LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONI UNITE CIVILI
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. SPIRITO Angelo – Primo Presidente f.f. –
Dott. DE CHIARA Carlo – Presidente di Sez. –
Dott. ACIERNO Maria – Presidente di Sez. –
Dott. GIUSTI Alberto – Consigliere –
Dott. COSENTINO Antonello – Consigliere –
Dott. GRAZIOSI Chiara – rel. Consigliere –
Dott. CIRILLO Francesco Maria – Consigliere –
Dott. CRUCITTI Roberta – Consigliere –
Dott. NAZZICONE Loredana – Consigliere –
ha pronunciato la seguente:
SENTENZA
sul ricorso 6359/2020 proposto da:
F. HOFFMANN-LA ROCHE LTD, in persona dei legali rappresentanti pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, PIAZZA DI SPAGNA 15, presso lo STUDIO CLEARY GOTTLIEB & HAMILTON LLP, rappresentata e difesa dagli avvocati MARIO SIRAGUSA, MARCO ZOTTA e PIETRO MERLINO;
– ricorrente –
contro
AUTORITA’ GARANTE DELLA CONCORRENZA E DEL MERCATO, in persona del Presidente pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, VIA DEI PORTOGHESI 12, presso l’AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO;
REGIONE LOMBARDIA, in persona del Presidente della Regione pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, VIALE DELLE MILIZIE 34, presso lo studio dell’avvocato CRISTIANO BOSIN, rappresentata e difesa dagli avvocati PIO DARIO VIVONE, e MARIA EMILIA MORETTI;
S.O.I. – A.M.O.I. SOCIETA’ OFTALMOLOGICA ITALIANA – ASSOCIAZIONE MEDICI OCULISTI ITALIANI, in persona del Presidente pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, VIA SABOTINO 2-A, presso lo studio dell’avvocato VALENTINO VULPETTI, rappresentata e difesa dall’avvocato RAFFAELE LA PLACA;
REGIONE EMILIA ROMAGNA, in persona del Presidente della Giunta regionale pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, PIAZZA GRAZIOLI 5, presso lo studio dell’avvocato MARIA ROSARIA RUSSO VALENTINI, che la rappresenta e difende unitamente all’avvocato ROBERTO BONATTI;
A.I.U.D.A.P.D.S. – ASSOCIAZIONE ITALIANA DELLE UNITA’ DEDICATE AUTONOME PRIVATE DI DAY SURGERY E DEI CENTRI DI CHIRURGIA AMBULATORIALE, in persona del Presidente pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, VIALE LOVANIO 16, presso lo studio dell’avvocato FRANCESCA TOPPETTI, rappresentata e difesa dagli avvocati GIORGIO ZACCANTI, e GIORGIO MUCCIO;
– controricorrenti –
e contro
ALTROCONSUMO, CODACONS, NOVARTIS FARMA, ROCHE S.P.A., NOVARTIS AG;
– intimati –
sul ricorso 6668/2020 proposto da:
NOVARTIS AG, in persona dei legali rappresentanti pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, VIA GIULIA 4, presso lo STUDIO LEGALE ASSOCIATO IN ASSOCIAZIONE CON LINKLATERS LLP, rappresentata e difesa dagli avvocati LUCIO D’AMARIO, PAOLO BERTOLINI, GIAN BATTISTA ORIGONI DELLA CROCE, MANUELA CACCIALANZA ed ALESSANDRO VILLANI;
– ricorrente –
contro
AUTORITA’ GARANTE DELLA CONCORRENZA E DEL MERCATO, in persona del Presidente pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, VIA DEI PORTOGHESI 12, presso l’AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO;
S.O.I. – A.M.O.I. SOCIETA’ OFTALMOLOGICA ITALIANA – ASSOCIAZIONE MEDICI OCULISTI ITALIANI, in persona del Presidente pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, VIA SABOTINO 2-A, presso lo studio dell’avvocato VALENTINO VULPETTI, rappresentata e difesa dall’avvocato RAFFAELE LA PLACA;
REGIONE EMILIA ROMAGNA, in persona del Presidente della Giunta regionale pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, PIAZZA GRAZIOLI 5, presso lo studio dell’avvocato MARIA ROSARIA RUSSO VALENTINI, che la rappresenta e difende unitamente all’avvocato ROBERTO BONATTI;
CODACONS – COORDINAMENTO DELLE ASSOCIAZIONI PER LA TUTELA DELL’AMBIENTE E DIRITTI DEGLI UTENTI E DEI CONSUMATORI, in persona del Presidente pro tempore, elettivamente domiciliato in ROMA, VIALE G. MAZZINI 73, presso l’Ufficio Legale Nazionale del Codacons, rappresentato e difeso dagli avvocati CARLO RIENZI, e GINO GIULIANO;
REGIONE LOMBARDIA, in persona del Presidente della Regione pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, VIALE DELLE MILIZIE 34, presso lo studio dell’avvocato CRISTIANO BOSIN, rappresentata e difesa dagli avvocati PIO DARIO VIVONE e MARIA EMILIA MORETTI;
A.I.U.D.A.P.D.S. – ASSOCIAZIONE ITALIANA DELLE UNITA’ DEDICATE AUTONOME PRIVATE DI DAY SURGERY E DEI CENTRI DI CHIRURGIA AMBULATORIALE, in persona del Presidente pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, VIALE LOVANIO 16, presso lo studio dell’avvocato FRANCESCA TOPPETTI, rappresentata e difesa dagli avvocati GIORGIO ZACCANTI e GIORGIO MUCCIO;
– controricorrenti –
e contro
ROCHE S.P.A., F. HOFFMANN – LA ROCHE LTD, ALTROCONSUMO, AGENZIA ITALIANA DEL FARMACO, NOVARTIS FARMA S.P.A.;
– intimati –
sul ricorso 6672/2020 proposto da:
NOVARTIS FARMA S.P.A., in persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, VIA GIULIA 4, presso lo STUDIO LEGALE ASSOCIATO IN ASSOCIAZIONE CON LINKLATERS LLP, rappresentata e difesa dagli avvocati LUCIO D’AMARI, PAOLO BERTOLINI, GIAN BATTISTA ORIGONI DELLA CROCE, MANUELA CACCIALANZA ed ALESSANDRO VILLANI;
– ricorrente –
contro
A.I.U.D.A.P.D.S. – ASSOCIAZIONE ITALIANA DELLE UNITA’ DEDICATE AUTONOME PRIVATE DI DAY SURGERY E DEI CENTRI DI CHIRURGIA AMBULATORIALE, in persona del Presidente pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, VIALE LOVANIO 16, presso lo studio dell’avvocato FRANCESCA TOPPETTI, rappresentata e difesa dagli avvocati GIORGIO ZACCANTI e GIORGIO MUCCIO;
REGIONE EMILIA ROMAGNA, in persona del Presidente della Giunta regionale pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, PIAZZA GRAZIOLI 5, presso lo studio dell’avvocato MARIA ROSARIA RUSSO VALENTINI, che la rappresenta e difende unitamente all’avvocato ROBERTO BONATTI;
AUTORITA’ GARANTE DELLA CONCORRENZA E DEL MERCATO, in persona del Presidente pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, VIA DEI PORTOGHESI 12, presso l’AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO;
S.O.I. – A.M.O.I. SOCIETA’ OFTALMOLOGICA ITALIANA – ASSOCIAZIONE MEDICI OCULISTI ITALIANI, in persona del Presidente pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, VIA SABOTINO 2-A, presso lo studio dell’avvocato VALENTINO VULPETTI, rappresentata e difesa dall’avvocato RAFFAELE LA PLACA;
REGIONE LOMBARDIA, in persona del Presidente della Regione pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, VIALE DELLE MILIZIE 34, presso lo studio dell’avvocato CRISTIANO BOSIN, rappresentata e difesa dagli avvocati PIO DARIO VIVONE e MARIA EMILIA MORETTI;
– controricorrenti –
e contro
ROCHE S.P.A., F. HOFFMANN – LA ROCHE LTD, ALTROCONSUMO, AGENZIA ITALIANA DEL FARMACO, CODACONS, NOVARTIS AG;
– intimati –
sul ricorso 6697/2020 proposto da:
ROCHE S.P.A., in persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, VIA SARDEGNA 38, presso lo STUDIO LEGALE RUCELLAI & RAFFAELLI, rappresentata e difesa dagli avvocati ENRICO ADRIANO RAFFAELLI, che lo rappresenta e difende unitamente all’avvocato e FABIO ELEFANTE;
– ricorrente –
contro
S.O.I. – A.M.O.I. SOCIETA’ OFTALMOLOGICA ITALIANA – ASSOCIAZIONE MEDICI OCULISTI ITALIANI, in persona del Presidente pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, VIA SABOTINO 2-A, presso lo studio dell’avvocato VALENTINO VULPETTI, rappresentata e difesa dall’avvocato RAFFAELE LA PLACA;
REGIONE EMILIA ROMAGNA, in persona del Presidente della Giunta regionale pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, PIAZZA GRAZIOLI 5, presso lo studio dell’avvocato MARIA ROSARIA RUSSO VALENTINI, che la rappresenta e difende unitamente all’avvocato ROBERTO BONATTI;
AUTORITA’ GARANTE DELLA CONCORRENZA E DEL MERCATO, in persona del Presidente pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, VIA DEI PORTOGHESI 12, presso l’AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO;
A.I.U.D.A.P.D.S. – ASSOCIAZIONE ITALIANA DELLE UNITA’ DEDICATE AUTONOME PRIVATE DI DAY SURGERY E DEI CENTRI DI CHIRURGIA AMBULATORIALE, in persona del Presidente pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, VIALE LOVANIO 16, presso lo studio dell’avvocato FRANCESCA TOPPETTI, rappresentata e difesa dagli avvocati GIORGIO ZACCANTI e GIORGIO MUCCIO;
REGIONE LOMBARDIA, in persona del Presidente della Regione pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, VIALE DELLE MILIZIE 34, presso lo studio dell’avvocato CRISTIANO BOSIN, rappresentata e difesa dagli avvocati PIO DARIO VIVONE e MARIA EMILIA MORETTI;
– controricorrenti –
e contro
ALTROCONSUMO, CODACONS, NOVARTIS FARMA S.P.A., F. HOFFMANN – LA ROCHE LTD, NOVARTIS AG.;
– intimati –
avverso la sentenza n. 4990/2019 del CONSIGLIO DI STATO, depositata il 15/07/2019.
Udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 13/07/2021 dal Consigliere Dott. CHIARA GRAZIOSI;
udito il Pubblico Ministero in persona dell’Avvocato Dott. FINOCCHI GHERSI Renato, che ha concluso per l’inammissibilità o infondatezza dei ricorsi;
uditi gli avvocati Mario Siragusa, Marco Zotta, Pietro Merlino, Giorgio Muccio, Paolo Gentili per l’Avvocatura Generale dello Stato, Roberto Bonatti, Cristiano Bosin per delega dell’avvocato Maria Emilia Moretti, Raffaele La Placa, Lucio D’Amario, Manuela Caccialanza, Alessandro Villani, Cristina Adducci per delega dell’avvocato Carlo Rienzi, Enrico Adriano Raffaelli.
FATTI DI CAUSA
1. Genentech Inc., società biotecnologica del gruppo farmaceutico Roche, sviluppò alla fine del secolo scorso un prodotto denominato “bevacizumab”, che utilizzò come principio attivo di un farmaco, il quale fu chiamato *****;
ne ricavò poi un frammento denominato “ranibizumab”, che pure utilizzò come principio attivo di un farmaco, il quale fu chiamato *****.
Nel 2003 il gruppo Roche stipulò con Genentech un accordo di licenza per *****; un altro gruppo farmaceutico, il gruppo Novartis, stipulò con la stessa società biotecnologica un accordo di licenza per *****.
Il 26 settembre 2005 AIFA recepì l’Autorizzazione all’Immissione in Commercio – c.d. AIC – rilasciata a livello Europeo da EMA per ***** in ordine al trattamento di tumori metastatici colorettali, al contempo inserendo il farmaco nella classe H, ovvero nella classe dei farmaci utilizzabili in ambiente ospedaliero e a carico del Servizio Sanitario Nazionale.
***** invece ottenne da AIFA il 31 maggio 2007 AIC per trattamento di degenerazione maculare senile – nota come AMD -, con inserimento nella classe C, cioè nella classe dei farmaci non rimborsabili; fu poi inserito nella classe H il 4 dicembre 2008.
Nel tempo intercorso tra l’ingresso nel mercato di ***** e l’ingresso nel mercato di *****, alcuni medici, esercitando l’attività clinica, si avvidero che ***** generava effetti positivi pure su AMD; venne quindi a diffondersi il suo utilizzo c.d. off-label pure nel settore oftalmico, utilizzo proseguito dopo l’entrata in commercio di *****, essendo questo assai più costoso.
Si svolse una complessa vicenda, in cui dapprima – nel maggio 2007 – AIFA inserì ***** nella lista dei farmaci di cui alla L. 23 dicembre 1996, n. 648, art. 1, comma 4 – c.d. Lista 648 -, contenente i farmaci rimborsabili anche per l’uso off-label a causa dell’assenza di una valida alternativa terapeutica autorizzata specificamente per determinate patologie oftalmiche. Sopravvenuti in seguito farmaci specifici – tra cui ***** – AIFA escluse la rimborsabilità di ***** per tali patologie e il 18 ottobre 2012 espunse del tutto il farmaco dalla Lista 648 per modifiche ed integrazioni operate da EMA il 30 agosto 2012 sul relativo RCP (Riassunto delle Caratteristiche del Prodotto). Infine, con determinazione del 23 giugno 2014, AIFA rese di nuovo rimborsabile ***** utilizzato off-label, ma esclusivamente per AMD.
A ridosso temporale di questa conclusione della vicenda propriamente medico-farmaceutica, con provvedimento 27 febbraio 2014 n. 24823 l’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato (AGCM), a seguito di un procedimento suscitato da denunce avanzate da Associazione Italiana Unità Dedicate Autonome di Day Surgery (AIUDAPS) e da Società Oftalmologica Italiana (SOI), con interventi della Regione Emilia Romagna e di Altroconsumo, accertato che quantomeno dal giugno 2011 i due gruppi farmaceutici Roche e Novartis avevano attuato una concertazione contraria all’art. 101, par. 1, lett. c), TFUE per indurre in relazione alle patologie oftalmiche lo spostamento del mercato verso il farmaco più costoso, cioè il *****, vietò futuri comportamenti analoghi e irrogò sanzioni amministrative pecuniarie alle quattro società coinvolte, ovvero alle rispettive capogruppo svizzere e alle controllate filiali italiane: a Hoffmann-La Roche LTD e La Roche S.p.A. in solido nella misura di Euro 90.539.369 e a Novartis AG e Novartis Farma S.p.A. in solido nella misura di Euro 92.028.750.
2.1 Ognuna delle suddette società ha impugnato il provvedimento di AGCM davanti al Tar del Lazio, il quale, dopo aver riunito le cause – intervenuta nel processo anche Regione Lombardia -, ha rigettato tutte le impugnazioni con sentenza del 2 dicembre 2014 n. 12168.
Le quattro società hanno proposto autonomi appelli avverso tale sentenza.
2.2 Il Consiglio di Stato, a sua volta riunite le cause, ha effettuato rinvio pregiudiziale ai sensi dell’art. 266 TFUE, formulando – come espone poi nella motivazione della sentenza qui impugnata, nelle pagine 15 s. – i seguenti quesiti:
“1) Se la corretta interpretazione dell’art. 100 TFUE consenta di considerare concorrenti le parti di un accordo di licenza laddove l’impresa licenziataria operi nel mercato rilevante interessato solo in virtù dell’accordo stesso. Se, ed eventualmente entro quali limiti, ricorrendo tale situazione, le eventuali limitazioni della concorrenza del licenziante nei confronti del licenziatario, pur non espressamente previste dall’accordo di licenza, sfuggano all’applicazione dell’art. 101, par. 1 TFUE o rientrino, comunque, nell’ambito di applicazione dell’eccezione legale di cui all’art. 101, par. 3 TFUE;
2) Se l’art. 101 TFUE consenta all’Autorità nazionale a tutela della concorrenza di definire il mercato rilevante in maniera autonoma rispetto al contenuto delle autorizzazioni all’immissione in commercio (AIC) dei farmaci rilasciate dalle competenti Autorità di regolazione farmaceutica (AIFA ed EMA) o se, al contrario, per i medicinali autorizzati, il mercato giuridicamente rilevante ai sensi dell’art. 101 TFUE debba ritenersi conformato e configurato in via primaria dall’apposita Autorità di regolazione in modo vincolante anche per l’Autorità nazionale a tutela della concorrenza;
3) Se, anche alla luce delle previsioni contenute nella direttiva 2001/83 CE ed in particolare nell’art. 5 relativo all’autorizzazione all’immissione in commercio dei farmaci, l’art. 101 TFUE consenta di considerare sostituibili e di includere, quindi, nell’ambito dello stesso mercato rilevante del farmaco utilizzato off-label ed un farmaco dotato di AIC in relazione alle medesime indicazioni terapeutiche;
4) Se, ai sensi dell’art. 101 TFUE, ai fini della delimitazione del mercato rilevante, assuma rilevanza accertare, oltre alla sostanziale fungibilità dei prodotti farmaceutici dal lato della domanda, se l’offerta degli stessi sul mercato sia o meno avvenuta in conformità al quadro regolamentare avente ad oggetto la commercializzazione dei farmaci;
5) Se possa comunque considerarsi restrittiva della concorrenza per oggetto la condotta concertata volta ad enfatizzare la minore sicurezza o la minore efficacia di un farmaco, quando tale minore efficacia o sicurezza, sebbene non suffragata da acquisizioni scientifiche certe, non può, comunque, alla luce dello stadio delle conoscenze scientifiche disponibili all’epoca dei fatti, neanche essere incontrovertibile esclusa”.
