la determinazione delle sue conseguenze, debba essere individuata e, quindi, resti soggetta, all’incidenza del potere di riduzione della penale da parte del giudice;
secondo l’ormai risalente arresto di cui alla già ricordata Cass., Sez. Un., n. 18128 del 2005 l’esercizio del detto potere deve avvenire d’ufficio e, pertanto, i fatti giustificativi, cioè il tenore della clausola penale, se sono stati introdotti nel processo, si prestano a giustificarne l’esercizio, a differenza di quanto accadeva secondo la giurisprudenza pregressa, che postulava una sollecitazione di parte all’esercizio del potere;
ne deriva che, quando in giudizio sia invocata in via di azione ovvero di eccezione avverso la pretesa altrui l’operatività della clausola penale e, dunque, quando i fatti integratori della medesima siano stati introdotti in giudizio nell’esercizio del potere proprio delle parti, l’esistenza del potere officioso del giudice di ridurre gli effetti della clausola si concreta in un’eccezione in senso lato, rispettivamente, di fronte alla domanda fondata sull’invocazione della clausola penale, e di fronte alla prospettazione della stessa come eccezione avverso la domanda altrui (si pensi a una domanda di ripetizione d’indebito, a fronte della quale s’invochi una tale clausola);
la rilevazione delle condizioni per l’esercizio del potere di riduzione, sulla base dei fatti evidenziatori della clausola in parola, può essere frutto di sollecitazione di parte oppure, come ritennero le Sezioni Unite nel 2005, d’iniziativa del giudice, e le stesse Sezioni Unite, nel ricordato arresto di quest’anno, hanno rimarcato che l’esercizio del potere, e pertanto dovere, del giudice di ridurne officiosamente la manifesta eccessività, ovvero di ricondurla all’equità tipica così ricostruita, è una necessità che trova ostacolo solo nella circostanza che la clausola penale sia stata resa oggetto di domanda ovvero eccezione;
si tratta a questo punto di domandarsi se, in mancanza di formazione di giudicato interno in senso contrario (cioè nel senso di escludere le condizioni per l’esercizio), il giudice dell’impugnazione abbia il potere di rilevare che il giudice del grado precedente doveva esercitare il potere di riduzione e non lo ha fatto;
la risposta è certamente positiva per il giudice di appello quando l’omesso esercizio del potere è imputabile al primo giudice: si è detto che le condizioni di esercizio del potere integrano un’eccezione in senso lato, appunto rilevabile d’ufficio dal giudice cui spetta il potere officioso di applicare l’art. 1384 c.c.;
l’eccezione, risultando già introdotti nel primo grado i fatti sottesi alla clausola penale, è rilevabile d’ufficio ai sensi dell’art. 345 c.p.c., comma 2 e, dunque, la sollecitazione all’esercizio del potere può essere prospettata dalla parte e, se la parte non lo faccia, può praticarsi dal giudice;
la risposta al quesito su indicato, poi, è certamente positiva anche per il giudice di legittimità, quando il potere non sia stato esercitato né dal primo giudice né dal giudice di appello, con la sola condizione, discendente dalla struttura del giudizio di cassazione, che non siano necessari accertamenti di fatto, il che, essendo stato oggetto dei motivi di ricorso per cassazione il tenore della clausola penale e, dunque, essendo stato rispettato il requisito dell’art. 366 c.p.c., n. 6, è evidente;
nella fattispecie che si giudica tale requisito è stato rispettato e i due motivi in esame, là dove diretti a evidenziare la nullità della clausola penale, evidenziano senza necessità di accertamenti di fatto la situazione che avrebbe giustificato, secondo i “dicta” delle Sezioni Unite del 2021, l’esercizio del potere officioso del giudice di merito;
