LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE SESTA CIVILE
SOTTOSEZIONE 3
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. AMENDOLA Adelaide – Presidente –
Dott. SCRIMA Antonietta – rel. Consigliere –
Dott. VALLE Cristiano – Consigliere –
Dott. TATANGELO Augusto – Consigliere –
Dott. PORRECA Paolo – Consigliere –
ha pronunciato la seguente:
ORDINANZA
sul ricorso 27963-2019 proposto da:
C.M., CO.RO., C.A., C.M.C., CO.FA., CO.IG., CA.MA., elettivamente domiciliati in ROMA, VIALE BRUNO BUOZZI 19, presso lo studio dell’avvocato PAOLO GRIMALDI, rappresentati e difesi dagli avvocati GIANCARLO GRECO, CARMELINA NICOLOSI;
– ricorrenti –
contro
T.S., UNIVERSITA’ DEGLI STUDI DI PALERMO, ASSESSORATO REGIONALE DELLA SALUTE, AZIENDA OSPEDALIERA UNIVERSITARIA POLICLINICO PAOLO GIACCONE, CATTOLICA ASSICURAZIONI SCARL;
– intimati –
avverso la sentenza n. 5372/2018 del TRIBUNALE di PALERMO, depositata il 6/12/2018;
udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio non partecipata del 27/04/2021 dal Consigliere Relatore Dott.ssa SCRIMA ANTONIETTA.
FATTI DI CAUSA
Con ricorso proposto ai sensi dell’art. 702-bis c.p.c., C.M., Co.Ro., C.A., C.M.C., Co.Fa., Co.Ig. e Ca.Ma., tutti parenti di C.G., convennero in giudizio il Dott. T.S. al fine di sentirne dichiarare la responsabilità relativamente al decesso del loro predetto ce)giunto e per sentirlo condannare al risarcimento per tutti i danni patiti iure proprio ed iure successionis morali, patrimoniali nonché da “perdita parentale”.
Esposero i ricorrenti-attori che il medico resistente era stato ritenuto responsabile, in cooperazione con altri, del decesso del loro parente per aver omesso una tempestiva diagnosi della leucemia mieloide cronica determinandone l’evoluzione in uno stadio più grave (blastico) così come – a loro avviso – comprovato dalla sentenza penale 4310/15 emessa a carico del Dott. G., responsabile in concorso ex art. 110 c.p. con il Dott. T., e depositata in atti.
Rappresentarono i ricorrenti-attori che la responsabilità del T., distinta da quella della struttura o dell’altro medico, derivava espressamente dalla qualifica di assistente in formazione specialistica presso la Scuoia di Specializzazione in Ortopedia e Traumatologia dell’Università degli Studi di Palermo che, come precisato dallo stesso convenuto, non aveva alcun rapporto con l’Azienda Ospedaliera “Paolo Giaccone”, ente autonomo, costituito con decreto rettorale del 26.04.2000 ed avente propria personalità giuridica. Infatti, soggiunsero i ricorrenti che “…essendo la qualifica discendente da un contratto di formazione specialistica, dal Dott. T. stipulato con l’Università degli Studi e con l’Assessorato Regionale della Salute, a cui era estranea l’Azienda Ospedaliera “P. Giaccone ne deriva che questi risponde, in proprio per il danno cagionato ai ricorrenti”.
Dedussero i ricorrenti-attori che, pertanto, in tale ipotesi, sarebbe venuta in rilievo la cosiddetta “colpa per assunzione” nell’ambito dell’esercizio della professione medico – sanitaria, atteso che il T., a loro avviso, avrebbe dovuto astenersi in quanto non sufficientemente esperto per espletare prestazioni o attività a lui richieste e, non avendolo fatto, avrebbe dovuto rispondere delle conseguenze connesse al decesso del paziente.
Si costituì il Dott. T. contestando tutte le avverse pretese ed eccependo il suo difetto di legittimazione passiva; chiese di chiamare in causa l’Azienda Ospedaliera Universitaria Policlinico “Paolo Giaccone”, l’Università degli Studi di Palermo e l’Assessorato della Salute della Regione Sicilia, per essere dagli stessi manlevato in caso di accertamento di responsabilità nei sui confronti.