La Corte di Giustizia, Grande Sezione, con sentenza del 23 gennaio 2018, C179/16, F.Hoffman-La Roche LTD. e altri c. AGCM, ha ripartito in quattro le sue risposte, le quali – anch’esse trascritte nella sentenza qui impugnata, nelle pagine 16 s. – sono state le seguenti.
La prima indica che l’art. 101 TFUE, ai fini della sua applicazione, va interpretato nel senso che “un’autorità nazionale garante della concorrenza può includere nel mercato rilevante, oltre ai medicinali autorizzati per il trattamento delle patologie di cui trattasi, un altro medicinale la cui autorizzazione all’immissione in commercio non copra detto trattamento, ma che è utilizzato a tal fine e presenta quindi un rapporto concreto di sostituibilità con i primi. Per determinare se sussista un siffatto rapporto di sostituibilità, tale autorità deve – sempreché le autorità o i giudici competenti a tal fine abbiano condotto un esame della conformità del prodotto in questione alle disposizioni vigenti che ne disciplinano la fabbricazione o la commercializzazione – tener conto del risultato di detto esame, valutandone i possibili effetti sulla struttura della domanda e dell’offerta”.
La seconda afferma che lo stesso art. 101, par. 1, va interpretato “nel senso che un’intesa convenuta tra le parti di un accordo di licenza relativo allo sfruttamento di un medicinale la quale, al fine di ridurre la pressione concorrenziale sull’uso di tali medicinali per il trattamento di determinate patologie, miri a limitare le condotte di terzi consistenti nel promuovere l’uso di un altro medicinale per il trattamento delle medesime patologie, non sfugge all’applicazione di tale disposizione per il motivo che tale intesa sarebbe accessoria a detto accordo”.
La terza dichiara che il medesimo art. 101, par. 1, si interpreta “nel senso che costituisce una restrizione della concorrenza “per oggetto”… l’intesa tra due imprese che commercializzano due medicinali concorrenti, avente ad oggetto – in un contesto segnato dall’incertezza delle conoscenze scientifiche la diffusione presso l’Agenzia Europea per i medicinali, gli operatori sanitari e il pubblico, di informazioni ingannevoli sugli effetti collaterali negativi dell’uso di uno di tali medicinali per il trattamento di patologie non coperte dall’autorizzazione all’immissione in commercio di quest’ultimo, al fine di ridurre la pressione concorrenziale derivante da tale uso sull’uso dell’altro medicinale”.
La quarta, infine, insegna che sempre l’art. 101 TFUE va interpretato “nel senso che una siffatta intesa non può giovarsi dell’esenzione prevista al paragrafo 3 di tale articolo”.
Il Consiglio di Stato, successivamente, con sentenza del 15 luglio 2019 n. 4990 ha rigettato tutti gli appelli.
Ha presentato quindi ricorso, instaurando così la causa n. 6359/2020 R.G., Hoffmann-La Roche LTD. Si sono difese con rispettivo controricorso AGCM, AIUDAPS, SOI-AMOI (Società Oftalmologica Italiana-Associazione Medici Oculisti Italiani), Regione Emilia Romagna e Regione Lombardia.
Ha presentato ricorso, instaurando così la causa n. 6668/2020 R.G., Novartis AG. Si sono difese con rispettivo controricorso AGCM, SOI-AMOI, AIUDAPS, Regione Emilia Romagna, Regione Lombardia e CODACONS.
Ha presentato ricorso, instaurando così la causa n. 6672/2020 R.G., Novartis Farma S.p.A. Si sono difese con rispettivo controricorso AGCM, SOI-AMOI, AIUDAPS, Regione Emilia Romagna e Regione Lombardia.
Ha presentato ricorso, instaurando così la causa n. 6697/2020 R.G., Roche S.p.A. Si sono difese con rispettivo controricorso AGCM, SOI-AMOI, AIUDAPS, Regione Emilia Romagna e Regione Lombardia.
Sono state depositate memorie da tutte e quattro le ricorrenti, da AGCM, dalle due regioni e da SOI-AMOI.
Il Procuratore Generale ha concluso in forma scritta chiedendo che i ricorsi siano dichiarati inammissibili o infondati.
Per tutte le cause è stata celebrata udienza pubblica, nella quale il Procuratore Generale ha mantenuto la sua posizione conclusiva.
RAGIONI DELLA DECISIONE
Va premesso che le cause, relative ad impugnazione della medesima sentenza, devono essere riunite.
3. Hoffmann-La Roche LTD ha proposto ricorso articolato in quattro motivi.
3.1.1 Il primo motivo denuncia violazione degli artt. 103,111 e 113 Cost., art. 101 TFUE, L. n. 287 del 1990, art. 33,artt. 133 e 134 c.p.a. per rifiuto da parte del giudice amministrativo di esercitare il suo potere giurisdizionale.
Rileva la ricorrente che la giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo non è limitata a un controllo estrinseco della legittimità degli atti impugnati, bensì deve vagliare anche i fatti sottesi, tanto più se si tratta di provvedimenti emessi da Autorità amministrative indipendenti, come AGCM. Ciò è stato riconosciuto proprio nella sentenza impugnata, evidenziando che la giurisprudenza è pervenuta ad “ammettere una piena conoscenza del fatto e del percorso intellettivo e volitivo seguito dall’amministrazione”, ed altresì che, quanto agli elementi descrittivi del divieto di intesa anticompetitiva, il giudice non deve limitarsi a verificare la plausibilità della scelta dell’Autorità, “bensì deve procedere ad una compiuta e diretta disamina della fattispecie”, effettuando “un controllo penetrante attraverso la piena e diretta verifica della quaestio facti sotto il profilo della sua intrinseca verità”, così essendo la giurisprudenza giunta proprio a sostituire al sindacato di attendibilità un sindacato pieno di “maggiore attendibilità”. Il che è conforme, d’altronde, all’insegnamento della CGUE cui il Consiglio di Stato si è rivolto prima di decidere a titolo di rinvio pregiudiziale, che con la sua sentenza 23 gennaio 2018, Hoffmann-La Roche e a. c. AGCM, C-179/16, “ha espressamente chiarito che il Giudice del rinvio si sarebbe dovuto spingere sino alla valutazione in concreto di alcuni specifici fatti posti a fondamento della decisione dell’Autorità”, come d’altronde conferma il D.Lgs. n. 3 del 2017, art. 9, “che ha recepito la Direttiva Danni” (“Il sindacato del giudice del ricorso comporta la verifica diretta dei fatti posti a fondamento della decisione impugnata e si estende anche ai profili tecnici che non presentano un oggettivo margine di opinabilità, il cui esame sia necessario per giudicare la legittimità della decisione medesima”).
Invece, contravvenendo pure alle prescrizioni vincolanti della Corte di Lussemburgo, il Consiglio di Stato non ha operato alcun sindacato né alcuna valutazione sui fatti fondanti la decisione di AGCM: e ciò non costituisce un error in iudicando, bensì diniego di giurisdizione.
Il Consiglio di Stato avrebbe dovuto accertare se sussisteva “la presunta equivalenza terapeutica tra ***** e *****”, se quando fu emesso il provvedimento di AGCM vi fossero state “valutazioni/prese di posizione delle Autorità competenti (AIFA in primis) o dei Giudici sull’illiceità… della prescrizione (domanda) e della produzione e commercializzazione (offerta)” di ***** off-label, e infine se la documentazione presente nel fascicolo istruttorio di AGCM dimostrasse, “oltre all’esistenza di una concertazione”, che Roche e Novartis avessero “diffuso informazioni ingannevoli” sugli eventi avversi collegati all’uso off-label del farmaco. Si trattava di indagini decisive, ma nessuna di esse avrebbe compiuto il Consiglio di Stato.
La ricorrente dichiara di dedicare alla prima indagine il presente motivo, e al motivo successivo la seconda e la terza, precisando che, comunque, la fondatezza della censura su ciascuna “determina la cassazione con rinvio”.
3.1.2 Adduce quindi la ricorrente che sulla “presunta equivalenza terapeutica” tra i due farmaci il Consiglio di Stato ha espressamente escluso di dover indagare, laddove così afferma: “Non occorreva, al fine di integrare l’illecito, la prova scientifica dell’equivalenza terapeutica dei due farmaci sotto ogni profilo in ambito oftalmico”. In tal modo il Consiglio di Stato ha omesso di esaminare il primo motivo proposto negli appelli degli attuali ricorrenti.
Peraltro il provvedimento sanzionatorio imputa che, “in presenza di due farmaci equivalenti sotto ogni profilo in ambito oftalmico, le due imprese hanno artificiosamente differenziato i prodotti”: tale equivalenza è stata però “analiticamente e documentalmente contestata in sede di ricorso da Roche”. Dunque il Consiglio di Stato, “negando la propria giurisdizione sul fatto oggetto di accertamento”, ha omesso di esercitare il controllo giurisdizionale affidatogli dalla legge.
Inoltre il giudice amministrativo si è posto in contrasto con l’esigenza, da lui stesso manifestata, di rimettere alla CGUE, tra l’altro, un quesito – il quinto, effettivamente rimesso – “basato proprio sull’assenza di prove circa l’equivalenza terapeutica”.
Dopo avere poi argomentato sulla necessità di approfondire in ordine alla sussistenza o meno della equivalenza dei due farmaci, la ricorrente osserva che il Consiglio di Stato, se avesse verificato “come avrebbe dovuto” l’assenza dell’equivalenza terapeutica, avrebbe annullato il provvedimento.
3.1.3 Tale “autolimitazione” che il Consiglio di Stato ha inferto al proprio giudizio, ribadisce la ricorrente, costituisce diniego di giurisdizione, in quanto viola i limiti esterni della giurisdizione assegnata al giudice che si autolimita, con radicale stravolgimento delle norme di riferimento; e ciò conferma “il più recente orientamento giurisprudenziale” sulla interpretazione dinamica del concetto di giurisdizione, che supera la concezione statica (titolarità del potere giurisdizionale o regolamento di confini tra ordini giudiziari), per giungere a riconoscere che la regola della non estensione del sindacato della Corte di Cassazione al vaglio degli errori in iudicando o in procedendo può derogarsi nei casi eccezionali di radicale stravolgimento delle norme di riferimento così da realizzare una manifesta denegata giustizia.
La corrente giurisprudenziale che ha fornito questa interpretazione evolutiva dei limiti esterni della giurisdizione non può d’altronde ritenersi superata dalla sentenza n. 6/2018 della Consulta, concernente “la diversa questione di legittimità costituzionale del D.Lgs. 30 maggio 2001, n. 165, art. 69, comma 7”, la Corte Costituzionale non essendovisi pronunciata direttamente “sulla questione dei limiti esterni della giurisdizione alla luce dell’art. 110 del c.p.a.”; e comunque si tratta di una interpretazione non vincolante erga omnes, onde le Sezioni Unite possono “discostarsene motivatamente alla luce delle peculiarità del caso di specie, eventualmente sollevando una nuova questione di legittimità costituzionale in caso di dubbi” in tal senso.
Si rileva altresì che “le peculiarità del caso di specie”, relativo a un provvedimento di AGCM e ad un mancato adempimento da parte del Consiglio di Stato delle indicazioni fornite dalla CGUE “sulla corretta interpretazione dell’art. 101 TFUE e le correlate indagini di fatto ad essa demandate”, rendono “unica possibile interpretazione costituzionalmente orientata” quella evolutiva in ordine ai limiti esterni della giurisdizione. Per di più, mancando un controllo esterno della Corte di Cassazione, i principi di effettività della tutela e del giusto processo non potrebbero essere garantiti dagli “organi giurisdizionali a ciò deputati dalla Costituzione”, poiché la lamentata violazione per la prima volta è commessa “proprio dall’organo di ultima istanza che avrebbe dovuto applicare i principi di diritto sanciti dalla Corte di Giustizia”, rendendo in tal modo inapplicabile al caso in esame “il principale argomento della Corte Costituzionale a favore di una lettura riduttiva della tutela assicurata in sede di ricorso per Cassazione” ex art. 111 Cost., comma 8, come emerge dalla sentenza della Consulta n. 6/2018 al par. 14.
3.2.1 Il secondo motivo denuncia violazione degli artt. 103,111 e 113 Cost., art. 101 TFUE, L. n. 287 del 1990, art. 33,artt. 133 e 134 c.p.a., ancora denunciando il denegato esercizio del potere giurisdizionale.
Il Consiglio di Stato non ha valutato neppure gli ulteriori accertamenti di fatto demandatigli dalla Corte di Lussemburgo, e in particolare “le plurime prese di posizione di autorità e giudici competenti in relazione all’illiceità di domanda e offerta di ***** off-label valutandone i possibili effetti sulla struttura della domanda e della offerta (Sentenza C-179/19, p. 67)” nonché “l’asserita ingannevolezza delle informazioni diffuse da Roche” a EMA, operatori sanitari e pubblico sugli effetti collaterali negativi del farmaco (p. 95 della stessa pronuncia).
Si trattava di indagini essenziali e decisive nell’interpretazione dell’art. 101 par. 1 TFUE, non potendo AGCM fondare l’analisi del mercato rilevante solo sulla prassi medica, laddove la Corte di Giustizia, nella terza risposta, aveva affermato che la norma deve interpretarsi nel senso che restringe la concorrenza per oggetto “l’intesa tra due imprese che commercializzano due medicinali concorrenti, avente ad oggetto – in un contesto segnato dall’incertezza delle conoscenze scientifiche – la diffusione presso l’Agenzia Europea per i medicinali, gli operatori sanitari e il pubblico di informazioni ingannevoli sugli effetti collaterali negativi dell’uso di uno di tali medicinali per il trattamento di patologie non coperte dall’autorizzazione all’immissione in commercio di quest’ultimo, al fine di ridurre la pressione concorrenziale derivante da tale uso sull’uso dell’altro medicinale”. Soltanto “in presenza di informazioni ingannevoli”, dunque, sarebbe stato legittimo il provvedimento emesso da AGCM.
Anche sotto questo profilo la ricorrente sostiene che per un radicale stravolgimento delle norme di riferimento si è realizzata una “manifesta denegata giustizia” censurabile come violazione dei limiti esterni della giurisdizione, con l’aggravante” che l’omessa indagine di fatto era stata espressamente demandata al Consiglio di Stato come giudice di rinvio dalla Corte di Lussemburgo quale “imprescindibile presupposto per la corretta applicazione dell’art. 101 TFUE”.
A questo punto il motivo si suddivide in due censure.
3.2.2 Sub A si denuncia “manifesta denegata giustizia in relazione all’omessa indagine dell’illiceità della domanda e dell’offerta”, sostenendo che le autorità competenti (AIFA, EMA, Asl, Ministero della Salute) e i giudici nazionali (Tar Lombardia e Tar Veneto) ed Europei (CGUE), quando AGCM applicò l’art. 101 TFUE – il 27 febbraio 2014 -, avevano già profondamente esaminato la “non conformità delle condizioni alle quali ***** off-label veniva nella prassi, dal lato della domanda, prescritto dai medici, e dal lato dell’offerta, riconfezionato o commercializzato dalle farmacie” (qui si richiamano documenti allegati al ricorso), il che la sentenza impugnata “ignora completamente”, così non esaminando affatto “il profilo controverso”. E ciò nonostante che la sentenza della CGUE (p. 52) ha affermato che “il fatto che taluni prodotti farmaceutici siano fabbricati o venduti in modo illecito impedisce, in linea di principio, di considerarli come sostituibili o intercambiabili, sia dal lato dell’offerta, a causa dei rischi giuridici, economici, tecnici o di lesione alla reputazione a cui espongono i produttori e i distributori di tali prodotti, che dal lato della domanda, tenuto conto, in particolare, dei rischi per la salute pubblica che essi generano presso gli operatori sanitari e i pazienti”.
La stessa sentenza (p. 56 e 57; conforme anche l’ulteriore pronuncia C-29/17, p.p. 72-74) rileva altresì che sotto il profilo della domanda (prescrizione), sussistendo medicinali autorizzati per la medesima patologia, l’uso di farmaco non autorizzato è consentito solo se “risponde ad esigenze speciali” di “determinati pazienti”, da valutare singolarmente da parte del medico “sulla base di ricette mediche individuali”, previo accertamento della inesistenza dell’equivalente autorizzato sul mercato nazionale. E sotto il profilo dell’offerta, “sconfezionamento, manipolazione e frazionamento” per l’utilizzo off label possono effettuarsi, in assenza di AIC o di autorizzazione alla produzione, solo da parte di farmacisti in farmacia a seguito di specifica prescrizione individuale (nella sentenza C-29/17 si aggiunge che ciò deve avvenire in ambito ospedaliero). La sentenza della CGUE ha pertanto affermato (p. 61) che “l’autorità nazionale garante della concorrenza deve, sempreché le autorità o i giudici competenti a tal fine abbiano condotto un esame della conformità del prodotto in questione alle disposizioni vigenti che ne disciplinano la fabbricazione o la commercializzazione, tener conto del risultato di tale esame, valutandone i possibili effetti sulla struttura della domanda e dell’offerta”.
3.2.3 Sub B si denuncia “manifesta denegata giustizia in relazione all’omessa indagine dell’ingannevolezza delle informazioni diffuse” da Roche, indagine che la Corte di Giustizia aveva demandato nella sua pronuncia (e precisamente al p. 92) al Consiglio di Stato, stabilendo altresì quando tali informazioni debbano considerarsi ingannevoli: qualora non rispettino i criteri di completezza e precisione ex art. 1, punto 1, del Regolamento UE n. 658/2007 o qualora, “incomplete o imprecise”, mirino a indurre in errore l’EMA e la Commissione e ad ottenere l’aggiunta di indicazione di effetti collaterali negativi nel riassunto delle caratteristiche del farmaco, “per consentire al titolare dell’AIC di avviare una campagna di sensibilizzazione dei professionisti della sanità, dei pazienti e delle altre persone interessate, al fine di amplificare artificiosamente tale percezione” e così “enfatizzare, in un contesto di incertezza scientifica, la percezione da parte del pubblico dei rischi connessi all’uso off-label”. Trattandosi poi di informazioni diffuse presso EMA, medici e pubblico (p. 95), risultano irrilevanti, secondo la ricorrente, “i documenti interni e di scambio di e-mail alle società”.