nello scrutinare le censure in parola, questa Corte ha dunque il potere e dovere di rilevare officiosamente quella necessità di riduzione della clausola penale, in quanto essa è stata allegata, discussa dalle parti e tra le stesse parti è pacifica nei riportati contenuti, che vedono la vendita del bene non effettuata ma futura ed eventuale, rispetto al nuovo e dunque profittevole “leasing” perfezionato con terzi, con conseguente necessità di detrarre il valore del bene previa sua stima;
il rilievo di questa ragione – differente da quella esercitata in ricorso nei termini di nullità della clausola – avviene nell’esercizio del potere di corretta qualificazione in diritto dei fatti oggetto della questione proposta dai motivi;
l’esistenza in capo alla Suprema Corte di cassazione di detto potere non è revocabile in dubbio (Cass., 29/09/2005, n. 19132 e succ. conf., tra cui a titolo esemplificativo Cass., 13/11/2006, n. 24183, Cass., 17/05/2011, n. 10841, Cass., 03/12/2020, n. 27704), in quanto trova giustificazione, oltre che nella propria funzione del giudice di legittimità di garantire l’esatta osservanza e l’uniforme interpretazione della legge (art. 65 ord. giud., comma 1), anche in una peculiare norma di legge, che conforma i poteri della Corte, contenuta nel quarto (attuale) comma dell’art. 384 c.p.c., in cui è prevista la correzione della motivazione in diritto, con salvezza del dispositivo e, quindi, dell’assetto di interessi per come regolato dalla sentenza di merito, quando la soluzione della questione “in iure” data dalla sentenza impugnata sia errata e, tuttavia, esista una diversa ragione giuridica, che, senza richiedere accertamenti di fatto, ossia istruttori, cui non potrebbe procedere la Corte, sia idonea a sorreggere la soluzione della lite sancita dal dispositivo in relazione alla questione sollevata dal gravame;
resta inteso al contempo che non dev’essere implicata una violazione del principio dispositivo, ossia che non si pronunci su eccezioni non sollevate dalle parti e non rilevabili d’ufficio (cfr. anche, ad ulteriore esempio, Cass., 28/07/2017, n. 18775);
poiché, cioè, la Corte di Cassazione, per quello che suppone direttamente dell’art. 384 c.p.c., comma 4, può procedere alla corretta qualificazione in diritto della fattispecie in funzione della questione proposta dal motivo quando rileva che la sentenza impugnata ha commesso effettivamente l’errore di giudizio dedotto con la censura e che, tuttavia, il dispositivo della sentenza è corretto in diritto sulla base dell’altra qualificazione, per un’esigenza logicamente irriducibile di omologia deve ritenersi che la stessa Corte, nel procedere all’individuazione del diritto applicabile a quanto devoluto con il motivo di ricorso, non può che avere lo stesso potere di qualificazione, anche quando tale individuazione conduce all’accoglimento di una censura che, altrimenti, sarebbe infondata in base alla specifica ragione “in iure” dedotta dalla parte;
nel caso, e in altri termini, poiché per stabilire se la clausola è nulla è necessario interrogarsi prioritariamente sul perimetro di validità della stessa, alla Corte è devoluto il potere di rilevazione officiosa in parola, e di conseguenza essa deve accogliere per quanto di ragione il motivo;
difatti, una volta che si è affermato il principio di rilevabilità d’ufficio del potere di riduzione della penale, il suo esercizio, o meglio le condizioni per il suo esercizio, hanno valore di eccezione in senso lato, dovendo esercitarsi il suddetto potere in relazione alla domanda proposta in forza della penale e per ottenere quanto previsto dalla medesima clausola;
il motivo sarebbe stato inidoneo a essere concludente come tale, rispetto all’effetto compiuto perseguito, ma deve dirsi fondato, sulla base del diritto che deve applicarsi per scrutinarlo, quanto a un effetto minore, ovvero quello di una riduzione del credito;
