LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE PRIMA CIVILE
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. SCALDAFERRI Andrea – Presidente –
Dott. VANNUCCI Marco – Consigliere –
Dott. NAZZICONE Loredana – rel. Consigliere –
Dott. CARADONNA Lunella – Consigliere –
Dott. CATALLOZZI Paolo – Consigliere –
ha pronunciato la seguente:
ORDINANZA
sul ricorso 10825/2017 proposto da:
L.M.L., elettivamente domiciliato in Roma, Viale G.
Mazzini n. 106, presso lo studio dell’avvocato Bastoni Marco, rappresentato e difeso dall’avvocato Santagostino Giulio, giusta procura speciale per Notaio Dott. S.G. di Abbiategrasso (Milano) – Rep. n. 44.690 del 17.5.2019;
– ricorrente –
e contro
B.R., domiciliata in Roma, Piazza Cavour, presso la Cancelleria Civile della Corte di Cassazione, rappresentata dall’avvocato Arrigoni Alessandro, giusta procura a margine della costituzione di nuovo difensore;
– controricorrente –
contro
Weleda Italia S.r.l., in persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in Roma, Via San Saba n. 7, presso lo studio dell’avvocato Maglio Sergio, che la rappresenta e difende unitamente all’avvocato Galeone Gaetano, giusta procura in calce al controricorso;
– controricorrente –
contro
P.S., elettivamente domiciliato in Roma, Via G. Animuccia n. 11, presso lo studio dell’avvocato Rostelli Luciana, rappresentato e difeso dall’avvocato Mezzena Dario Paolo, giusta procura a margine del controricorso;
– controricorrente –
contro
G.M., e L.C.: quali eredi di L.G.;
– intimate –
avverso la sentenza n. 296/2017 della CORTE D’APPELLO di MILANO, pubblicata il 25/01/2017;
udita la relazione della causa svolta nella Camera di consiglio del 08/07/2021 dal Cons. Dott. NAZZICONE LOREDANA.
FATTI DI CAUSA
Con atto di citazione nel 2011, L.M.L. chiese l’accertamento della titolarità di una quota, pari al 7,76% del capitale sociale della Weleda Italia s.r.l. con la condanna della società al pagamento degli utili nel frattempo maturati e degli altri soci, del pari convenuti in giudizio, al risarcimento del danno, correlato all’accrescimento delle loro quote.
Il Tribunale di Milano con sentenza del 13 novembre 2014 respinse le domande.
La Corte d’appello di Milano con sentenza del 25 gennaio 2017, a parziale riforma della decisione di primo grado, confermata per il resto, in accoglimento dell’appello incidentale di Weleda s.r.l. ha condannato il L. al risarcimento del danno in favore di detta società per lite temeraria, ai sensi dell’art. 96 c.p.c., comma 3, nella misura di Euro 5.000,00. La medesima condanna essa ha disposto anche per il grado di appello, in favore di ciascuna parte appellata.
Avverso questa sentenza propone ricorso per cassazione il soccombente, affidato a cinque motivi.
Resistono con controricorsi la società, P.S. e B.R.. Il controricorso di quest’ultima è stato sottoscritto dagli avv. Luciana Rostelli e Cinzia Graff Cavanna, quest’ultima però non iscritta nell’albo degli avvocati cassazionisti; mentre ancora nell’atto di costituzione di nuovo difensore compare detto avvocato, sempre con la dicitura che la parte è rappresentata e difesa dal primo legale “con l’assistenza” della predetta.
Il ricorrente e la società hanno, altresì, depositato memoria.