Il Consiglio di Stato non ha effettuato la verifica dell’ingannevolezza delle informazioni secondo i parametri indicati dalla Corte di Lussemburgo, pur avendo quest’ultima “chiaramente stabilito che il carattere ingannevole o meno delle informazioni costituisce un elemento cumulativo e aggiuntivo rispetto alla prova della concertazione” affinché sussista restrizione della concorrenza (p.p. 91-95): e questa omissione è più grave considerato un elenco di documenti prodotti in giudizio dall’attuale ricorrente, di cui il Consiglio di Stato tace.
Si invocano inoltre le conclusioni dell’Avvocato Generale nella causa C179/2016, pure allegate al ricorso, e un ulteriore passo presente nella sentenza della CGUE in ordine alle ragioni per cui Genentech aveva escluso di utilizzare in campo oftalmico il bevacizumab e deciso invece di sviluppare un prodotto specifico.
Si conclude ribadendo che il Consiglio di Stato ha omesso di esercitare il proprio potere giurisdizionale, con stravolgimento delle norme di riferimento, “particolarmente grave trattandosi di violazione di norme UE”.
3.3 Il terzo motivo denuncia violazione degli artt. 103,111,113 Cost., art. 101 TFUE, L. n. 287 del 1990, art. 33, art. 133 c.p.a., vizio di eccesso di potere giurisdizionale e superamento dei limiti esterni alla giurisdizione per aver confermato una sanzione per fatti diversi da quelli contestati dall’AGCM e posti a base del provvedimento amministrativo, nonché per l’esercizio dei poteri amministrativi spettanti all’AGCM.
Oltrepassando i limiti della propria giurisdizione, il Consiglio di Stato ha riqualificato la fattispecie sanzionata da AGCM, a questa così sostituendosi e violando il principio della contestazione, pur non potendo esercitare un potere in materia antitrust ma solo verificare se l’Autorità lo abbia correttamente esercitato.
Secondo il provvedimento di quest’ultima, l’intesa anticompetitiva era finalizzata a costituire una “differenziazione artificiosa” dei due farmaci – in realtà “equivalenti sotto ogni profilo in ambito oftalmico” – manipolando la percezione dei rischi dell’uso in ambito oftalmico di ***** per condizionare la domanda a favore di ***** mediante “la produzione e diffusione di notizie in grado d’ingenerare preoccupazioni pubbliche sulla sicurezza degli usi intravitreali di *****” e svalutando contrarie acquisizioni scientifiche, per impedire che l’applicazione off label di ***** diminuisse quella del più costoso *****, “dalle cui vendite derivano profitti per entrambe le società”. L’intesa avrebbe incluso “un interesse congiunto dei gruppi Roche e Novartis” nella modificazione di RCP di ***** in corso presso EMA, di cui si auspicava pure il “conseguente invio di una comunicazione formale ai professionisti medici (DHCP)”, il tutto provocato dalle attività di Roche – in quanto “Marketing Authorisation Holder di *****” – e direttamente funzionale “al piano”.
Invece il Consiglio di Stato ha modificato la contestazione, laddove afferma che “gli elementi di prova raccolti dimostrano l’esistenza tra i gruppi Roche e Novartis di plurimi contatti finalizzati a precisa strategia anticompetitiva: quella di enfatizzare i rischi derivanti dall’uso intravitreale del meno costoso ***** a fronte della maggior sicurezza di *****, abusando del contesto regolatorio in cui, mentre ***** disponeva di apposita AIC per usi oftalmici, per ***** non erano invece mai state richieste registrazioni corrispondenti da parte del suo Marketing Authorisation Holder (MAH)”; e altresì laddove rimarca “l’apparente anomalia per cui, nonostante le aspettative generate sin dalle sue prime applicazioni per il trattamento della AMD, né Genentech in quanto MAH del farmaco negli USA, né Roche in quanto MAH nella UE hanno mai provveduto a richiedere alle autorità competenti la registrazione di ***** per indicazioni terapeutiche in tal senso”.
Quindi il Consiglio di Stato ha accertato un illecito diverso da quello contestato e oggetto del provvedimento impugnato. Nella sua sentenza infatti afferma che sarebbe stato un abuso del contesto regolatorio ad integrare la condotta anticompetitiva, il che costituisce una nuova contestazione. E le pronunce del giudice amministrativo sono viziate per eccesso di potere giurisdizionale qualora, sconfinando nella sfera del merito, riservata alla pubblica amministrazione, valutino l’opportunità dell’atto oppure, pur nel rispetto della formula dell’annullamento, sostituiscano la volontà della pubblica amministrazione con quella dell’organo giudicante stesso.
D’altronde, al giudice amministrativo è del tutto precluso esercitare il potere rimesso dal legislatore all’Autorità, e dunque sostituirsi a questa nelle attività di accertamento ed applicazione della legge mediante un proprio provvedimento. La giurisprudenza di queste Sezioni Unite (in particolare si richiama più volte S.U. 7 maggio 2019 n. 11929) insegna invero che il giudice non può sostituirsi integralmente alla valutazione dell’Autorità relativa a profili tecnico-discrezionali, permanendo comunque su di essa un pieno ed effettivo controllo giurisdizionale direttamente conseguente alle posizioni giuridiche soggettive coinvolte. Ad avviso della ricorrente, qui il Consiglio di Stato, riqualificando l’illecito, “ha sostanzialmente invaso la sfera di discrezionalità riservata all’amministrazione attraverso una valutazione autonoma della fattispecie”; e tale riqualificazione/sostituzione non è giustificabile dall’art. 133, comma 1, lett. l, c.p.a., che attribuisce al giudice amministrativo il medesimo potere di rideterminazione quantitativa della sanzione già previsto dalla L. n. 689 del 1981, art. 23, senza però “mettere in discussione il principio della contestazione”, laddove nel caso in esame il giudice amministrativo, invadendo la sfera di competenza dell’Amministrazione, ha configurato in realtà “un illecito sostanzialmente diverso”.
3.4.1 Il quarto motivo denuncia violazione degli artt. 103,111 e 113 Cost., art. 101 TFUE, L. n. 287 del 1990, art. 33, art. 133 c.p.a. e art. 267 TFUE “per radicale stravolgimento delle norme dell’Unione Europea e della sentenza della Corte di Giustizia C179/16”.
Rimettendo alla CGUE in via pregiudiziale la soluzione di alcuni quesiti dirimenti, il Consiglio di Stato le ha in effetti rimesso “il giudizio sui passaggi nevralgici della decisione dell’AGCM”. La Corte di Giustizia ha chiarito tutti i punti, imponendo al giudice del rinvio in relazione a ciascuno di essi un’attività valutativa sui fatti sottesi: questo tuttavia non è stato rispettato dal Consiglio di Stato, che si è limitato a ribadire le posizioni assunte da AGCM.
Ciò, già denunciato in sede revocatoria come errore di fatto, viene in questa sede denunciato anche come abnorme stravolgimento del diritto Eurounitario, in quanto le decisioni della Corte di Lussemburgo sono vincolanti per il giudice remittente e il loro mancato rispetto da parte di una giurisdizione nazionale “può implicare l’apertura di una procedura di infrazione e la presentazione da parte della Commissione del ricorso di inadempimento di cui all’art. 258 TFUE”. Quindi l’omesso rispetto delle prescrizioni dettate dalla CGUE non integra un mero errore di diritto, bensì un eccesso di potere giurisdizionale negativo, per omissione da parte del giudice amministrativo dell’esercizio dei propri poteri giurisdizionali pur essendo al riguardo vincolato da una giurisdizione superiore, e così giungendo ad applicare il diritto Eurounitario – qui l’art. 101 TFUE “in contrasto con le vincolanti indicazioni della Corte di Giustizia”.
3.4.2 La ricorrente dichiara di essere consapevole della “restrittiva posizione” assunta dalla sentenza n. 6/2018 della Consulta in ordine ai limiti estremi del sindacato sulla giurisdizione rimesso alla Corte di Cassazione dall’art. 111 Cost., u.c., nell’ambito del cui sindacato il giudice delle leggi non ritiene considerabili “abnormi violazioni del diritto UE da parte del Consiglio di Stato nell’esercizio della sua giurisdizione”, lasciando aperta soltanto “una nuova ipotesi di revocazione per l’eventualità di una sopravvenuta decisione della Corte di Giustizia in senso difforme”; però la questione in esame è “peculiare e differente”, non denunciandosi l’omesso rinvio da parte del Consiglio di Stato di una questione pregiudiziale alla Corte di Lussemburgo e/o l’applicazione del diritto in modo difforme rispetto alla sopravvenuta interpretazione di tale Corte, “bensì il più radicale e abnorme caso che il Consiglio di Stato ha dapprima rinviato la questione alla Corte di Giustizia ma ha poi disatteso le indicazioni e le interpretazioni dalla stessa rese”, in tal modo violando il diritto della Unione Europea da un lato “omettendo di esercitare il doveroso controllo di piena giurisdizione e/o l’accertamento di fatto demandato dalla CGUE” e dall’altro “sostituendosi all’Autorità nella contestazione/comminatoria della sanzione per un illecito affatto diverso”.
E dunque, a prescindere dal vizio revocatorio, si è verificata “un’ipotesi eccezionale di radicale sovvertimento dei rapporti tra diritto UE e diritto interno”, trattandosi di questione – mai finora esaminata – in cui si denuncia non un contrasto con una sopravvenuta decisione della CGUE, bensì con una decisione, tra le stesse parti e sullo stesso oggetto, “anteriore e interna al giudizio”, per di più “dal contesto dell’impugnazione di un provvedimento AGCM avente efficacia penale ai fini della CEDU”.
3.4.3 Nella denegata ipotesi in cui non si ottenga tutela dal Consiglio di Stato in sede di revocazione né da queste Sezioni Unite, tale violazione resterebbe “priva di tutela demolitoria, potendo la parte solo agire contro lo Stato-giudice che ha disatteso l’ordine della Corte di Giustizia, o valutare di chiedere l’avvio di una procedura di infrazione con la presentazione da parte della Commissione del ricorso di inadempimento di cui all’art. 258 TFUE”.
Si invoca al riguardo S.U. 29 dicembre 2017 n. 31226, che ha riscontrato, pur con una interpretazione ad avviso della ricorrente riduttiva dell’art. 111 Cost., diniego di giurisdizione nei casi di radicale stravolgimento delle norme nazionali o Eurounitarie al punto di denegare giustizia: nel caso in esame si è verificato “un radicale stravolgimento delle norme di riferimento nazionali e soprattutto comunitarie in tema di vincolatività delle pronunce rese in sede pregiudiziale”. Il che deve essere riconosciuto pur sussistendo la sentenza n. 6/2018 della Consulta, “posto che si è di fronte ad una ipotesi che potrebbe rimanere non coperta da alcuna forma di tutela e posto che l’ordinamento deve tendere a esegesi che escludono e prevengono responsabilità dello Stato-giudice, ammettendo forme di autocorrezione”, come la qui richiesta cassazione con rinvio. Ciò, ad avviso della ricorrente, rende la censura ammissibile e fondata.
4. Il ricorso presentato da Roche S.p.A. corrisponde nel suo contenuto a quello del ricorso proposto da Hoffmann-La Roche LTD.
5. Il ricorso presentato da Novartis AG è composto da due motivi, e include altresì, in subordine, una eccezione di illegittimità costituzionale.
5.1 Il primo motivo denuncia eccesso di potere giurisdizionale ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 1 e art. 362 c.p.c., comma 1, da parte del Consiglio di Stato, e “affermazione di una presunta responsabilità indiretta o parentale di Novartis AG non contestata né tantomeno accertata dall’AGCM”.
L’impugnata sentenza attribuisce, pur in modo non del tutto comprensibile, una responsabilità indiretta dell’attuale ricorrente – “parental hability” – che pare giustificare l’estensione a essa dell’accertamento della presunta infrazione e delle relative sanzioni, nonostante ciò non fosse oggetto del giudizio instaurato davanti al Consiglio di Stato, “trattandosi di profilo mai contestato dall’Autorità” durante il procedimento amministrativo sfociato nel provvedimento AGCM né emerso nel giudizio davanti al Tar. Pertanto l’attuale ricorrente non ha potuto difendersi rispetto a tale nuova contestazione.
Il Consiglio di Stato, “eventualmente avvedutosi della debolezza dell’impianto accusatorio” che sostiene il provvedimento, ha compiuto una “correzione di rotta” introducendo una responsabilità indiretta dell’odierna ricorrente, così compiendo, però, un eccesso di potere giurisdizionale invadendo le prerogative dell’autorità amministrativa. L’art. 110 c.p.a. invece stabilisce che il ricorso per cassazione contro le sentenze del Consiglio di Stato è ammesso “per i soli motivi inerenti alla giurisdizione”, tra i quali deve includersi l’eccesso di potere giurisdizionale appena denunciato.
All’attuale ricorrente non è stata attribuita nessuna responsabilità indiretta/parentale nella Comunicazione delle Risultanze Istruttorie – c.d. CRI che ha cristallizzato le indagini di AGCM, la quale le aveva invece, pur erroneamente, attribuito responsabilità diretta per avere attivamente ideato, progettato, attuato e supervisionato, anche tramite la filiale italiana Novartis Farma, “l’asserita strategia collusiva”. Nel provvedimento dell’Autorità è stata poi confermata la responsabilità diretta, laddove (p. 223) si rileva: “Dalla documentazione agli atti risulta che le condotte sono riconducibili sia alle società madri dei gruppi Roche e Novartis che alle loro filiali italiane. Le prime, infatti, hanno definito le strategie di differenziazione artificiosa tra ***** e *****, mantenendo altresì una diretta supervisione sulle condotte delle filiali italiane anche nella gestione di questioni più direttamente nazionali attinenti alla vicenda”.
Neppure la sentenza del Tar, poi, menziona “alcun profilo attinente ad una ipotetica responsabilità parentale o indiretta” dell’attuale ricorrente, neanche considerando la censura del provvedimento tramite la quale essa ha affermato la sua assoluta estraneità ai fatti, incorrendo così in omessa pronuncia, oggetto infatti del primo motivo d’appello proposto da Novartis AG al Consiglio di Stato.
Ne’ davanti ad AGCM, né davanti al Tar, dunque, l’attuale ricorrente ha avuto la possibilità di difendersi da una siffatta responsabilità parentale.
In particolare, nell’appello al Consiglio di Stato era stata proposta la seguente doglianza: “il Tar ha omesso completamente di pronunciarsi sul primo motivo di ricorso relativo alla completa estraneità di Novartis AG”. Di fronte a tale motivo di impugnazione, il Consiglio di Stato però, dopo aver asserito laconicamente di ritenere “che le condotte illecite siano riconducibili anche alle società madri”, ha introdotto “una considerazione aggiuntiva… con riguardo alla parental liability theory” (così nel paragrafo 6.2 della sentenza). E dopo avere rimarcato che, seguendo l’insegnamento della CGUE, il comportamento di una società controllata è imputabile alla società controllante qualora non si muova autonomamente ma si attenga alle istruzioni di questa, così da far parte di un’unica impresa secondo il diritto Eurounitario in materia di concorrenza, il Consiglio di Stato ha riconosciuto appieno la responsabilità parentale/indiretta a Novartis AG, in tal modo gravandola di una forma “alternativa” di responsabilità mai contestatale. Quindi ha “travalicato i poteri di sindacato giurisdizionale attribuitigli rispetto alla valutazione della legittimità dell’atto amministrativo”, esercitando un potere spettante solo ad AGCM.
Si invoca la giurisprudenza di queste Sezioni Unite sull’eccesso del potere giurisdizionale in relazione allo sconfinamento nella sfera del merito, ove si rinviene, specificamente a proposito di AGCM, l’insegnamento che l’unica preclusione in sede di tutela giurisdizionale dei soggetti coinvolti dalla sua attività è “l’impossibilità per il giudice di esercitare direttamente il potere rimesso dal legislatore all’Autorità” (S.U. 7 maggio 2019 n. 11929), insegnamento condiviso altresì dalla giurisprudenza del Consiglio di Stato.
Si è quindi dinanzi a “un caso esemplare di eccesso di potere giurisdizionale da parte del giudice amministrativo” che ha “invaso la sfera di discrezionalità riservata all’amministrazione” compiendo un’autonoma valutazione della fattispecie e individuando un nuovo e diverso titolo di responsabilità in capo all’attuale ricorrente, così attuando “un illegittimo e radicale mutamento della natura dell’illecito anticoncorrenziale”.
5.2 Il secondo motivo denuncia diniego di giurisdizione ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 1 e art. 362 c.p.c., comma 1, da parte del Consiglio di Stato e omesso accertamento sulla “ingannevolezza delle informazioni asseritamente diffuse da Novartis e da Roche”.