la rilevabilità officiosa di tale eccezione rende cioè ingiusta la sentenza quanto all’effetto postulato dal motivo che è quello di escludere il credito, ma solo in parte, nella misura oggetto del potere di riduzione di cui all’art. 1384 c.c.;
le parti hanno espressamente discusso nelle memorie illustrative finali l’arresto delle Sezioni Unite del 2021, sopra richiamato, e dunque anche il tema in parola, sicché già in ragione di ciò non è ipotizzabile la necessità di sollecitazione di un ulteriore contraddittorio, ai sensi dell’art. 384 c.p.c., comma 3, riguardo a un punto che già ne ha costituito oggetto;
per completezza, deve peraltro registrarsi l’orientamento di questa Corte secondo cui, in ogni caso, l’art. 384 c.p.c., comma 3, non sarebbe stato “in radice” applicabile, sulla base della ricostruzione a mente della quale anche nel regime del ricorso di cassazione conseguente all’introduzione dell’art. 101 c.p.c., comma 2, l’esercizio da parte della Corte di cassazione del potere d’ufficio di correzione della motivazione della sentenza, ai sensi della speciale previsione di cui art. 384 c.p.c., comma 4, non è stato soggetto dal legislatore alla regola di cui al comma 3 del medesimo articolo, che impone alla Corte il dovere di stimolare il contraddittorio delle parti sulle questioni rilevabili d’ufficio da porre a fondamento della decisione (Cass., 27/07/2011, n. 16401, Cass., 30/08/2011, n. 17779);
e, secondo questa impostazione, una volta desunto il potere di accoglimento del motivo, in base a un rilievo officioso, da una ragione sistematica di omologia con il potere di correzione, così come, al contempo, una volta iscritto quel potere nella cornice della medesima funzione nomofilattica di assicurare l’esatta applicazione del diritto nazionale, la ragione che giustifica la sottrazione del potere di correzione alla necessità di sollecitazione del contraddittorio non può non valere per il caso speculare e logicamente omogeneo ora in questione, anche per una cogente implicazione del principio di pari trattamento delle parti;
in conclusione, la Corte territoriale è quindi incorsa in errore di diritto, là dove ha omesso di esercitare il potere di riduzione della clausola penale e, dunque, di accertare se sussistevano o meno le condizioni per ridurre l’effetto della clausola;
l’omesso esercizio di detto potere ha determinato, pur esclusa la nullità della clausola, secondo i principi enunciati da Cass., Sez. Un. 2061 del 2021, l’erroneità della decisione impugnata e tale errore è frutto della mancata valutazione dell’eccezione in senso lato di esercitabilità del potere riduttivo;
eccezione che il giudice di appello doveva valutare d’ufficio e che provvederà a valutare il giudice del rinvio, al quale, sulla base delle risultanze acquisite al giudizio, spetterà di spiegare se in concreto ricorrano le condizioni per la riduzione oppure no, tenendo doveroso conto, quindi, dei principi indicati dalle Sezioni Unite, a fronte dei quali, inoltre, a nulla può rilevare la dedotta (in memoria di parte controricorrente) impossibilità di assumere l’alea della rivendita (qui peraltro avviata dall’opzione di acquisto del successivo “leasing”) trattandosi di istituto di credito e venendo in gioco anche la connessa tutela del risparmio, poiché, invece, la “posizione” o qualità soggettiva della banca non può intercettare una differenza rispetto alla oggettiva locupletazione determinata dall’eccesso della clausola penale;
il sesto motivo è assorbito;
spese al giudice del rinvio.
P.Q.M.
La Corte rigetta il primo motivo, dichiara inammissibili il quarto e il quinto, accoglie il secondo e terzo per quanto di ragione, assorbito il sesto, cassa in relazione la decisione impugnata e rinvia alla Corte di appello di Milano perché pronunci anche sulle spese di legittimità.
Così deciso in Roma, il 21 maggio 2021.
Depositato in Cancelleria il 30 settembre 2021