RAGIONI DELLA DECISIONE
1.- I motivi del ricorso possono essere come di seguito riassunti:
1) violazione e falsa applicazione dell’art. 2697 c.c. e art. 116 c.p.c., per avere la corte d’appello mancato di accertare che il ricorrente ha provato la sua perdurante partecipazione in società nella misura del 7,76%, dal momento che egli il 13 ottobre 1974 ha acquistato da Ba.Li. una quota sociale pari al 10% del capitale sociale, sino al gennaio 2000 nulla ha ceduto ed il 25 gennaio 2000 ha trasferito alla Weleda AG solo il 2,24% della sua quota: il giudice del merito, infatti, non ha adeguatamente valorizzato il fatto che la società ha allegato di avere smarrito il libro dei soci ed il libro delle assemblee, ma ciò non è credibile, dato che il fatto risalirebbe al 2004 e la denuncia solo al 2008, quando egli ne aveva fatto richiesta. Al contrario, non ha nessun valore probatorio il libro dei soci relativo agli anni dal 1981 al 2000, che non rispecchia il reale assetto societario ed è stato posteriormente redatto; né lo hanno i verbali assembleari del 30 aprile 1993 e del 15 novembre 1996, dove egli non era segretario né comunque ha firmato l’elenco dei soci;
2) violazione e falsa applicazione dell’art. 61 c.p.c., non avendo la corte del merito ammesso una c.t.u., al fine di individuare le reali percentuali dei soci, non trattandosi di consulenza esplorativa;
3) violazione e falsa applicazione degli artt. 115,183,187 e 244 c.p.c., per non avere i giudici del merito ammesso la prova per testimoni e per interrogatorio formale dei convenuti;
4) violazione e falsa applicazione degli artt. 1362 e 1363 c.c., avendo la corte del merito male interpretato la scrittura privata del 29 ottobre 2002, intervenuta tra varie società, tra cui la Weleda s.r.l., all’epoca Amos s.r.l., ed alla quale il L. aveva partecipato come liquidatore di una di dette società, la Ikos s.r.l., dove egli non aveva affatto rinunciato alle sue rivendicazioni sulla residua percentuale della quota sociale;
5) violazione dell’art. 96 c.p.c., in quanto la mera prospettazione di tesi giuridiche non accolte non può fondare la condanna predetta, occorrendo dolo o colpa grave ed il difetto di una pur minima diligenza nel reputarle fondate.
2. – La sentenza impugnata, per quanto ancora rileva, ha ritenuto che – in punto di fatto – non vi è prova della dedotta falsità dei libri sociali, né della titolarità originaria di una quota del 10% del capitale in capo al ricorrente, in quanto asseritamente acquistata da Ba.Li., e della sua attuale titolarità del 7,76% del capitale di Weleda s.r.l.; al contrario, è risultato dimostrato che, prima della vendita del 2,24% del capitale sociale in data 25 gennaio 2020, egli solo questa partecipazione deteneva, onde, con la sua cessione a terzi, è definitivamente uscito dalla società.
Ha precisato che il solo documento a comprova di quella partecipazione del 10% è una fotocopia di provenienza ignota e con sottoscrizione non autenticata, onde non se ne possa trarre nessuna efficacia probatoria; mentre non vi è prova della falsità della tardiva denunzia di smarrimento del libro dei soci, presentata dalla società nel 2008, posto che è ragionevole come la società si sia resa conto di ciò solo quando sorse l’esigenza di esaminare i libri sociali risalenti ad oltre trent’anni prima. In ogni caso, aggiunge la corte, il libro dei soci vale ai fini della opponibilità alla società, non agli altri soci.
Infine quanto alla telefonata intercorsa con P.S., che avrebbe contenuto affermazioni rilevanti, essa è stata registrata senza autorizzazione e quindi correttamente il primo giudice non l’ha posta a base del suo convincimento.
Al contrario, la minore partecipazione del 2,24% risulta: dal libro soci dal 1981 al 2000; dai verbali assembleari sin dal 1985; soprattutto, dai verbali assembleari del 30 aprile 1993 e del 15 novembre 1996, quando egli risulta titolare di detta minore quota, nel primo avendo svolto anche le funzioni di segretario e sottoscritto in tale veste il verbale; dall’atto di trasferimento di quota del 25 gennaio 2000, in cui, innanzi al notaio, egli ha dichiarato di vendere “l’intera propria quota di compartecipazione pari a nominali Lire 20.160.000”, pari alla percentuale del 2,24% del capitale sociale.
Infine, nella scrittura privata del 29 ottobre 2002, avente efficacia di transazione, il L. ha espressamente rinunciato, con la clausola 5, ad ogni rivendicazione circa la qualità di socio della Weleda s.r.l., all’epoca Amos s.r.l..
Quanto alla istanza di c.t.u., ha ritenuto trattarsi di mezzo solo esplorativo e da disattendere.