Sia nel giudizio davanti al Tar, sia nel giudizio d’appello davanti al Consiglio di Stato, l’odierna ricorrente ha censurato il provvedimento specificamente “sotto il profilo relativo alla sussistenza dei presupposti perché potesse dirsi configurata un’intesa restrittiva della concorrenza per oggetto”. L’accertamento era indispensabile proprio “secondo quanto prescritto dalla Sentenza CGUE”, alla Corte di Giustizia il Consiglio di Stato avendo per di più chiesto, tra i quesiti, se potesse considerarsi restrittiva della concorrenza per oggetto una condotta concertata diretta a enfatizzare la minore sicurezza o la minore efficacia di un farmaco quando questa, pur non suffragata da acquisizioni scientifiche certe, allo stadio delle conoscenze scientifiche contemporanee ai fatti, non può “neanche essere incontrovertibilmente esclusa”. E la risposta della Corte è stata che l’art. 101, paragrafo 1, TFUE va interpretato nel senso che costituisce una restrizione della concorrenza per oggetto “l’intesa tra due imprese che commercializzano due medicinali concorrenti, avente ad oggetto – in un contesto segnato dall’incertezza delle conoscenze scientifiche la diffusione, presso l’Agenzia Europea per i medicinali, gli operatori sanitari e il pubblico, di informazioni ingannevoli, sugli effetti collaterali negativi dell’uso di uno di tali medicinali per il trattamento di patologie non coperte dall’autorizzazione all’immissione in commercio di quest’ultimo, al fine di ridurre la pressione concorrenziale derivante da tale uso sull’uso dell’altro medicinale”; il carattere ingannevole di tali informazioni poi sussiste “se circostanza che spetta al giudice del rinvio verificare – dette informazioni miravano, da un lato, a indurre l’EMA e la Commissione in errore e a ottenere l’aggiunta della menzione di effetti collaterali negativi nel riassunto delle caratteristiche del prodotto, per consentire al titolare dell’AIC di avviare una campagna di sensibilizzazione dei professionisti della sanità, dei pazienti e delle altre persone interessate, al fine di amplificare artificiosamente tale percezione e, dall’altro, ad enfatizzare, in un contesto di incertezza scientifica, la percezione da parte del pubblico dei rischi connessi all’uso off-label dell'*****…”.
Quindi il Consiglio di Stato avrebbe dovuto verificare se le informazioni fossero state effettivamente diffuse ed effettivamente ingannevoli (si richiamano al riguardo pure le conclusioni dell’Avvocato Generale sulla carenza di effetti anticoncorrenziali nella trasmissione di dati esatti). Il Consiglio di Stato ha invece omesso di compiere ogni verifica, in tal modo o sostituendosi alla CGUE o decidendo di negare la propria giurisdizione.
Sotto il primo profilo, rientra tra i motivi attinenti alla giurisdizione una interpretazione delle norme Europee contrastante con quella fornita dalla CGUE (S.U. 30 luglio 2018 n. 20169), per nulla ostando la sentenza n. 6/2018 della Corte Costituzionale, pronunciata sull’ampiezza del possibile sindacato da parte della Corte di Cassazione ai sensi dell’art. 362 c.p.c., comma 1 e art. 110 c.p.a., giacché in quel caso “il Consiglio di Stato si era reso artefice di una interpretazione c.d. “abnorme” o anomala di una norma comunitaria”, mentre qui, diversamente, “il Consiglio di Stato ha travalicato i confini della propria giurisdizione, sconfinando nei poteri della Corte di Giustizia Europea, ovvero, alternativamente, ha ritenuto di denegare la propria giurisdizione sul punto”.
Qualora invece non si ritenesse ammissibile questo motivo del ricorso, si giungerebbe a una paradossale carenza di tutela giurisdizionale dalla disapplicazione da parte del Consiglio di Stato “delle norme comunitarie così come interpretate dalla Corte di Giustizia nell’esercizio della propria funzione nomofilattica”.
5.3 In subordine viene proposta istanza di remissione alla Corte Costituzionale in ragione della sussistenza di una questione di legittimità costituzionale relativa all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 1 e art. 362 c.p.c., comma 1, in quanto, qualora il secondo motivo del ricorso si ritenesse inammissibile, insorgerebbe “un irrimediabile vulnus” al diritto di difesa della ricorrente per la “palese contraddittorietà della Sentenza Impugnata rispetto al dictum del giudice Europeo espresso mediante la Sentenza CGUE nell’ambito del giudizio di rinvio”.
Premesso che la sentenza con cui la CGUE si pronuncia in via pregiudiziale ex art. 267 TFUE risolve con efficacia di giudicato questioni di diritto Eurounitario, vincolando il giudice nazionale ai suoi dettami per la definizione del giudizio a quo, si rileva che costituiscono principi consolidati nella giurisprudenza di tale Corte quello di equivalenza – per cui le modalità processuali dei ricorsi intesi a garantire la tutela dei diritti spettanti ai singoli per il diritto dell’Unione Europea non devono essere meno favorevoli di quelle relative ai ricorsi tutelanti i diritti di origine interna – e quello di effettività – per cui “le medesime modalità processuali non devono rendere praticamente impossibile o eccessivamente difficile l’esercizio dei diritti conferiti dall’ordinamento giuridico dell’Unione Europea” – (si invoca in particolare la sentenza 11 settembre 2019, causa C-676/2017). Anche l’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato, con la sentenza n. 11/2016, ha riconosciuto che nel nostro ordinamento vige il principio per cui il giudice nazionale deve evitare un giudicato anti-comunitario o comunque contrastante con le norme sovranazionali che lo Stato italiano deve applicare.
Pertanto l’ordinamento interno di uno Stato membro dell’Unione Europea occorre che preveda rimedi atti a impedire la formazione di un giudicato contrario al diritto Eurounitario, e a fortiori contrario a un’apposita pronuncia della CGUE, e per questo gli organi giurisdizionali interni devono compiere “una interpretazione della normativa applicabile e dei relativi strumenti e istituti che sia conforme ai principi di effettività ed equivalenza”.
Il ricorso per cassazione dà luogo all’ultimo grado di giudizio, “l’estremo baluardo dell’ordinamento interno” per prevenire un giudicato contrario al diritto Eurounitario. Se le norme interne sono interpretate nel senso che non consentano di includere tra i motivi del ricorso per cassazione “una situazione nella quale il Giudice interno ignori il dictum” della CGUE o nel senso che esse non prevedano alcuna misura per risolvere le discrasie tra l’ordinamento interno e quello dell’Unione Europea, si verifica una carenza di tutela che potrebbe generare “effetti aberranti”, sia per i privati che per lo Stato, qualora i privati non abbiano rimedi per riformare, prima che passino in giudicato, decisioni giurisdizionali interne con cui il giudice amministrativo si sostituisca alla Corte di Giustizia Europea “travalicandone i poteri”, e lo Stato si trovi a dover risarcire – in difetto di uno strumento di restitutio in integrum – il danno per equivalente generato da tali viziate decisioni passate in giudicato. Ciò a maggior ragione considerato che gli organi giurisdizionali degli ordinamenti sovranazionali, per tutelare il diritto comunitario, si sono anche spinti a superare il giudicato (si invoca in particolare la sentenza di CGUE 18 luglio 2007, C-119/2005).
Nel caso in esame, dunque, tutto questo conferma la necessità di evitare che la decisione impugnata passi in giudicato, tanto più che concerne l’accertamento di una pretesa condotta anticoncorrenziale, con conseguente irrogazione di sanzioni amministrative cui, per la natura repressiva e deterrente e per la particolare incisività, va riconosciuta natura penale o quasi-penale ex art. 6 CEDU, oltre a poter “essere strumentalmente utilizzata come base per richieste di risarcimento dei danni”.
Si chiede pertanto, qualora non si ritenga effettuabile una interpretazione costituzionalmente orientata dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 1 e art. 362 c.p.c., comma 1, in riferimento al secondo motivo del ricorso, di sollevare questione di legittimità costituzionale dei suddetti articoli nella parte in cui “non prevedono tra i motivi per cui può essere proposto ricorso per cassazione lo sconfinamento da parte del giudice interno nella sfera riservata alla Corte di Giustizia dell’Unione Europea nell’esercizio della propria funzione nomofilattica, per aver il giudice interno ignorato le statuizioni della Corte di Giustizia dell’Unione Europea in sede di rinvio pregiudiziale e così travalicato i poteri di quest’ultima”, giacché “l’assenza di uno strumento idoneo ad evitare il passaggio in giudicato di una decisione quale quella qui impugnata rappresenterebbe un manifesto ed irrimediabile vulnus al diritto di difesa costituzionalmente garantito dagli artt. 24 e 111 Cost.”, per cui alla ricorrente non potrebbe impedirsi “di far valere dinanzi a un giudice nazionale un proprio diritto derivante da una pronuncia della Corte di Giustizia dell’Unione Europea in sede di rinvio pregiudiziale”, in tal modo altresì cagionando “una palese violazione dei vincoli derivanti dall’appartenenza all’Unione Europea”, presidiati dagli artt. 117 e 10 Cost., “anche alla luce dei principi di effettività ed equivalenza”, in quanto non si riconoscerebbe a un soggetto “una tutela piena dei propri diritti derivanti dall’applicazione del diritto dell’Unione Europea”.
9. Il ricorso presentato da Novartis Farma S.p.A., a sua volta, corrisponde nel suo contenuto a quello proposto da Novartis AG.
10. Prima di esaminare i motivi dei ricorsi ut supra illustrati, occorre riassumere anche il contenuto delle – assai ampie – memorie delle ricorrenti, che non sono state, in effetti, dedicate soltanto ad argomentare in relazione ai motivi, bensì includono pure istanze derivanti da “novità” sopravvenute.
10.1.1 Le memorie Roche segnalano tre “novità”.
La prima novità viene indicata in S.U. ord. 18 settembre 2020 n. 19598, detta ordinanza Randstad, che ha disposto rinvio pregiudiziale ex art. 267 TFUE alla Corte di Giustizia, tra l’altro, in ordine alla compatibilità con la normativa Eurounitaria di una prospettata assenza di tutela per prevenire un giudicato derivante da una sentenza del Consiglio di Stato emessa in contrasto con i principi UE affermati appunto dalla Corte di Giustizia.
Un’altra novità è ravvisata nell’ordinanza 18 marzo 2021 n. 2327 del Consiglio di Stato, emessa nell’ambito del giudizio di revocazione – preannunciato ut supra – promosso avverso la sentenza del Consiglio di Stato qui impugnata. Detta ordinanza ha effettuato rinvio pregiudiziale ex art. 267 TFUE su tre quesiti:
a) se il giudice nazionale, contro le cui decisioni non sia proponibile una impugnazione prevista dal diritto interno, in un giudizio in cui la domanda della parte è direttamente rivolta a denunciare la violazione di principi espressi dalla CGUE nel medesimo giudizio per ottenere l’annullamento della sentenza impugnata, può verificare la corretta applicazione nel caso concreto di tali principi o se la valutazione spetti alla CGUE;
b) se la sentenza del Consiglio di Stato n. 4990/2019, cioè quella anche in questa sede impugnata, viola i principi dettati dalla Corte di Giustizia con la sentenza del 23 gennaio 2018 in ordine alla inclusione nello stesso mercato rilevante dei due farmaci ***** e ***** senza tenere conto che autorità avrebbero accertato l’illiceità di domanda e di offerta di ***** off label, e altresì in ordine alla mancata verificazione della pretesa ingannevolezza delle informazioni diffuse dalle società Roche e Novartis;
c) se l’art. 4, par. 3, art. 19, par. 1, TUE, 2, par. 1 e par. 2, art. 267 TFUE, anche alla luce dell’art. 47 CEDU, ostino al sistema regolato dall’art. 106 c.p.a., artt. 395 e 396 c.p.c., laddove non consente ricorso per revocazione avverso sentenze del Consiglio di Stato contrarie a sentenze della CGUE e in particolare ai principi di diritto affermati da quest’ultima in forza di rinvio pregiudiziale.
Un’ulteriore novità, infine, viene riconosciuta in una sentenza penale del Tribunale di Roma del 27 luglio 2020, “ormai passata in giudicato”, che ha assolto perché il fatto non sussiste dal reato di aggiotaggio ex art. 501 c.p., gli AD delle filiali italiane del gruppo Roche e del gruppo Novartis per gli stessi fatti su cui si sarebbe basata AGCM, accertando l’illiceità della prescrizione di ***** ed escludendo l’ingannevolezza delle informazioni diffuse da Roche.
10.1.2 Si sostiene poi che l’ordinanza n. 2327/2021 del Consiglio di Stato conferma la violazione, da parte del Consiglio di Stato nella sentenza qui impugnata, della pronuncia pregiudiziale della Corte di Lussemburgo, e che la medesima ordinanza, riguardo i motivi secondo e quarto dei ricorsi Roche, integrerebbe fumus di violazione del diritto unionale.
Si ribadisce che il Consiglio di Stato non ha compiuto le indagini di fatto assegnategli dalla Corte di Giustizia, e si argomenta nel senso che “la violazione procedurale si riverbera in una violazione sostanziale dei principi di diritto affermati dalla Corte di Giustizia” sulle questioni dalla seconda alla quinta ad essa sottoposte. Si invoca pure una critica dottrinale mossa alla sentenza del Consiglio di Stato qui in esame.
Viene altresì riassunto il percorso motivazionale dell’ordinanza Randstad e si afferma che nel presente caso sussiste una violazione del diritto Eurounitario di maggior calibro rispetto alla violazione in quest’ultima ordinanza denunciata; inoltre si rileva che, dopo la sua emissione, queste Sezioni Unite “hanno confermato l’interpretazione dell’art. 111 Cost. (comma 8) e i dubbi di compatibilità Europea ivi espressi”. Sussistono pronunce di queste Sezioni Unite che hanno negato il richiesto “rinvio in attesa della pronuncia della Corte di Giustizia”: peraltro sono pronunce attinenti a casi diversi, in cui non era presente una sentenza del Consiglio di Stato come questa qui in esame, che applica “prassi interpretative elaborate in sede nazionale confliggenti con sentenza della Corte di Giustizia, in settori disciplinati dal diritto dell’Unione Europea”. In tali casi di diniego, infatti, l’impugnata sentenza del Consiglio di Stato non aveva violato il diritto unionale (si tratta di S.U. ord. 29 ottobre 2020 nn. 23905, 23906 e 23907), venendo così a mancare “il presupposto focalizzato dall’ordinanza di dimensione, costituito da un errore decisorio” commesso dal Consiglio di Stato per violazione del diritto dell’Unione Europea e rimediabile soltanto dalla Corte di Cassazione ex art. 111 Cost., comma 8, art. 362 c.p.c. e art. 110 c.p.a..
10.1.3 Si adduce poi la sussistenza dei presupposti per sollevare questione di legittimità costituzionale pregiudiziale, che si rileva doversi privilegiare.
Infatti, l’ordinanza Randstad “non dà atto delle ragioni contrarie della Corte Costituzionale”, e sceglie di superare la “prassi giurisprudenziale” di queste Sezioni Unite con l’intervento della CGUE; risulta invece auspicabile adire direttamente la Consulta in quanto “giudice naturale dell’interpretazione dell’assetto costituzionale”.
Si nota altresì che vi è rischio che la Corte di Giustizia non si pronunci per l’autonomia procedurale degli Stati membri. Una volta investita, invece, la Corte Costituzionale potrebbe rivedere l’indirizzo ex professo (la sentenza n. 6/2018 ha affrontato la questione preliminarmente in sede di ammissibilità), o rinviare essa stessa alla Corte di Giustizia la questione della compatibilità della prassi interpretativa nazionale di cui all’art. 111 Cost., comma 8, con il diritto Eurounitario, o confermare solo in parte la sentenza n. 6/2018 per le “specificità del caso concreto”.
Tali specificità possono superare la sentenza n. 6/2018 tra l’altro per le seguenti ragioni: l’art. 101 TFUE è norma di efficacia diretta; nel caso in esame sussiste una violazione del diritto Eurounitario “particolarmente grave e qualificata”, consistendo in violazione procedurale e sostanziale di una sentenza pregiudiziale della Corte di Giustizia (e infatti il Consiglio di Stato ha emesso l’ordinanza n. 2327/2021); il contrasto tra la sentenza qui impugnata e l’interpretazione della Corte di Giustizia genera responsabilità civile (L. n. 117 del 1988, art. 2, comma 3 bis, come novellato da L. n. 118 del 2015); la sentenza impugnata non è passata in giudicato; l’autonomia processuale non può giungere a conclusioni opposte sugli stessi fatti del giudice amministrativo e del giudice penale, e nel caso in esame si tratta di “accuse penali” ai sensi dell’art. 6 CEDU.
Si adduce poi la sussistenza della doppia pregiudizialità, Europea e costituzionale: la sentenza n. 269/2017 della Consulta insegna che, se sulla norma sussistono dubbi di illegittimità in relazione ai diritti costituzionali e ai diritti CEDU, deve sollevarsi la questione di legittimità costituzionale, salvo il ricorso pregiudiziale per le questioni di interpretazione o invalidità del diritto Eurounitario ai sensi dell’art. 267 TFUE.
10.1.4 A questo punto, vengono esaminati i requisiti di rilevanza e di non manifesta infondatezza della questione di legittimità costituzionale così sollevata.
In termini di rilevanza, si osserva che la questione costituzionale proposta ne è dotata in quanto, se il ricorso non è ammissibile (e lo sarebbe invece seguendo l’interpretazione evolutiva della giurisdizione dettata da queste Sezioni Unite anteriormente alla sentenza n. 6/2018 della Consulta), la rilevanza sussiste per evitare la formazione di un giudicato contrario al diritto unionale.
D’altronde, non corrisponde al vero che il Consiglio di Stato abbia rispettato le indicazioni della Corte di Giustizia; ma comunque per la rilevanza costituzionale è sufficiente che la sentenza di accoglimento della Consulta possa incidere sul giudizio (cfr. sentenza n. 22/2013 della Corte Costituzionale), “senza che rilevino gli effetti che un’eventuale pronuncia di illegittimità costituzionale possa produrre per le parti” (cfr. sentenza n. 20/2016), “non essendo necessario che il giudice rimettente anticipi il proprio giudizio poiché tale questione è logicamente successiva” (cfr. sentenza n. 336/2000). E nel caso in esame l’accoglimento della questione renderebbe ammissibile il ricorso, il che è bastante per ritenere sussistente la rilevanza.