Si costituì l’Azienda Ospedaliera Universitaria Policlinico “Paolo Giaccone” eccependo preliminarmente il difetto di legittimazione passiva, posto che il dott. T., rivestendo all’epoca dei fatti la qualifica di assistente in formazione specialistica presso la Scuola di Specializzazione in Ortopedie e Traumatologia dell’Università degli Studi di Palermo, non aveva cìlcun rapporto con la predetta Azienda Ospedaliera, ente autonomo. Infatti, derivando tale qualifica da un contratto di formazione specie istica, stipulato dal Dott. T. con l’Università degli Studi con l’Assessorato Regionale della Salute, a cui era estranea la già menzionata Azienda Ospedaliera, quest’ultima doveva essere estromessa dal presente giudizio, con conseguente condanna del Dott. T. alle relative spese e competenze. L’Azienda richiese, inoltre, la riunione del procedimento al giudizio R.G. n. 2094/2010, pure pendente dinnanzi a quel Tribunale, essendo detti procedimenti strettamente connessi fra loro, sia dal punto di vista oggettivo sia da quello soggettivo.
Si costituirono anche l’Assessorato alla Salute e l’Università degli Studi di Palermo, eccependo il loro difetto di legittimazione passiva in merito ai fatti di causa e chiedendo quest’ultima la chiamata in garanzia della Cattolica Assicurazioni Scarl, in virtù della polizza n. 1340 per la copertura dei rischi da “responsabilità civile verso terzi di specializzandi con borse di studio iscritti alla facoltà di medicina” stipulata con la stessa.
Si costituì altresì la società appena indicata, terza chiamata in causa, che contestò l’operatività della polizza in favore dell’Università nel caso di specie.
Nella sentenza emessa a conclusione del primo grado, il Tribunale rilevò che i ricorrenti-attori non avevano contestano l’avvenuto risarcimento in loro favore all’esito del giudizio R.G. n. 2094/2010;
Confrontando le domando proposte nei due differenti giudizi e leggendo il dispositivo della sentenza n. 1149/2015, ritenne il primo Giudice che apparisse evidente che, con la sentenza emessa all’esito del giudizio R.G. n. 2094/200, il Tribunale adito avesse già liquidato agli attori tutti i danni iure proprio e iure successionis risarcibili per il dedotto tragico evento e che i ricorrenti-attori nel presente giudizio avessero proposto lo stesso petitum già richiesto nel primo giudizio, sia pure nei confronti di un diverso convenuto sulla base dell’apporto causale dato all’evento da parse del Dott. T..
Affermò il Tribunale che, essendo il petitum (cioè il risarcimento di tutti i danni iure proprio ed iure hereditario) e la causa petendi (cioè la morte di C.G. colpevolmente cagionata dai sanitari che lo ebbero in cura) identici nei due giudizi, ne conseguiva che pur potendo ben essere responsabile dei danni richiesti anche il T. (il quale era rimasto estraneo al procedimento civile R.G. n. 2094/2010 pur potendone in teoria esserne parte), per il principio di cui all’art. 2055 c.c. “se il fatto dannoso è imputabile a più persone, tutte sono obbligate in solido al risarcimento del danno”, la liquidazione già effettuata con la sentenza n. 1149/2015, ormai passata in giudicato, racchiudeva e cristallizzava la totalità dei danni risarcibili ai ricorrenti-attori per la causali indicate. Rilevò il Tribunale che chiedere per le stesse identiche voci di danno e per lo stesso fatto dannoso (cioè la morte del congiunto) una seconda liquidazione sol perché si rinvenivano nuovi profili di colpa imputabili ad un soggetto differente ed aggiuntivo che non aveva partecipato al primo giudizio, appariva contrario al senso comune, prima ancora che alla normativa sulla responsabilità civile solidale, perché, così opinando, avrebbero potuto moltiplicarsi le richieste risarcitorie per lo stesso danno ogni volta che vi fossero più responsabili e fossero individuabili differenti tipi di responsabilità che avevano concorso alla causazione dello stesso evento (ad es. contrattuale, extracontrattuale, da reato), con conseguente arricchimento della parte danneggiata. Ne’, ad avviso del Tribunale, era accettabile la motivazione che la parte ricorrente-attrice aveva addotto in comparsa conclusionale per la reiterazione delle domande risarcitorie, ossia l’insufficiente quantificazione del danno operata dal giudice nel primo giudizio, in quanto cercare di porre rimedio ad una sentenza che liquida un danno ritenuto insufficiente non attraverso la naturale via dell’impugnazione del provvedimento ma attraverso l’instaurazione di un differente ed aggiuntivo giudizio a carico di un altro possibile coobbligato in solido era un percorso incompatibile con il sistema del diritto civile vigente; difatti in applicazione del principio del ne bis in idem, rilevabile anche di ufficio, doveva ritenersi l’inammissibilità della domanda risarcitoria, avente petitum e causa petendi identici rispetto alla domanda risarcitoria già proposta nell’ambito di altra causa la cui decisione fosse coperta da giudicato. Il Tribunale, quindi, con sentenza n. 5372/2018, pubblicata il 6 dicembre 2018, dichiarò inammissibile la domanda ed assorbite tutte le domande di garanzia e condannò i ricorrenti-attori al pagamento delle spese di lite nei confronti del convenuto e dei vari terzi chiamati, ad eccezione della Cattolica Assicurazione Scarl, chiamata in causa dall’Università degli Studi, le cui spese compensò.