In termini di non manifesta infondatezza, si osserva che la prassi giurisprudenziale, in ipotesi di una violazione manifesta di principi della Corte di Giustizia dettati in sede di rinvio pregiudiziale – violazione che qui esisterebbe -, renderebbe contrastanti l’art. 110 c.p.a. e art. 362 c.p.c., con l’obbligo di leale collaborazione dell’Italia per conformarsi con le sentenze Corte di Giustizia ed assicurare “l’effetto utile e il primato del diritto UE”, ai sensi dell’art. 4 TUE; l’adempimento di tale obbligo impedisce la formazione di un giudicato contrario al diritto unionale, con conseguente violazione dell’art. 11 Cost. e art. 117 Cost., comma 1, in relazione agli assunti vincoli con l’Unione Europea. In tal modo – come insegna la giurisprudenza della CGUE – verrebbe diminuito l’effetto dell’art. 267 TFUE, e non si terrebbe neppure conto della natura penale ai sensi dell’art. 6 CEDU.
Nel caso in esame, mancano rimedi: con la sentenza del 15 marzo 2021 n. 2222, infatti, il Consiglio di Stato ha ritenuto inammissibili i primi due vizi revocatori denunciati ex art. 395 c.p.c., n. 4, da Roche S.p.A.; e la rievocazione non è d’altronde rimedio per errore di diritto.
La tutela risarcitoria può sostituire quella demolitoria soltanto se sussiste un corretto bilanciamento legislativo di tutela di altri diritti e valori costituzionali, come ha affermato la Consulta con la sentenza n. 160/2019: e nel caso in esame non vi sarebbero diritti o valori costituzionali giustificanti l’assenza della tutela caducatoria.
Si supererebbe poi, qui, la sentenza n. 6/2018 della Corte Costituzionale perché la questione sarebbe diversa e nuova, consistendo in una “macroscopica violazione”, da parte del giudice di ultima istanza, dei principi unionali sanciti in via pregiudiziale nel medesimo giudizio dalla Corte di Giustizia e delle attività istruttorie pregiudiziali rimessegli, “nel contesto dell’impugnazione di un provvedimento AGCM avente efficacia penale ai fini della CEDU”.
Si argomenta dunque sulla questione, tra l’altro affrontando il profilo della pluralità delle giurisdizioni riconosciuta dalla Consulta e sostenendo che, se il giudice dotato di giurisdizione esclusiva in materia viola le indicazioni della Corte di Giustizia, “nulla dovrebbe precludere alla Cassazione, anche sulla base dei propri tradizionali poteri, di sindacare il difetto o l’eccesso di potere” sussistente per non aver tale giudice il potere giurisdizionale per applicare le regole incompatibili con sentenza della Corte di Giustizia e quindi con il diritto unionale; e la Cassazione è “giudice ultimo del rispetto dei confini del potere giurisdizionale”.
Pertanto sussiste nell’art. 110 c.p.a., art. 360 c.p.c. e art. 362 c.p.c., comma 1, violazione dell’art. 11 Cost. e art. 117 Cost., comma 1, per mancato rispetto delle “limitazioni di sovranità”; degli artt. 24 e 111 Cost., per mancanza di apposito rimedio, in riferimento al valore del giusto processo di cui all’art. 111 e alle garanzie di cui all’art. 24; dell’art. 117, comma 1, rispetto all’art. 6 CEDU (da cui discende la natura quasi penale della sanzione antitrust) in quanto l’impossibilità di ricorrere per cassazione per violazione dei principi di diritto stabiliti in rinvio pregiudiziale evitando il consolidamento di “applicazione errata e abnorme” dell’art. 101 TFUE lede “i diritti e le libertà” delle imprese tutelati dall’art. 47, comma 1, della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea e dall’art. 6CEDU.
10.1.5 In alternativa al sollevamento della questione di legittimità costituzionale, si chiede di disporre il rinvio pregiudiziale ex art. 267 TFUE “sulla falsariga dell’Ordinanza Randstad ma valorizzando tutte le peculiarità della presente controversia”, per chiedere se l’art. 4, par. 3 e art. 19, par. 1, TUE nonché l’art. 2, parr. 1 e 2 e art. 267 TFUE, anche alla luce dell’art. 47 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea, contrastino la prassi interpretativa derivante dalla sentenza n. 6/2018 della Consulta in ordine all’art. 111 Cost., comma 8, art. 360 c.p.c., comma 1, n. 1 e art. 362 c.p.c., comma 1 e altresì dalla susseguente giurisprudenza nazionale, per cui il ricorso per cassazione per “difetto di potere giurisdizionale” non è utilizzabile avverso le sentenze del Consiglio di Stato contrastanti con sentenza della Corte di Giustizia emessa in via pregiudiziale nello stesso giudizio in settori disciplinati dal diritto Eurounitario – nel caso in esame, il settore della concorrenza -. Infatti, essendo giudice contro cui non è proponibile ricorso giurisdizionale di diritto interno, queste Sezioni Unite sono obbligate ex art. 267, comma 3, TFUE al rinvio pregiudiziale; altrimenti insorge responsabilità risarcitoria “per fatto del giudice” dell’Italia e si rende possibile l’avvio di una procedura di infrazione ai sensi dell’art. 258 TFUE da parte della Commissione Europea.
Si sostiene, inoltre, che nel caso in esame non sussistano le giustificazioni di denegato rinvio indicate dalla nota sentenza CILFIT, indicate come identità materiale rispetto a fattispecie su cui la Corte di Giustizia si è già espressa, oppure giurisprudenza consolidata di quest’ultima sul punto di diritto pur mancando l’identità materiale della fattispecie, oppure ancora assenza di ogni ragionevole dubbio sull’applicazione delle norme rilevanti del diritto unionale. A proposito della prima giustificazione, si osserva che non ancora non sussiste pronuncia della CGUE sull’ordinanza Randstad, mentre a proposito delle altre due se ne adduce l’assenza per quanto rileva proprio l’ordinanza Randstad.
10.1.6 Infine, si richiede sospensione ai sensi dell’art. 295 c.p.c., e/o rinvio dell’udienza – in subordine al sollevamento di pregiudiziale questione costituzionale e/o Europea – in attesa della sentenza della Corte di Giustizia relativa alla ordinanza Randstad (C-497/20, udienza fissata al 6 luglio 2021) o relativa al rinvio operato dal Consiglio di Stato nell’ambito del giudizio di revocazione (C-261/21) in quanto la pronuncia della CGUE è decisiva in ordine al secondo e al quarto motivo.
10.2 Le memorie Novartis argomentano su quanto già addotto nel ricorso, aggiungendo peraltro anch’esse l’asserto della pretesa incidenza soprattutto di S.U. ord. 19598/2020 ma altresì della sopravvenuta sentenza del Tribunale penale di Roma, oltre a richiamare ampiamente dottrina, tra cui note favorevoli alla ordinanza Randstad e uno scritto critico nei confronti della sentenza del Consiglio di Stato qui in esame.
Si presenta poi, per la sopravvenienza appunto della ord. 19598/2020 di queste Sezioni Unite – in subordine all’accoglimento del ricorso, istanza di sospensione del procedimento fino alla pronuncia pregiudiziale della Corte di Giustizia in relazione a tale ordinanza, per la sua indubbia e decisiva incidenza, potendosi disporre la sospensione se viene sottoposta la stessa questione.
In ulteriore subordine, si presenta istanza di differimento per il tempo necessario perché la Corte di Giustizia si pronunci sul rinvio pregiudiziale effettuato dalla suddetta ordinanza.
In graduazione ancor più ulteriore, si chiede di disporre rinvio pregiudiziale ex art. 267 TFUE alla Corte di Giustizia in ordine alla questione interpretativa riguardante la compatibilità con il diritto unionale della prassi interpretativa descritta dall’ordinanza Randstad.
11. Procedendo allora all’esame dei ricorsi presentati da Hoffmann-La Roche LTD e Roche S.p.A. – i quali veicolano, si ripete, un contenuto analogo, per cui meritano vaglio congiunto -, occorre subito affrontare, in quanto dalle ricorrenti definita come decisivo in ordine al vaglio dei motivi secondo e quarto dei ricorsi suddetti, quel che è stato addotto come novità appunto dirimente in relazione anzitutto a S.U. ord. 19598/2020.
11.1.1 Questa ordinanza, ormai ben nota, è stata pronunciata in relazione a un caso relativo ad una procedura di gara dalla quale la parte ricorrente, Randstad Italia S.p.A., si era trovata esclusa per preteso mancato superamento di una “soglia di sbarramento”. Essa pertanto aveva adito il Tar lamentando tale esclusione e poi, con motivi aggiunti, denunciando ulteriori erroneità che sarebbero state commesse nell’aggiudicazione della gara ad una RTI concorrente. Questa e la pubblica amministrazione coinvolta si erano costituite tra l’altro eccependo il difetto di legittimazione di controparte a proporre detti motivi essendo stata esclusa dalla gara.
Il Tar, nella sua sentenza, aveva rigettato tale eccezione, reputando che Randstad Italia fosse legittimata a contestare l’esito della gara in ogni suo profilo, avendovi legittimamente partecipato possedendo i requisiti di ammissione; pertanto aveva esaminato tutti i motivi del ricorso, rigettandoli nel merito.
Randstad Italia aveva presentato appello principale, riproponendo i motivi; le società componenti la RTI avevano presentato appello incidentale, fondato sull’asserito difetto di legittimazione di controparte quanto alle censure dirette allo svolgimento della gara, essendone stata esclusa.
Il Consiglio di Stato dell’appello principale rigettava il motivo originario, quello relativo cioè alla soglia di sbarramento; quanto ai motivi aggiunti, riproposti nelle ulteriori censure dell’appello principale, accogliendo l’impugnazione incidentale di controparte non li esaminava nel merito, ritenendo l’appellante principale priva di legittimazione a proporli perché esclusa dalla gara, e come tale da qualificarsi “portatrice di un interesse di mero fatto, analogo a quello di qualunque altro operatore economico del settore che non ha partecipato alla gara”.
Randstad Italia aveva presentato ricorso dinanzi al giudice della giurisdizione, sulla base di un unico motivo, denunciante la violazione dell’art. 362 c.p.c., comma 1 e art. 110 c.p.a., per averle il Consiglio di Stato negato “la legittimazione e l’interesse a proporre le censure volte al travolgimento della gara”, così violando il principio di effettività della tutela giurisdizionale di cui all’art. 1, par. 1, comma 3, Direttiva Cee 21 dicembre 1989 n. 665, nonché integrando il diniego di accesso alla tutela giurisdizionale. Invocava la ricorrente quella giurisprudenza che aveva optato per l’orientamento “dinamico” in ordine al contenuto della giurisdizione con specifica ricaduta proprio sul diritto Eurounitario (S.U. 6 febbraio 2015 n. 2242 – che, a proposito dell’impugnazione delle sentenze del Consiglio di Stato, era giunta ad affermare che il controllo del limite esterno della giurisdizione affidato alla Corte di Cassazione dall’art. 111 Cost., comma 8, “non include il sindacato sulle scelte ermeneutiche del giudice amministrativo, suscettibili di comportare errori “in iudicando” o “in procedendo” per contrasto con il diritto dell’Unione Europea, salva l’ipotesi “estrema”, in cui l’errore si sia tradotto in una interpretazione delle norme Europee di riferimento in contrasto con quelle fornite dalla Corte di Giustizia Europea, sì da precludere l’accesso alla tutela giurisdizionale dinanzi al giudice amministrativo” – e S.U. 29 dicembre 2017 n. 31226 – per cui non sono diniego di giurisdizione da parte dei giudici speciali apicali gli errori “in iudicando” o “in procedendo” anche se riguardanti il diritto dell’Unione Europea “salvo i casi di radicale stravolgimento delle norme di riferimento (nazionali o dell’Unione) tali da ridondare in delegata giustizia, ed in particolare, salvo il caso, tra questi, di errore “in procedendo” costituito dall’applicazione di regola processuale interna incidente nel senso di negare alla parte l’accesso alla tutela giurisdizionale nell’ampiezza riconosciuta da pertinenti disposizioni normative dell’Unione Europea, direttamente applicabili, secondo l’interpretazione elaborata dalla Corte di giustizia”), non proseguito dopo l’intervento della Consulta con la sentenza n. 6/2018.
11.1.2 Così conformata la regiudicanda, queste Sezioni Unite si erano trovate dinanzi alla eccezione di inammissibilità del ricorso sollevata dai resistenti, fondata sull’asserto che quanto denunciato nel ricorso non costituiva violazione dei limiti esterni della giurisdizione, ma, semmai, integrava una violazione di legge non rientrante nel presente tipo di ricorso per cassazione.
Nell’ordinanza qui invocata, pertanto, si è rilevato: “Se fosse fondata l’eccezione, sollevata dai resistenti, di inammissibilità del ricorso per cassazione la causa potrebbe definirsi in rito” per l’estraneità del motivo al “motivo inerente alla giurisdizione”, essendo “una ordinaria ipotesi di violazione di legge”. E quindi “non sarebbe rilevante accertare l’esistenza del denunciato contrasto” della sentenza del Consiglio di Stato con i precedenti della Corte di Giustizia, “né acquisire preliminarmente l’esatta interpretazione delle norme del diritto dell’Unione pertinenti” mediante il rinvio pregiudiziale ex art. 267 TFUE.
In tale ordinanza, peraltro, queste Sezioni Unite hanno poi ritenuto che detta prospettazione non fosse accoglibile, per cui hanno sviluppato un percorso che le ha condotte, in particolare sulla base della rinuncia dello Stato alla sovranità in riferimento alla normativa unionale – includente i principi di effettività ed equivalenza – al rinvio pregiudiziale ex art. 267 TFUE proprio per l’avere ravvisato l’assenza del principio di effettività, assenza reputata non superabile dell’ulteriore principio dell’autonomia procedurale degli Stati membri. E allora la sostanza di quel che si chiede alla Corte di Lussemburgo viene a conformarsi nel “dubbio di compatibilità con il diritto dell’Unione” della prassi interpretativa nazionale convalidata dalla sentenza n. 6/2018 della Consulta, dubbio che, considerata la natura del diritto la cui compatibilità sarebbe così sottoposta al vaglio, si è ritenuto debba essere “sciolto dalla Corte di giustizia”.
11.1.3 Peraltro, non si può non rilevare che la pretesa discrasia, che metterebbe in discussione il principio di effettività – come principio unionale con le regole procedurali interne applicate dal Consiglio di Stato nella sentenza impugnata da Randstad ha assunto un contenuto del tutto divergente rispetto a quel che in questa sede costituisce il thema decidendum sotto il profilo regolatorio della giurisdizione.
Nel caso Randstad, infatti, la questione si impernia sul diritto alla fruizione della tutela giurisdizionale, riconducibile, in modo quanto mai agevole, al concetto – in realtà semanticamente ma anche ontologicamente più lato – della effettività di tutela giurisdizionale. Id est nel caso Randstad si discute non sul contenuto della tutela giurisdizionale, bensì sull’accesso alla tutela giurisdizionale. Ciò, infatti, è l’ovvio riflesso della legittimazione che la ricorrente, materialmente agendo, ha giuridicamente addotto e che il Consiglio di Stato, quale giudice amministrativo di ultima istanza, le ha negato (in riforma della sentenza di primo grado) parificandola, per così dire, ad un soggetto esterno alla vicenda giuridica: essa è stata infatti qualificata “portatrice di un interesse di mero fatto, analogo a quello di qualunque altro operatore economico del settore che non ha partecipato alla gara”.
Si è dunque dinanzi a una questione di accesso alla tutela giurisdizionale, che è ictu oculi diversa da una questione di contenuto della tutela giurisdizionale stessa, ovvero dalla determinazione del perimetro della tutela che viene conferita a chi è legittimato ad accedervi. E l’ingresso non è il perimetro, vale a dire la legittimazione alla tutela non costituisce, di per sé, completo criterio di identificazione del contenuto della tutela.
Se è vero, infatti, che la legittimazione ad accedere si riflette sull’oggetto del procedimento giurisdizionale e quindi, entro certi limiti, su tale oggetto influisce, è parimenti vero, peraltro, che l’oggetto non commisura automaticamente e integralmente il potere giurisdizionale attraverso il quale esso viene conosciuto e regolato. Il che significa che la tutela giurisdizionale si concretizza, quale esito del processo, non mediante una assoluta correlazione alla pretesa attorea, bensì quale esito dell’oggettivo paradigma giuridico. Sussiste, invero, in un sistema correttamente strutturato, una elezione normativa che, per un retto e insito controbilanciamento con altri valori giuridicamente rilevanti, dà una misura al contenuto della tutela, il controbilanciamento così conformando un sistema compatibile con il principio che logicamente è “a monte” di ogni posizione soggettiva tutelata, l’effettività.
11.1.4 Nel caso Randstad, allora, queste Sezioni Unite hanno messo in discussione la conformazione dell’ingresso alla tutela giurisdizionale, il che conduce, inevitabilmente, ad una sua verifica di controllo rispetto al principio dell’effettività.
Nel caso in esame, invece, non vi è alcuna discussione sulla legittimazione delle attuali ricorrenti: hanno adito il giudice amministrativo – e, significativamente, non è stato contestato che la giurisdizione competesse al giudice amministrativo – e il giudice amministrativo non ha arrestato il processo in limine litis, bensì ha dato luogo alla cognizione del merito, di cui ha fatto quindi oggetto della sua decisione.
Non si può poi non rilevare che, pur rientrando formalmente anche negli errores di cui è vietato il vaglio al giudice regolante la giurisdizione – perché formalmente più non rientra nella individuazione del giudice cui la giurisdizione è conferita -, la questione della legittimazione e’, per così dire, radicale nella formazione del fenomeno processuale, onde una sua ontologica prossimità con il diniego della giurisdizione potrebbe essere sostenibile, dovendosi peraltro approfondire se una siffatta prossimità rimanga tale oppure se la questione venga proprio “attratta” e inclusa nella identificazione della giurisdizione. Ma nel caso in esame, si ripete, ciò non incide per quanto sopra rilevato, onde il rinvio pregiudiziale alla Corte di Lussemburgo effettuato da S.U. ord. 19598/2020 è privo di pertinenza rispetto al thema decidendum della presente causa nella quale, si può fin d’ora osservare, si censura il Consiglio di Stato non per aver denegato la legittimazione alla tutela giurisdizionale delle attuali ricorrenti, bensì per le modalità contenutistiche della giurisdizione che ha per loro esercitato.
Nessuna incidenza, quindi, apporta la sopravvenienza dell’ordinanza Randstad sul secondo e sul quarto motivo dei ricorsi Roche, e le stesse ricorrenti, a ben guardare – si nota ad abundantiam – giungono a implicitamente riconoscerlo.
Infatti, l’ordinanza Randstad si rapporta, nelle sue argomentazioni, alla celebre sentenza n. 6/2018 della Corte Costituzionale, ma le ricorrenti osservano quando argomentano in ordine al sollevamento di questione costituzionale che tale intervento del giudice delle leggi si supererebbe perché nel caso in esame si sarebbe dinanzi a una questione diversa e nuova. Nessuna consistenza, pertanto, è attribuibile alle istanze di “attesa” in relazione alla pronuncia che la CGUE verrà ad emettere sul rinvio pregiudiziale di S.U. ord. 19598/2020.
12.1.1 Entrando allora nel vaglio dei ricorsi Roche, si osserva che il primo motivo denuncia il rifiuto da parte del Consiglio di Stato di esercitare il potere giurisdizionale (in effetti potere-dovere), in quanto il giudice non può limitarsi a verificare la plausibilità della scelta dell’autorità amministrativa, bensì deve espletare una piena e diretta verifica dei fatti, come d’altronde insegna la Corte di Giustizia. Sostenendo quindi che tale pretesa omissione avrebbe integrato non l’errore nel giudicare – error in iudicando -, bensì, in sostanza, il rifiuto di dare giustizia – il diniego di giurisdizione -, e che in tal modo avrebbe ricondotto la questione nell’ambito affidato a queste Sezioni Unite dall’art. 111 Cost., comma 8, si adduce che il Consiglio di Stato avrebbe dovuto accertare – e, appunto, non l’avrebbe invece fatto – “la presunta equivalenza terapeutica” tra i due farmaci de quibus, l’esistenza o meno, quando fu emesso il provvedimento di AGCM, di valutazioni o comunque prese di posizione delle Autorità competenti (in primis AIFA) “o dei Giudici” sull’illiceità dell’utilizzo off label di ***** – sia sotto il profilo della domanda, ovvero quello della prescrizione, sia sotto il profilo della offerta, ovvero quello della produzione e della commercializzazione -, nonché la sussistenza di prova, sotto forma della documentazione presente nel fascicolo istruttorio di AGCM, non solo della concertazione tra Roche e Novartis, ma anche (e soprattutto, per implicita logica in ordine alla sua significatività) della natura ingannevole di quanto era stato diffuso in conseguenza proprio di tale concertazione.
A ciò aggiunge la censura in esame l’asserto che il Consiglio di Stato si sarebbe espressamente sgravato dell’obbligo di indagine sulla già richiamata equivalenza terapeutica tra i due farmaci, così entrando in conflitto con il quinto quesito che esso stesso aveva sottoposto alla Corte di Giustizia, il quale sarebbe stato basato proprio sull’assenza di prove al riguardo.
Il tutto viene sorretto con il richiamo all’orientamento relativo alla interpretazione dinamica della giurisdizione quale compito conferito dalla Costituzione a queste Sezioni Unite in relazione ai limiti esterni, che non sarebbe stato superato appieno dal ben noto intervento della Consulta con la sentenza n. 6/2018, la quale avrebbe comunque apportato una interpretazione non vincolante, nel caso in esame superabile anche per la peculiarità della fattispecie, dato che il Consiglio di Stato avrebbe inadempiuto le indicazioni dettategli dalla Corte di Lussemburgo; e, qualora manchi un controllo esterno di questa Suprema Corte, non sarebbero assicurati i principi di effettività della tutela e del giusto processo.
12.1.2 Tutto il motivo, ictu oculi, tenta di far confluire l’asserita inadeguatezza di attività istruttorie e/o valutazioni fattuali nella fattispecie del diniego della giurisdizione da parte del Consiglio di Stato.
Se il presente ricorso fosse stato proposto alla Corte di Cassazione avverso una pronuncia del giudice d’appello del plesso giurisdizionale ordinario, sarebbe agevole qualificare il motivo come perseguimento di un terzo grado di merito. Le ricorrenti, infatti, lamentano che il giudice – qui, ovviamente, il giudice amministrativo – avrebbe omesso di compiere l’accertamento fattuale che gli incombeva in un modo pieno e diretto in ordine ad alcuni elementi, già sopra elencati: in sintesi la sostituibilità terapeutica di ***** a ***** e la natura ingannevole delle informazioni (il che apporterebbe alla non sostituibilità, quantomeno ai fini commerciali) che le società sanzionate avrebbero diffuso sugli effetti collaterali pregiudizievoli del farmaco ***** utilizzato off label.
Si è pertanto dinanzi ad una censura palesemente inammissibile, che nulla ha a che fare con la ripartizione della giurisdizione, considerato altresì, qui ad abundantiam, che il Consiglio di Stato non ha assunto una posizione, per così dire, inadempiente nei confronti della Corte di Giustizia in ordine alle risposte ai quesiti, né tantomeno ha omesso di espletare il vaglio dei fatti rilevanti, ma – al contrario – ha compiuto in toto l’accertamento fattuale.
12.1.3 In particolare (cfr. pagine 44 ss. della sentenza qui impugnata) il Consiglio di Stato affronta in modo espresso la questione della fungibilità dei farmaci, argomentando sulla base della frequente prescrizione di ***** per il medesimo tipo di patologia oftalmica – prescrizione attestante, ad avviso del Consiglio di Stato, la valutazione in maniera precisa del farmaco utilizzato off label -, ed esamina pure la questione della fruibilità di ***** nonostante il necessario riconfezionamento, giungendo ad affermare, appunto espressamente, che “dall’insieme dei dati raccolti” da AGCM “e non oggetto di specifica contestazione” emerge che all’epoca dei fatti per tali patologie il farmaco “di maggior impiego” era proprio *****, mentre ***** ne era il “principale concorrente”. Ne’, ovviamente – si nota peraltro sempre ad abundantiam, essendo ancora, si ripete, al di fuori della funzione regolatoria della giurisdizione – è sostenibile che non sia stato svolto l’accertamento di fatto per omessa esternazione motivazionale del vaglio di tutti i documenti prodotti, e tanto più in un contesto in cui viene rilevato (a pagina 46 della sentenza in questa sede impugnata) il difetto di specifica contestazione dei dati raccolti da AGCM.
Non essendovi stato, dunque, alcun diniego di giurisdizione (e non potendosi, naturalmente, effettuare alcuna valutazione sul contenuto del suo esercizio, né in jure né sotto l’aspetto fattuale), del tutto irrilevanti risultano le argomentazioni fondate sulla – notoriamente ben oltrepassata a seguito dell’insegnamento del giudice delle leggi con la basilare sentenza n. 6/2018 interpretazione “dinamica” del concetto – e del correlato vaglio – di giurisdizione, non sussistendo, d’altronde, si nota ancora una volta meramente ad abundantiam, alcun radicale stravolgimento delle norme da parte del giudice amministrativo, il quale infatti ha adempiuto al dettato della CGUE. Pure sotto questo profilo, quindi, conseguente al primo, la censura patisce una evidente inammissibilità.
12.2.1 Il secondo motivo dei ricorsi delle società del gruppo Roche non si distoglie dalla inammissibile prospettazione già avanzata nel motivo precedente.
Si imputa qui al Consiglio di Stato di non avere valutato gli accertamenti di fatto che gli erano stati demandati dalla Corte di Giustizia, ancora una volta sugli effetti nel mercato rilevante del farmaco off label e sulla natura delle informazioni coltivate dai due gruppi farmaceutici, le quali, secondo le ricorrenti, non sarebbero state in realtà ingannevoli.
Da ciò insorgerebbe la – già addotta nella precedente censura – fattispecie di radicale stravolgimento delle norme con conseguente “manifesta denegata giustizia”, e con l’aggravante” dell’omesso esame di fatto che la CGUE aveva imposto al Consiglio di Stato quale giudice di rinvio in quanto necessario per la corretta applicazione dell’art. 101 TFUE.
Quindi – e la censura si spartisce in due submotivi sempre denuncianti “manifesta denegata giustizia” – il Consiglio di Stato avrebbe omesso di indagare in termini fattuali sulla illiceità della domanda e dell’offerta del farmaco off label (submotivo A) e avrebbe altresì omessa l’indagine sulla natura ingannevole delle informazioni diffuse; e così si giunge a concludere nel senso che il diniego della giurisdizione con stravolgimento delle norme di riferimento qui sarebbe non solo sussistente ma per di più “particolarmente grave trattandosi di violazione di norme UE”.
12.2.2 Come già rilevato a proposito del primo motivo, il Consiglio di Stato ha compiuto l’accertamento fattuale, senza distogliersi dalle indicazioni della Corte di Giustizia, ma, al contrario, con completezza: pure questa censura, d’altronde, critica inammissibilmente la sostanza dell’accertamento fattuale, per fornirne uno alternativo, e tenta di schermare tale evidente estraneità alla garanzia di cui all’art. 111 Cost., comma 8, anche mediante l’asserto peraltro prospettato nel precedente motivo precipuamente come mancata esecuzione delle indicazioni della Corte di Giustizia – della violazione di norme Eurounitarie.
Vale, conducendo appunto ad una evidente inammissibilità, quanto si è osservato riguardo alla doglianza precedente: quel che viene posto in discussione e’, direttamente, l’accertamento di fatto, che non potrebbe essere sottoposto a revisione di questa Suprema Corte neppure se il ricorso fosse riconducibile, anziché all’art. 362 c.p.c. e art. 110 c.p.a. e alla loro fonte costituzionale costituita dall’art. 111 Cost., comma 8, alle fattispecie di censura in sede di legittimità della pronuncia del giudice ordinario.
12.2.3 Comunque – si osserva per assoluta completezza – più volte queste Sezioni Unite hanno affermato che la violazione di norme Eurounitarie non produce peculiari effetti sulla funzione di riparto della giurisdizione sancita dall’art. 111 Cost., comma 8, rimanendo inclusa nel paradigma degli errores in iudicando e sussistendo peraltro nell’ordinamento strumenti di tutela qualora in tale errore sia incorso il giudice nel suo plesso apicale, il cosiddetto giudice di ultima istanza.
E pure quando è stata seguita, con un orientamento che non raggiunse – non a caso – l’uniformità, quella impostazione che dilatava il ruolo del giudice regolatore della giurisdizione tramite un’ottica definita dinamica, si è per lo più escluso (arresti isolati sono rimasti quelli cui si è fatto riferimento, come sopra si è visto, anche nel ricorso Randstad: S.U. 6 febbraio 2015 n. 2242 e S.U. 29 dicembre 2017 n. 31226) che la violazione del diritto Eurounitario da parte del giudice amministrativo valesse di per sé ad integrare il superamento delle sue attribuzioni giurisdizionali (cfr. p. es. S.U. 4 febbraio 2014 n. 2403), negando lo sconfinamento dei limiti esterni della giurisdizione anche nei casi in cui non fosse stato effettuato il rinvio pregiudiziale alla Corte di Giustizia.
Ma soprattutto già a quell’epoca si è chiaramente affermato – da S.U. 5 luglio 2013 n. 16886 – che “l’ordinamento giuridico interno assicura comunque una effettività di tutela rispetto al pregiudizio ipoteticamente subito a fronte della lesione di un diritto riconosciuto dal Trattato Europeo, ben potendo il preteso danneggiato ottenere il relativo ristoro in sede risarcitoria”; e anche l’error in iudicando “non si trasforma in eccesso di potere giurisdizionale solo perché viene in gioco, nell’interpretazione della norma sostanziale attributiva di diritti, il diritto dell’Unione”, giacché “non ogni pretesa deviazione dal corretto esercizio della giurisdizione, sotto il profilo interpretativo ed applicativo del diritto sostanziale, si risolve in un difetto di giurisdizione sindacabile ad opera della Corte di Cassazione” tranne nell’ipotesi di “indebito rifiuto di erogare la dovuta tutela giurisdizionale a cagione di una malintesa autolimitazione, in via generale, dei poteri del giudice speciale”: pertanto, sostenere che sussista un ruolo di questa Suprema Corte comprendente “l’esercizio di un sindacato sull’osservanza, da parte del giudice amministrativo, della giurisprudenza della Corte di giustizia” o anche l’esercizio dell’obbligo di rinvio pregiudiziale significa omettere di tenere in conto che “nel plesso della giurisdizione amministrativa spetta al Consiglio di Stato, alle sue sezioni e all’adunanza plenaria, quale giudice di ultima istanza ai sensi dell’art. 267, comma 3, del Trattato sul funzionamento dell’Unione Europea…, garantire, nello specifico ordinamento di settore, la compatibilità del diritto interno a quello dell’Unione, anche e soprattutto attraverso l’operazione interpretativa del diritto Eurounitario, originario e derivato, svolta dalla Corte di giustizia, all’uopo sollecitata, se del caso, mediante il meccanismo della questione pregiudiziale, e così da contribuire alla formazione dello jus commune Europaeum”. E, pur potendo “accadere che la decisione del giudice amministrativo di ultima istanza contenga una violazione del diritto comunitario in pregiudizio di situazioni giuridiche soggettive protette dal diritto dell’Unione”, comunque “il principio di effettività della tutela in presenza di danni causati ai singoli da violazione del diritto comunitario imputabili al giudice amministrativo di ultima istanza non impone né di riaprire quella controversia ormai definitivamente giudicata negli aspetti di merito né di attribuire alla parte soccombente un nuovo grado di impugnazione dinanzi al giudice regolatore della giurisdizione al fine di rimediare ad un errore che, pur “sufficientemente caratterizzato”, non si traduca in uno sconfinamento dei limiti della giurisdizione devoluta al giudice amministrativo”, in quanto l’ordinamento conosce, in caso di grave e manifesta violazione del diritto, “altri strumenti di tutela, secondo una logica di compensazione solidaristica” (e qui S.U. 16886/2013 invoca sentenze della CGUE pertinenti – ormai ben note -: sentenza 30 settembre 2003, C-224/2001, Koebler c. Repubblica austriaca, sentenza 13 giugno 2006, C173/2003, Traghetti del Mediterraneo S.p.A. in liquidazione c. Repubblica italiana, sentenza 24 novembre 2011, C-379/2010, Commissione Europea c. Repubblica italiana).
La più recente S.U. 18 dicembre 2017 n. 30301, poi, ha escluso espressamente la sussistenza della violazione, da parte del Consiglio di Stato, dei limiti esterni della giurisdizione per violazione, anche manifesta, delle norme di diritto Eurounitario, rimarcando che il controllo del limite esterno della giurisdizione, affidato dall’art. 111 Cost., comma 8, alla Cassazione, “non include il sindacato sulle scelte ermeneutiche del giudice amministrativo, suscettibili di comportare errori in iudicando o in procedendo per contrasto con il diritto dell’Unione Europea, salva l’ipotesi estrema in cui l’errore si sia tradotto in una interpretazione delle norme Europee di riferimento in contrasto con quelle fornite dalla Corte di Giustizia Europea, limitatamente ai casi in cui ne sia risultata preclusa, rendendola non effettiva, la difesa giudiziale”: fattispecie, quest’ultima, che – a tacer d’altro – qui non ricorre, le ricorrenti non essendo state private dell’esercizio della loro difesa.
12.2.4 E dopo la sentenza n. 6/2018 della Consulta, a fortiori, questa linea è stata inequivocamente e decisamente proseguita.
S.U. 11 novembre 2019 n. 29085 ha affermato che il contrasto delle decisioni del Consiglio di Stato con il diritto Europeo non integra eccesso di potere denunziabile ex art. 111 Cost., comma 8, poiché anche la violazione delle norme dell’Unione Europea o della CEDU fonda un motivo di illegittimità, per quanto particolarmente qualificata, che si sottrae al controllo di giurisdizione di questa Suprema Corte, “né può essere attribuita rilevanza al dato qualitativo della gravità del vizio, essendo tale valutazione, sul piano teorico, incompatibile con la definizione degli ambiti di competenza e, sul piano fattuale, foriera di incertezze, in quanto affidata a valutazioni contingenti e soggettive”.
Parimenti, S.U. ord. 6 marzo 2020 n. 6460 ha espressamente riconosciuto che la violazione da parte del Consiglio di Stato di norme della Unione Europea o della CEDU non è sindacabile in sede di controllo della giurisdizione, essendo tale controllo “circoscritto all’osservanza dei meri limiti esterni della giurisdizione, senza estendersi ad asserite violazioni di legge sostanziale o processuale – l’accertamento delle quali rientra nell’ambito dei limiti interni della giurisdizione – concernenti il modo di esercizio della giurisdizione speciale”.
S.U. ord. 30 ottobre 2020 n. 24107 ha poi ribadito che il controllo affidato a questa Corte dall’art. 111 Cost., comma 8, “non include il sindacato sulle scelte ermeneutiche del giudice amministrativo, suscettibili di comportare errori “in iudicando” o “in procedendo” per contrasto con il diritto dell’Unione Europea, salva l’ipotesi “estrema” in cui l’errore si sia tradotto in un’interpretazione delle norme Europee di riferimento in contrasto con quelle fornite dalla CGUE, sì da precludere, rendendola non effettiva, la difesa giudiziale”: richiamato allora quanto sopra si è osservato a proposito del precedente conforme S.U. 18 dicembre 2017 n. 30301 sulla inesistenza della ipotesi “estrema” della carenza di difesa giudiziale nel presente caso, si aggiunge – e, si nota, ormai ad abundantiam – che qui non è configurabile alcun contrasto nella interpretazione delle norme Europee tra il Consiglio di Stato e la CGUE, lamentando invece le ricorrenti, nella reale sostanza delle loro censure, un preteso difetto dell’accertamento fattuale che l’interpretazione della CGUE richiede e che il Consiglio di Stato, appunto sul piano interpretativo, non nega affatto sia dovuto.