C.M., Co.Ro., C.A., C.M.C., Co.Fa., Co.Ig. e Ca.Ma. proposero appello avverso tale decisione.
Si costituirono in giudizio tutti gli appellati, resistendo al gravame; il T. sollevò pure eccezione di inammissibilità dell’impugnazione, ex art. 348-bis c.p.c..
La Corte di appello di Palermo, con ordinanza depositata il 17 luglio 2019, ritenuto che il gravame non avesse alcuna ragionevole probabilità di essere accolto, i essendo manifestamente infondato, lo dichiarò inammissibile, ex art. 348-bis c.p.c.; dichiarò non sussistenti i presupposti per la chiesta applicazione dell’art. 96 c.p.c. e condannò gli appellanti alle spese in favore di ciascuna delle parti appellate.
Avverso la sentenza del Tribunale e l’ordinanza della Corte di merito C.M., Co.Ro., C.A., C.M.C., Co.Fa., Co.Ig. e Ca.Ma. hanno proposto ricorso per cassazione basato su cinque motivi.
Gli intimati non hanno svolto attività difensiva in questa sede.
La proposta del relatore è stata ritualmente comunicata, unitamente al decreto di fissazione dell’adunanza in camera di consiglio, ai sensi dell’art. 380-bis c.p.c..
RAGIONI DELLA DECISIONE
1. Va rilevato che risulta depositata dai ricorrenti nel dicembre 2019, con invio a mezzo posta, una mera fotocopia di un “atto di rinuncia del ricorso in cassazione” “esclusivamente nei confronti del Sig. T.S. con compensazione totale delle spese legali” sottoscritto dai ricorrenti dai loro due difensori, copia corredata delle copie della relata di notifica a mezzo pec ai difensori del T. e delle relative stampe dei messaggi di invio, di accettazione e di avvenuta consegna dell’atto di rinuncia, nonché dell’asseverazione di conformità della copia cartacea dell’atto notificato in formato telematico via p.e.c.”; risulta altresì depositata altra fotocopia di tale rinuncia sottoscritta dai ricorrenti, da uno dei difensori degli stessi, avv. Lina Nicolosi, e per accettazione da T.S..
L’originale di tale atto di rinuncia con le sottoscrizioni autografe non risulta tuttavia essere stato depositato neppure successivamente fino all’adunanza camerate fissata.
2. Deve ritenersi che la produzione di tali copie informali non consente di poter ritenere ritualmente formalizzata la rinuncia al ricorso di cassazione nei confronti del T..
3. Va però rimarcato che sono state depositate – come già detto -, unitamente alla fotocopia per prima ricordata, anche le copie della relazione di notifica dell’atto di rinunzia in parola a mezzo pec ai difensori in secondo grado del T., nonché copie delle ricevute di accettazione e di avvenuta consegna con asseverazione di conformità – sottoscritta da uno dei difensori dei ricorrenti, avv. Giancarlo Greco – della copia in formato analogico dell’atto notificato in via digitale.
Alla luce di tali atti depositati deve ritenersi che gli stessi siano comunque idonei a rendere evidente la sopravvenuta carenza di interesse dei ricorrenti a proseguire il giudizio nei confronti del T. (come peraltro espressamente indicato a p. 3 del già ricordato “atto di rinuncia”); ed invero, l’impugnazione deve essere assistita da interesse non solo al momento della sua proposizione ma anche al momento della sua decisione.
3.1. La rilevata sopravvenuta carenza di interesse determina l’inammissibilità del ricorso nei confronti del T..
4. Con riferimento, poi, alle doglianze con cui i ricorrenti censurano la sentenza impugnata laddove il Tribunale ha posto a carico della parte attrice anche le spese per i terzi chiamati in causa (si sottolinea che alcuna specifica censura è stata proposta al riguardo avverso l’ordinanza della Corte di merito), va evidenziato che, pur avendo concluso il quarto e il quinto motivo in cui sono contenute dette censure – ma anche il terzo motivo che, pur riferito alla ritenuta errata declaratoria di inammissibilità delle domande proposte dai ricorrenti nei confronti del T., si chiude con una richiesta di condanna di quest’ultimo a “tutte le spese del giudizio” chiedendo la condanna del T. anche al pagamento delle spese in parola, in base alla soccombenza virtuale i ricorrenti hanno chiesto poi, nelle conclusioni finali (v. ricorso p. 44), la condanna “delle controparti alle spese legali di tutti i gradi di giudizio”.