E in generale, sempre a proposito della identificazione del limite esterno della giurisdizione per le pronunce del Consiglio di Stato ai sensi dell’art. 111 Cost., comma 8, si è di recente ribadito, negli arresti massimati, che la relativa verifica di controllo “non include il sindacato sulle scelte ermeneutiche del giudice amministrativo, suscettibili di comportare errori “in iudicando” o “in procedendo”, senza che rilevi la gravità o intensità del presunto errore di interpretazione, il quale rimane confinato entro i limiti interni della giurisdizione” (S.U. 4 dicembre 2020 n. 27770), un’erronea interpretazione potendo soltanto integrare, qualora in concreto incida sul contenuto della decisione, proprio un error in iudicando (cfr. da ultimo S.U. ord. 28 dicembre 2020 n. 29653 e S.U. 7 luglio 2021 n. 19244).
12.2.5 Invero, non si può non ribadire che l’accertamento delle violazioni normative, siano di norme sostanziali, siano di norme processuali, rientra comunque nell’ambito dei limiti interni della giurisdizione, e pertanto concerne l’intrinseca modalità (il c.d. proprium) che rende consistenza all’esercizio della giurisdizione in quanto tale, e dunque ovviamente anche se si tratta di giurisdizione speciale, laddove il controllo ex art. 111 Cost., comma 8, concerne esclusivamente la verifica dell’osservanza dei limiti esterni della giurisdizione (da ultimo tra gli arresti massimati, S.U. ord. 6 marzo 2020 n. 6460, cit., si fonda su questo principio appunto in un caso di denuncia di pretesa violazione, da parte del Consiglio di Stato, di norme di diritto della Unione Europea e della CEDU; conforme, quanto alla violazione della CEDU oltre che di norme costituzionali e ordinarie dell’ordinamento italiano -, S.U. ord. 18 dicembre 2020 n. 29653, cit. E nello stesso senso, in relazione soltanto all’ipotesi di violazione di norme del diritto interno o di loro espressa disapplicazione, cfr. pure S.U. ord. 15 ottobre 2020 n. 22357, S.U. 4 dicembre 2020 n. 27770, cit., e nuovamente S.U. ord. 28 dicembre 2020 n. 29653).
Tutto questo conduce a dimostrare l’assoluta inconsistenza del motivo, che, in effetti, cade nella medesima inammissibilità di quello precedente.
12.3.1 Il terzo motivo lamenta che il Consiglio di Stato, compiendo un eccesso di potere giurisdizionale e così superando i limiti esterni della sua giurisdizione, in sostanza abbia invaso i poteri amministrativi di AGCM avendo confermato la sanzione da questa irrogata sulla base di fatti diversi da quelli che l’Autorità aveva contestato, riqualificando la fattispecie e in tal modo violando pure il principio della contestazione.
Mentre l’Autorità aveva contestato che la concertazione delle società poi sanzionate era diretta a creare una artificiosa differenziazione tra i due farmaci ***** e ***** tramite la diffusione di ingannevoli notizie relative ad *****, il Consiglio di Stato avrebbe modificato questa contestazione, sia laddove afferma che dal compendio probatorio emerge la strategia anticoncorrenziale dell’enfatizzare i rischi derivanti dall’uso intravitreale del meno costoso *****”, abusando della mancata richiesta da parte del suo MAH di un’apposita AIC per usi oftalmici, sia laddove definisce “apparente anomalia” tale mancata richiesta. Così sarebbe stata compiuta “una nuova contestazione” e il giudice amministrativo sarebbe incorso in eccesso di potere giurisdizionale sconfinando nella sfera del merito riservata alla pubblica amministrazione. E la giurisprudenza di questa Suprema Corte insegna che il giudice non può sostituirsi alla valutazione tecnico-discrezionale dell’Autorità, ciò non disponendo neppure l’art. 133, comma 1, lett. l c.p.a..
11.3.2 A tacer d’altro, non si comprende come la contestazione di AGCM intesa dalle stesse ricorrenti nel senso di imputazione di un accordo anticoncorrenziale diretto a costituire un’artificiosa differenziazione dei due farmaci ingenerando, tramite diffusione di notizie, pubbliche preoccupazioni sull’utilizzo intravitreale di ***** non coincida con quel che enuncia il giudice amministrativo laddove appunto constata che il compendio probatorio ha dimostrato l’esistenza di un accordo diretto a “enfatizzare i rischi derivanti dall’uso intravitreale del meno costoso *****”; che, poi, sia stata rilevante la non comprensibilità – questo, a ben guardare, è il significato della qualificazione come “apparente anomalia” – della mancata richiesta alle autorità competenti della collocazione in label di ***** per l’uso oftalmico è inequivocabilmente una argomentazione fattuale di sostegno relativa alla fondatezza della contestazione, non il mutamento della contestazione stessa.
Anche questo motivo, dunque, già per il suo effettivo contenuto escludente quel che esso stesso denuncia, non si configura come riconducibile al vaglio affidato dall’art. 111 Cost., comma 8, al giudice della giurisdizione.
11.4.1 Il quarto motivo dei ricorsi Roche ritorna alla tematica Eurounitaria, riproponendo, in sostanza, il preteso difetto di esecuzione delle indicazioni della Corte di Giustizia in cui si addebita al Consiglio di Stato di essere incorso non svolgendo l’attività accertatoria/valutativa demandatagli dalla Corte quanto ai fatti sottesi all’art. 101 TFUE, attività che gli era stata imposta quale giudice di rinvio. Ciò – ammoniscono le ricorrenti – potrebbe pure suscitare l’avvio di una procedura di infrazione e la presentazione da parte della Commissione del ricorso ex art. 258 TFUE, per cui deve ritenersi insussistente un errore di diritto, bensì ricorrendo proprio un eccesso di potere giurisdizionale negativo.
Ancora viene invocata la sentenza n. 6/2018 della Consulta, osservando che nel caso in esame non si tratta di un omesso rinvio di una questione pregiudiziale alla Corte di Lussemburgo, bensì del “più radicale e abnorme caso” del disattendimento, da parte del Consiglio di Stato quale giudice di rinvio, delle indicazioni e delle interpretazioni elargitegli dal giudice Eurounitario. Il che integra violazione appunto del diritto Eurounitario, ma altresì sostituzione di AGCM nella contestazione di fatto diverso e nella relativa irrogazione sanzionatoria. Si richiama, quale conclusione, la già invocata giurisprudenza di queste Sezioni Unite in ordine al radicale stravolgimento delle norme, qui pure Eurounitarie, cui non è da ritenersi che osti la sentenza n. 6/2018 della Corte Costituzionale, non sussistendo altra forma di tutela oltre all’intervento delle Sezioni Unite tramite un’interpretazione valorizzante l’art. 111 Cost..
11.4.2 Si tratta di una, per così dire, miscelata riproposizione delle censure precedentemente presentate nel ricorso: e, come si è visto, il Consiglio di Stato – oltre a non modificare la contestazione di AGCM -, lungi dal “disobbedire” alla CGUE, ha svolto anche gli accertamenti fattuali specifici (illustrati nelle pagine 44 ss. della sentenza) che gli erano stati indicati quali necessari per una corretta applicazione dell’art. 101 TFUE, onde non si ravvisa il prospettato “radicale e abnorme caso” di violazione degli obblighi di giudice di rinvio. E peraltro non si può non rilevare, ut supra già evidenziato, che la giurisprudenza di queste Sezioni Unite ha più volte riconosciuto la sussistenza di tutele alternative nel caso in cui il vertice di un plesso giurisdizionale violi la normativa Eurounitaria, la tutela da eventuale violazione infatti non rientrando comunque nell’incarico regolatorio della giurisdizione che l’art. 111 Cost., comma 8, ha conferito a questo giudice.
In conclusione, entrambi i ricorsi delle società del gruppo Roche presentano motivi privi di consistenza.
12. Non a caso, quindi, le ricorrenti hanno mirato a corroborare la loro prospettazione impugnatoria con il contenuto della memoria, ove – accanto a quella che si è già constatata essere una valorizzazione qui non pertinente della ordinanza Randstad – sono state riversate ulteriori tematiche, non assimilabili comunque a (inammissibili in questa sede) motivi aggiunti.
12.1 In primo luogo, allora, non si può non qualificare del tutto irrilevante la sopravvenienza di una sentenza penale, divenuta definitiva nell’autunno scorso, che ha assolto dall’imputazione di aggiotaggio due persone fisiche. Si tratta, evidentemente, di un aliud rispetto all’oggetto dell’attività di controllo affidata a quella Autorità amministrativa che, non senza significato, viene ordinariamente conosciuta come Autorità antitrust; e ne sono consapevoli le stesse ricorrenti laddove, ammettendo quella che definiscono autonomia processuale in riferimento alla impugnazione davanti al giudice amministrativo di quanto disposto da AGCM rispetto all’accertamento penale del giudice ordinario, si sforzano a superare l’ostacolo mediante un argomento puramente assertivo, ovvero che l’autonomia processuale non può consentire conclusioni opposte su medesimi fatti, aggiungendo poi l’ulteriore rilievo che si tratterebbe comunque di “accuse penali” ex art. 6 CEDU.
La pluralità delle giurisdizioni è una connotazione ben radicata nel sistema, sulla quale pertanto non occorre soffermarsi, ed è conseguentemente naturale che il giudicato formatosi in uno dei plessi che costituiscono in tale modalità di autonomia la manifestazione del potere giurisdizionale dello Stato non può incidere sull’esercizio della giurisdizione effettuato, nel rispetto del proprio ambito, da un altro plesso.
Il policentrismo giurisdizionale disegnato dai costituenti, lasciando un ampio spazio di evoluzione che il legislatore ordinario ha consapevolmente messo a frutto, non si traduce in una relatività dell’esito di ogni plesso, o comunque nella deminutio dell’esito di un plesso per la sopravvenienza dell’esito divergente prodotto da un altro plesso – il che sarebbe il risultato della prospettazione delle ricorrenti -. Non si tratta, infatti, di un disordine, bensì di parallelismo; e il parallelismo è una forma di autonomia ontologica.
A ben guardare, in realtà, la giurisdizione è calibrata (come, in grado minore, la competenza) dal sostanziale che ne costituisce l’oggetto: pur essendo tradizionalmente incastonata nelle questioni processuali, costituendo nella sequenza di queste la prioritaria, su di essa si riflette direttamente la tipologia sostanziale che viene portata in giudizio, così da farne entro certi limiti assorbire proprio la peculiarità identificativa come oggetto. Non si sovrappone, dunque, tra le altre ipotesi configurabili, la giurisdizione speciale amministrativa con la giurisdizione ordinaria penale, come in ultima analisi prospetta quanto inserito al riguardo nella memoria in esame: nessuna incidenza riveste un giudicato penale sopravvenuto su un giudizio amministrativo ancora in corso, che infatti non ne condivide l’oggetto sostanziale, pur se a livello sovranazionale è qui configurabile una natura di “quasi-penale” dell’oggetto amministrativo, tale natura non avendo certo un effetto di – per così dire – fusione giurisdizionale nella struttura basilare degli ordinamenti interni.
Ad abundantiam, infine, nel caso in esame non si può non notare che sanzionate non sono le persone fisiche che in sede penale hanno rivestito il ruolo di imputate, bensì le quattro società qui ricorrenti.
12.2 Si prospettano in memoria pure il rinvio pregiudiziale alla Corte di Giustizia e il sollevamento di eccezione di legittimità costituzionale, che sarebbe a sua volta pregiudiziale rispetto alla decisione sui motivi e che sarebbe da effettuare in via primaria, in quanto la Corte Costituzionale è “giudice naturale dell’interpretazione dell’assetto costituzionale”, tenuto in conto altresì che la stessa Consulta potrebbe a sua volta disporre rinvio pregiudiziale alla CGUE – si ricorda che sulla natura primaria dell’adizione del giudice delle leggi viene correttamente invocato l’insegnamento della sentenza n. 269/2017 del medesimo.
E dunque, seguendo la richiesta delle ricorrenti, va in primis esaminata l’eccezione di legittimità costituzionale.
13.1 L’eccezione investe l’art. 110 c.p.a., art. 360 c.p.c. e art. 362 c.p.c., comma 1, in riferimento all’art. 11 Cost. e art. 117 Cost., comma 1, per mancato rispetto delle limitazioni di sovranità che questi esprimono; altresì in riferimento agli artt. 24 e 111 Cost., per l’assenza di un apposito rimedio al caso in esame, violandosi così il principio del giusto processo di cui all’art. 111 e quello delle garanzie processuali assicurate alle parti dall’art. 24; e infine in riferimento ancora all’art. 117, comma 1, rispetto all’art. 6 CEDU, in quanto l’impossibilità di ricorrere per cassazione avverso la violazione di principi di diritto stabiliti dalla CGUE nella sua risposta al rinvio pregiudiziale conduce a consolidare un’applicazione non solo errata ma persino abnorme della norma Eurounitaria qui pertinente – l’art. 101 TFUE -, ledendo “i diritti e le libertà” delle imprese tutelati dall’art. 47, comma 1, della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea e 6CEDU.
Ogni violazione delle norme superiori invocate scaturisce – in modo a ben guardare uniforme – nella prospettazione delle ricorrenti da un preteso inadempimento del Consiglio di Stato rispetto a quanto demandatogli, risolvendo il rinvio pregiudiziale effettuato nella causa medesima proprio dal giudice amministrativo apicale, dalla Corte di Giustizia. Il che, sempre ad avviso delle ricorrenti, consente di superare la barriera eretta dalla sentenza n. 6/2018 della Consulta, aprendo le porte ad una questione diversa e nuova: in sostanza, la necessità di fornire una tutela caducatoria/demolitoria anteriormente alla formazione del giudicato, e affidarla alla Cassazione, così erompendo peraltro dai limiti dell’intervento di quest’ultima come inteso finora dall’art. 111 Cost., comma 8 (non a caso, può ben dirsi, non indicato fra le norme costituzionali rispetto alle quali si formula l’eccezione di illegittimità) nel caso – di somma gravità in quanto esorbitante dalla struttura normativa nazionale – in cui sia stato in sostanza deprivato di effetti il dispositivo dell’art. 267 TFUE, pur formalmente applicato.
13.2 Tutti i riferimenti in tal modo rivolti alla Carta Costituzionale presuppongono, ictu oculi, che il Consiglio di Stato abbia inadempiuto all’obbligo che gli era stato imposto dalla Corte di Giustizia non rispondendo ai quesiti del rinvio pregiudiziale: tale inadempimento, come si è visto, consisterebbe sia nel mancato rispetto delle limitazioni di sovranità (art. 11 e art. 117, comma 1), sia nella causa di necessità (nella prospettazione delle ricorrenti) di un apposito rimedio caducatorio sinora non fornito con violazione del principio del giusto processo e delle garanzie difensive (artt. 24 e 111), sia nella violazione dei principi espressi dalla CGUE e comunque sovranazionali (art. 117, comma 1, in riferimento all’art. 6 CEDU e art. 47, comma 1, della Carta di Nizza).
Il che, globalmente considerato, avrebbe rilevanza per sollevare appunto la multipla questione qualora, nel caso in esame, risultasse che il Consiglio di Stato abbia effettivamente inadempiuto all’obbligo di giudice di rinvio a seguito dell’intervento interpretativo della CGUE suscitato dal suo stesso rinvio pregiudiziale. Tale inadempimento, tuttavia, ut supra constatato, non sussiste: il giudice amministrativo di ultima istanza lo dimostra nella propria sentenza ampiamente motivando in riferimento ai dettati della Corte di Giustizia, e, in particolare, anche in ordine agli accertamenti da essa deferitigli (fungibilità dei due farmaci ***** e *****, conformità alle disposizioni vigenti relative a fabbricazione o commercializzazione se esaminate dalle autorità o dai giudici competenti, ingannevolezza delle informazioni sugli effetti collaterali negativi), così chiaramente esternando quel che ne ha reputato come esito (motivazione della sentenza impugnata, pagine 44 ss.).
Ciò è già stato rilevato nel disattendere i motivi presentati nei ricorsi Roche. Tali motivi non possono essere “raddoppiati” e potenziati sotto forma di eccezione di legittimità costituzionale, nel senso che il sollevamento di quest’ultima non può giustificare il superamento dei confini del vaglio riservato a queste Sezioni Unite.
Per accertare, infatti, la pretesa violazione di principi costituzionali qui dedotta la Suprema Corte non può – come in realtà le ricorrenti richiedono – trasmutarsi in un giudice d’appello, e dunque rivalutare il contenuto fattuale dell’accertamento di merito presente nella sentenza impugnata. Invero quel che è prospettabile come violazione di norma costituzionale non può che costituire una questione di diritto, e non una divergenza di fatto: la norma costituzionale non assume una natura, per così dire, ibrida, che legittimi la Corte di Cassazione, per vagliare la sussistenza o meno del requisito della rilevanza dell’eccezione di costituzionalità, a rivedere il merito. Quel che potrebbe rilevare in relazione ad un accertamento fattuale può essere soltanto la prospettabile (per rilevanza e non manifesta infondatezza) incostituzionalità di norme applicate per espletarlo, che qui non sono per nulla oggetto della eccezione: le norme che sarebbero incostituzionali, infatti, sono, come si è visto, l’art. 110 c.p.a., art. 360 c.p.c. e art. 362 c.p.c., comma 1, tutt’altro che pertinenti in tal senso.
13.3 Se, allora, il fondamento della eccezione di incostituzionalità consiste nel preteso inadempimento, da parte del Consiglio di Stato, di quei dettati della CGUE che sono stati il riferimento dei motivi presentati nei ricorsi Roche, ictu oculi l’eccezione non ha la minima rilevanza, dal momento che non sussiste alcun inadempimento degli obblighi di giudice di rinvio rispetto alla Corte di Giustizia: il giudice amministrativo di ultima istanza ha seguito le risposte di quest’ultima, adempiendo quanto gli era stato assegnato, e non ha rilievo lo specifico contenuto fattuale degli accertamenti compiuti, poiché l’unico rilievo sta nella loro esistenza di per sé, che costituisce appunto l’adempimento.
Avendo adempiuto, allora, il Consiglio di Stato non ha violato alcuna norma costituzionale né sovranazionale, per cui, nel caso in esame, la questione di incostituzionalità nel senso di pretesa violazione di tali norme non integra il requisito della rilevanza. Ciò assorbe, logicamente, anche ogni indagine sull’ulteriore requisito della non manifesta infondatezza, e conduce a disattendere la richiesta di adire la Consulta.
L’incostituzionalità, in conclusione, non è prospettabile, avendo il Consiglio di Stato adempiuto quel che doveva a seguito dell’intervento della CGUE e non avendo pertanto condotto alla violazione delle limitazioni di sovranità assunte dallo Stato italiano, non rinvenendosi d’altronde – si nota meramente ad abundantiam – nella sua sentenza alcuna applicazione errata e abnorme dell’art. 101 TFUE, che risulta invece applicato come aveva prescritto la Corte di Giustizia; e in questo quadro reale e concreto, infine, non è prospettabile neppure alcuna violazione degli artt. 24 e 111 Cost., in relazione ad un rimedio caducatorio/demolitorio che le ricorrenti richiedono nell’assenza di ogni sua oggettiva necessità, non avendo, si ripete, il Consiglio di Stato violato alcunché nell’applicazione della norma Eurounitaria così come interpretata, cioè indicata nel suo contenuto effettivo, dalla Corte di Giustizia.
14. Per quanto sin qui rilevato, è parimenti priva di ogni fondamento l’ulteriore richiesta, avanzata dalle ricorrenti, di rinvio ai sensi dell’art. 267 TFUE ancora alla CGUE.
14.1 Il presupposto su cui si fonda questa richiesta è sempre la pretesa “disobbedienza” del Consiglio di Stato ai dettati pervenutigli dalla Corte di Lussemburgo quale esito del rinvio pregiudiziale da esso stesso effettuato. Sono le medesime ricorrenti, pur involontariamente, a evidenziare perché queste Sezioni Unite, quale giudice di Stato membro, non sono nel caso in esame obbligate ad adire con rinvio pregiudiziale ex art. 267 TFUE la Corte della Unione Europea, e lo fanno richiamando la nota sentenza CILFIT.
Ricorre, infatti, in piena evidenza la prima ipotesi della sentenza CILFIT, ovvero il difetto di pertinenza della questione che sarebbe oggetto di rinvio sull’esito della lite.
14.2 La sentenza della Corte di Giustizia del 6 ottobre 1982, CILFIT c. Ministero della Sanità, C-283/81, sinora fermamente ribadita nella giurisprudenza CGUE, ha identificato i ragionevoli limiti interpretativi – più che mai necessari, affinché il rinvio pregiudiziale non si converta in uno strumento di abuso del processo, dilatandone ingiustificatamente la durata, anche, eventualmente, mediante una sua artificiosa ripetitività – insiti nell’art. 267, comma 3, TFUE (che com’e’ noto stabilisce, per quanto qui interessa, che quando una questione relativa all’interpretazione dei trattati o alla validità e all’interpretazione degli atti compiuti dalle istituzioni, dagli organi o dagli organismi della UE “e’ sollevata in un giudizio pendente davanti a un organo giurisdizionale nazionale, avverso le cui decisioni non possa proporsi un ricorso giurisdizionale di diritto interno, tale organo giurisdizionale è tenuto a rivolgersi alla Corte”) in una netta tripartizione: il giudice non è tenuto al rinvio pregiudiziale in primo luogo se la questione non è pertinente, non incidendo sull’esito della lite, in secondo luogo se la norma comunitaria è già stata interpretata dalla CGUE (c.d. acte eclaire’) e in terzo luogo se la corretta interpretazione del diritto comunitario si impone con tale evidenza da non lasciare alcun ragionevole dubbio sulla soluzione della questione sollevata (c.d. acte clair).
Nel caso in esame ricorre evidentemente la prima fattispecie, in quanto la questione che viene proposta dalle ricorrenti come oggetto del rinvio pregiudiziale dovrebbe formularsi “sulla falsariga dell’Ordinanza Randstad ma valorizzando tutte le peculiarità della presente controversia”.
14.3 Ut supra rilevato, invero, la presente causa non manifesta affinità contenutistica con S.U. ord. 19598/2020, che le ricorrenti così intenderebbero in sostanza replicare. Qui, infatti, non emerge alcuna violazione del diritto della Unione Europea, sia sotto il profilo – tacitamente ma inequivocamente ancora presente nella prospettazione delle ricorrenti – di violazione del dettato della CGUE, sia sotto il profilo del rapporto dell’attuale “prassi interpretativa” dell’art. 111 Cost., comma 8, con la normativa Eurounitaria che, si è visto, le ricorrenti invocano. Nel caso concreto, infatti, non emerge alcuna configurabilità di violazione normativa del Consiglio di Stato che giustifichi un’indagine sulla compatibilità o meno, tanto con i principi costituzionali, quanto con i principi Eurounitari, dell’assenza di strumenti caducatori che creino barriera al giudicato per la sua sentenza. La radice di tutte le doglianze, invero, id est la pretesa disobbedienza alla Corte di Lussemburgo, non sussiste, e – comunque e a fortiori – non può essere configurata, come già si è evidenziato, in termini di censura direttamente fattuale (tale e’, in effetti, la valorizzazione che le ricorrenti tentano di introdurre) dell’accertamento di merito svolto.
14.4 Ne’, infine, può assumere qui alcuna incidenza il rinvio pregiudiziale ex art. 267 TFUE disposto con ord. 2327/2021 del Consiglio di Stato nel giudizio di revocazione promosso avverso la medesima sentenza qui impugnata, considerata l’evidente differenza ontologica e quindi (il processo non è mai una struttura giuridica astratta, nascendo invece intimamente funzionale) anche teleologica dei due giudizi che tale sentenza hanno per oggetto.
Sotto tutti i profili, dunque, pure queste prospettazioni versate nelle memorie Roche non meritano accoglimento.
15. Come già rilevato, il ricorso presentato da Novartis AG e il ricorso presentato da Novartis Farma S.p.A. offrono un contenuto tra loro analogo, e quindi devono confluire in un vaglio congiunto.
15.1.1 Il primo motivo lamenta come eccesso di potere del Consiglio di Stato l’avere attribuito a Novartis AG “una presunta responsabilità indiretta o parentale” – c.d. parental liability – che AGCM non avrebbe mai contestato né accertato, inserendo così una nuova contestazione da cui detta società non avrebbe potuto difendersi; e ciò dal giudice amministrativo sarebbe stato compiuto “eventualmente”, a seguito della percezione di debolezza nell’accusa.
L’eccesso di potere si porrebbe quindi rispetto alle prerogative di AGCM, la quale avrebbe imputato soltanto una responsabilità diretta (anche questa comunque insussistente). Nella Comunicazione delle Risultanze Istruttorie (CRI) sono cristallizzate le indagini della Autorità suddetta: non sarebbe stata allora attribuita responsabilità indiretta, bensì responsabilità diretta per avere ideato, progettato, attuato e controllato, anche tramite la filiale italiana, la “strategia collusiva”; e infatti AGCM aveva poi attribuito a tutte le società coinvolte nella vicenda dei farmaci ***** e ***** proprio la responsabilità diretta, specificando che entrambe le società madri “hanno definito le strategie di differenziazione artificiosa tra ***** e *****, mantenendo altresì una diretta supervisione sulle condotte delle filiali italiane”. Neppure il Tar, infine, quale giudice di primo grado avrebbe riconosciuto una responsabilità indiretta alle società madri, il che integrerebbe una ulteriore conferma dell’impossibilità di difendersi che ne sarebbe derivata alle attuali ricorrenti.
Ciò si sarebbe verificato laddove il Consiglio di Stato, dopo avere riconosciuto la responsabilità diretta delle società madri, avrebbe introdotto “una considerazione aggiuntiva” proprio relativamente alla responsabilità indiretta, nel paragrafo 6.2 della sentenza, giungendo a riconoscerla in effetti come gravante su Novartis AG, creando così un caso esemplare di eccesso di potere giurisdizionale del giudice amministrativo invadente la discrezionalità dell’amministrazione, e in tal modo radicalmente modificando la natura dell’illecito anticoncorrenziale.
15.1.2 In realtà, non è dato comprendere come il Consiglio di Stato possa avere in tal modo radicalmente modificato l’imputazione mossa dall’Autorità antitrust: il Consiglio di Stato, infatti, rigettando tutti gli appelli, ha confermato in toto il provvedimento amministrativo, e le stesse ricorrenti non adducono che il Consiglio di Stato non l’abbia confermato sulla base della nuova imputazione della responsabilità indiretta, bensì riconoscono proprio che prima di attribuire pure quest’ultima responsabilità ha confermato – benché, a loro avviso, in modo laconico – la responsabilità diretta tanto delle società madri quanto delle filiali.
Ne’ la pretesa attribuzione di un ulteriore titolo di responsabilità ha inciso sul provvedimento confermato, tra l’altro non giustificando alcuna modifica in peius della sanzione irrogata.
15.1.3 Quel che in effetti lamenta il presente motivo integrerebbe, se il ricorso rientrasse appieno nel paradigma dell’art. 360 c.p.c., come se proposto avverso sentenza del giudice ordinario, la denuncia di una ultrapetizione, e quindi un error in procedendo: per denunciare il quale, peraltro, le ricorrenti non avrebbero neppure interesse processuale, tale preteso errore non producendo effetti appunto sul provvedimento di AGCM, già confermato per altro verso. E’ pertanto evidente l’inammissibilità della censura.
15.1.4 Meramente ad abundantiam, quindi, si rileva che il paragrafo 6.2 della sentenza, a ben guardare, è una mera argomentazione posta a sostegno della responsabilità diretta, perché, pur prendendo le mosse da quella che il giudice amministrativo definisce teoria di responsabilità “parentale”, perviene al rilievo che, “secondo una costante giurisprudenza della Corte di Giustizia, il principio della responsabilità personale non osta all’imputazione ad un soggetto del comportamento illecito tenuto da un soggetto diverso”, considerando invero la fattispecie della società controllante e della società controllata priva di autonomia per concludere proprio sottolineando l’assenza di una vera autonomia essendo tutte le società “soggette a direzione unitaria”. E soprattutto in tale paragrafo non si ravvisa, in realtà, oltre a questa argomentazione – di cui nella presente sede non si può ovviamente valutare la condivisibilità o meno -, alcuna effettiva nuova imputazione a Novartis AG da assommare a quella del provvedimento impugnato.
15.2.1 I secondo motivo, non difforme da una censura già esaminata come presente nei ricorsi Roche, lamenta come diniego di giurisdizione un omesso accertamento sulla “ingannevolezza delle informazioni asseritamente diffuse da Novartis e da Roche”.
Si rimarca la necessità dell’accertamento “secondo quanto prescritto” proprio dalla sentenza della Corte di Lussemburgo nella sua risposta ai quesiti relativi all’art. 101 TFUE, precisando che, quanto alle informazioni suddette, oltre alla loro asserita ingannevolezza il Consiglio di Stato avrebbe dovuto accertare se erano state davvero diffuse. Si aggiunge che il Consiglio di Stato avrebbe inadempiuto al dettato della Corte di Giustizia e così avrebbe “travalicato i confini della propria giurisdizione, sconfinando nei poteri” di quest’ultima, o, in alternativa, compiuto un diniego di giurisdizione sul punto. Se così non si ritenesse, si perverrebbe ad una paradossale carenza di tutela dal mancato adempimento, commesso dal Consiglio di Stato, delle norme comunitarie come interpretate dalla CGUE esercitando la sua funzione nomofilattica.
15.2.2 Non si può non richiamare quanto sopra è stato già illustrato a proposito dell’analoga censura presente nei ricorsi Roche, il che è da intendersi qui trascritto, giungendo in tal modo alla conclusione che il Consiglio di Stato non è incorso in alcun inadempimento rispetto ai suoi obblighi di giudice di rinvio e che – comunque e soprattutto – non si è verificato alcun diniego di giurisdizione, il che rende palesemente inammissibile pure questo motivo.
16.1 In subordine viene sollevata eccezione di legittimità costituzionale qualora, appunto, il secondo motivo sia qualificato inammissibile.
Il fondamento risiederebbe nel vulnus al diritto di difesa quanto alla contraddittorietà della sentenza del Consiglio di Stato rispetto al dictum del giudice Eurounitario in relazione al quale il Consiglio di Stato è stato giudice di rinvio, ricorrendo la necessità di evitare un giudicato contrastante con le norme sovranazionali che lo Stato italiano si è impegnato a rispettare: se le norme interne si devono infatti interpretare nel senso di non consentire l’inclusione tra i motivi del ricorso per cassazione della denuncia di “una situazione nella quale il Giudice interno ignori il dictum” della Corte di Giustizia o comunque nel senso di non prevedere “alcuna misura per risolvere le discrasie” tra l’ordinamento interno e quello Eurounitario, si creerebbe una carenza di tutela con effetti “aberranti”, per cui il giudice amministrativo travalicherebbe i poteri della CGUE, sostituendola, e lo Stato si troverebbe gravato dell’obbligo di risarcimento – qualora non sussista uno strumento di restitutio in integrum del danno per equivalente derivato dalla decisione viziata di cui non si potrebbe impedire il passaggio in giudicato.
Ciò avverrebbe nel caso di specie, tanto più che l’accertamento di una condotta anticoncorrenziale e l’irrogazione di una conseguente sanzione assumerebbero una natura penale o quasi penale ex art. 6 CEDU. Quindi se non si aderisce ad una interpretazione costituzionalmente orientata dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 1 e art. 362 c.p.c., comma 1, accogliendo cioè il secondo motivo del ricorso, si dovrebbe sollevare eccezione di incostituzionalità di tali articoli nella parte in cui appunto non prevedono un mezzo impugnatorio denunciante “lo sconfinamento da parte del giudice interno nella sfera riservata alla Corte di Giustizia dell’Unione Europea” nell’esercizio della sua funzione nomofilattica, in sede di rinvio il giudice interno non adempiendo appunto alle sue indicazioni nomofilattiche, per violazione del diritto di difesa di cui agli artt. 24 e 111 Cost.: diritto di difesa per cui non si può impedire a chi ricorre di far valere davanti al giudice nazionale “un proprio diritto derivante da una pronuncia della Corte di Giustizia dell’Unione Europea in sede di rinvio pregiudiziale”, così pure violando i vincoli derivanti dall’appartenenza all’Unione Europea “presidiati dagli artt. 117 e 10 Cost.” e “anche alla luce dei principi di effettività ed equivalenza”, in quanto non si riconoscerebbe a chi ricorre “una tutela piena dei propri diritti derivanti dall’applicazione del diritto dell’Unione Europea”.
16.2 l’eccezione di incostituzionalità in tal modo sollevata patisce – assorbendo ciò ogni altro profilo – manifesta irrilevanza, dal momento che, ut supra si è visto, il Consiglio di Stato non ha inadempiuto agli obblighi accertatori deferitigli dalla Corte di Giustizia, per nulla discostandosi, dunque, dagli obblighi di giudice di rinvio rispetto al concreto dictum della suddetta Corte. E vale, pertanto, quel che si è già illustrato in tema a proposito deì ricorsi Roche.
16.3 Per quanto è stato aggiunto, infine, nelle memorie, si deve dare atto della sua sostanziale coincidenza con quanto introdotto nelle memorie delle ricorrenti Roche, cui ancora si rimanda, pertanto, anche in riferimento alla richiesta di rinvio pregiudiziale ex art. 267 TFUE alla Corte di Giustizia.
Pure questi ricorsi, dunque, non meritano accoglimento sotto nessun profilo.
17. Considerata la effettiva identità della posizione assunta da ciascuna delle quattro società pur mediante una pluralità di ricorsi, il comune interesse da loro rivestito comporta, in quanto soccombenti, la loro condanna solidale a rifondere le spese processuali – liquidate come da dispositivo – ad AGCM, AIUDAPS, SOI-AMOI, Regione Emilia-Romagna e Regione Lombardia.
Novartis AG deve altresì essere condannata, sempre per soccombenza, a rifondere le spese processuali, liquidate come da dispositivo, a CODACONS.
Seguendo l’insegnamento di S.U. 20 febbraio 2020 n. 4315 si dà atto, ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2012, art. 13, comma 1 quater, della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, ad opera di ognuna delle ricorrenti, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis, se dovuto.
PQM
Rigetta tutti i ricorsi e condanna solidalmente Hoffmann-Roche LTD, Roche S.p.A., Novartis AG e Novartis Farma S.p.A., a rifondere a AGCM, AIUDAPS, SOI-AMOI, Regione Emilia-Romagna e Regione Lombardia le spese processuali, liquidate per ciascuna delle controricorrenti in un totale di Euro 10.000, oltre a Euro 200 per esborsi e agli accessori di legge; condanna Novartis AG a rifondere a CODACONS le spese processuali, liquidate in un totale di Euro 10.000, oltre a Euro 200 per esborsi e agli accessori di legge.
Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte di ciascuna delle ricorrenti, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello dovuto per il ricorso a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis, se dovuto.
Così deciso in Roma, il 13 luglio 2021.
Depositato in Cancelleria il 5 ottobre 2021
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