Risulta, quindi, evidente che tali censure sono proposte non solo nei confronti del T., verso il quale vi è ormai carenza di interesse, per quanto sopra detto, ma anche nei confronti delle altre parti.
Tanto rilevato, le doglianze ora all’esame – che possono essere unitariamente esaminate – risultano inammissibili per difetto di specificità.
Si osserva, infatti, che i ricorrenti, quanto al quarto motivo, non hanno indicato quando, nei gradi di merito, è stata prodotta la sentenza penale di applicazione della pena ai sensi degli artt. 444 e 445 c.p.c. con cui il T. avrebbe definito il giudizio penale a suo carico e dove la stessa sia reperibile in questa sede né ne hanno riportato testualmente il contenuto, per quanto ancora qui rilevante (Cass., sez. un., 27/12/2019. n. 34469; Cass., ord., 20/11/2017, n. 27475; Cass. 9/04/2013. n. 8569).
Con riferimento al quinto motivo, va rimarcato che i ricorrenti non hanno dedotto le specifiche ragioni per le quali, a loro avviso, le chiamate in causa operate nel presente giudizio sarebbe state arbitrarie, laddove il Tribunale le ha motivatamente ritenuto giustificate, facendo corretta applicazione del principio affermato dalla giurisprudenza di legittimità consolidata sul punto e riportata specificamente in quel provvedimento e secondo cui, in forza del principio di causazione – che, unitamente a quello di soccombenza, regola il riparto delle spese di lite – il rimborso delle spese processuali sostenute dal terzo chiamato, in garanzia dal convenuto deve essere posto a carico dell’attore qualora la chiamata in causa si sia resa necessaria in relazione alle teca sostenute dall’attore stesso e queste siano risultate infondate, a nulla rilevando che l’attore non abbia proposto nei confronti del tema alcuna domanda; il rimborso rimane, invece, a carico della parte che ha chiamato o fatto chiamare in causa il terzo qualora l’iniziativa del chiamante, rivelatasi manifestamente infondata o palesemente arbitraria, concreti un esercizio abusivo del diritto di difesa (Cass., ord., 6/12/2019, n. 31889; Cass. 11/11/2015, n. 25541; Cass., ord., 1/07/2021, n. 18710; v. anche Cass., ord., 17/09/2019, n. 23123 e Cass. 25/09/2019, n. 23948).
A quanto precede va aggiunto che le doglianze in esame risultano inammissibili anche sotto altro aspetto, atteso che le censure in tema di regolamentazione delle spese di giudizio erano state proposte in appello in relazione a profili e per ragioni del tutto diversi, come risulta dall’atto di appello riportato testualmente in ricorso (p. 17), laddove, invece, nel caso – come quello all’esame – in cui l’appello sia stato dichiarato inammissibile ex art. 348-ter c.p.c., questa Corte ha già avuto modo di affermare il principio, che il Collegio condivide, secondo cui il ricorso per cassazione avverso la sentenza di primo grado può essere proposto entro i limiti delle questioni già sollevate con l’atto di appello e di quelle riproposte ex art. 346 c.p.c., senza che possa assumere rilievo la diversa formulazione dei motivi, che trova giustificazione nella natura del ricorso per cassazione (Cass., ord., 27/09/2018, n. 23320).
5. In conclusione, il ricorso va dichiarato inammissibile.
6. Non vi è luogo a provvedere per le spese, non avendo le parti intimate svolto attività difensiva in questa sede.
7. Va dato atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, se dovuto, da parte dei ricorrenti, ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1-quater, nel testo introdotto dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello dovuto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis (Cass., sez. un., 20/02/2020, n. 4315), evidenziandosi che il presupposto dell’insorgenza di tale obbligo non è collegato alla condanna alle spese, ma al fatto oggettivo dei rigetto integrale o della definizione in rito, negativa per l’impugnante, del gravame (v. Cass. 13 maggio 2014, n. 10306).
PQM
La Corte dichiara inammissibile il ricorso; ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1-quater, nel testo introdotto dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, se dovuto, da parte dei ricorrenti, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello dovuto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis.
Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Sezione Sesta Civile – 3 della Corte Suprema di Cassazione, il 27 aprile 2021.
Depositato in Cancelleria il 6 ottobre 2021
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