Esaminando l’appello incidentale, concernente la domanda di risarcimento dei danni ex art. 96 c.p.c., l’ha accolta, in quanto l’appellante “ha agito in modo strumentale, pur essendo a conoscenza dell’esistenza di documenti (peraltro come i verbali dell’Assemblea da lui stesso sottoscritti in qualità di Segretario) inequivocabilmente in contrasto con le tesi sostenute”.
3. – Il primo motivo è inammissibile.
La violazione del precetto di cui all’art. 2697 c.c., censurabile per cassazione ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, è configurabile soltanto nell’ipotesi in cui il giudice abbia attribuito l’onere della prova ad una parte diversa da quella che ne era onerata secondo le regole di scomposizione delle fattispecie basate sulla differenza tra fatti costitutivi ed eccezioni e non, invece, laddove oggetto di censura sia la valutazione che il giudice abbia svolto delle prove proposte dalle parti (ex multis, Cass. 20 aprile 2020, n. 7919; Cass. 29 maggio 2018, n. 13395; Cass. 13 febbraio 2018, n. 3450; Cass. 17 giugno 2013, n. 15107).
Al contrario, nel caso in esame, la doglianza non investe l’individuazione del soggetto tenuto a provare la sussistenza della qualità di socio, reclamata dall’attore, ma denuncia l’erroneità del ragionamento seguito dal giudice di merito per aver ritenuto non provata detta qualità.
La censura ha, quindi, ad oggetto lo scrutinio operato dalla corte d’appello in ordine alle prove processuali, esperite dalle parti: così da risultare inammissibile, per essere tale scrutinio riservato alla esclusiva sfera del giudice del merito.
Quanto al preteso vizio di violazione dell’art. 116 c.p.c., costituisce principio consolidato che, in tema di valutazione delle risultanze probatorie in base al principio del libero convincimento del giudice, la violazione degli art. 115 e 116 c.p.c., è apprezzabile, in sede di ricorso per cassazione, nei limiti del vizio di motivazione di cui all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5 e deve emergere direttamente dalla lettura della sentenza, non già dal riesame degli atti di causa, inammissibile in sede di legittimità (Cass. 29 marzo 2019, n. 8763; Cass. 30 novembre 2016, n. 24434; Cass. 20 giugno 2006, n. 14267): ma nessun vizio di tal fatta emerge della decisione impugnata.
4. – Il secondo motivo è inammissibile ex art. 360-bis c.p.c..
Costituisce, invero, principio consolidato che la consulenza tecnica d’ufficio non è mezzo istruttorio in senso proprio, avendo la finalità di coadiuvare il giudice nella valutazione di elementi acquisiti o nella soluzione di questioni che necessitino di specifiche conoscenze; ne consegue che il suddetto mezzo di indagine non può essere utilizzato al fine di esonerare la parte dal fornire la prova di quanto assume, ed è quindi legittimamente negata qualora la parte tenda con essa a supplire alla deficienza delle proprie allegazioni o offerte di prova, ovvero a compiere una indagine esplorativa alla ricerca di elementi, fatti o circostanze non provati (Cass. 15 dicembre 2017, n. 30218; Cass. 8 febbraio 2011, n. 3130), mentre limite costituito dal divieto di compiere indagini esplorative è consentito derogare unicamente quando l’accertamento di determinate situazioni di fatto possa effettuarsi soltanto con l’ausilio di speciali cognizioni tecniche, e sempre che si tratti di fatti accessori e rientranti nell’ambito strettamente tecnico della consulenza, e non di fatti e situazioni che, essendo posti direttamente a fondamento della domanda o delle eccezioni delle parti, debbano necessariamente essere dalle medesime provati (Cass. 14 febbraio 2006, n. 3191; Cass. 6 giugno 2003, n. 9060).
5. – Il terzo motivo è inammissibile.
Premesso che il potere di ammettere o no le prove rientra nei compiti del giudice del merito, né il ricorrente, che ha dedotto la violazione e falsa applicazione degli artt. 115,183,187 e 244 c.p.c., ha chiarito quali profili di tali disposizioni siano stati male intesi, o male applicati, deve rilevarsi l’inammissibilità del motivo, atteso che il tribunale non aveva ammesso la prova per testimoni e per interrogatorio formale dei convenuti,ma tale profilo non risulta – dalla sentenza impugnata – dedotto in sede di appello.
La sentenza impugnata, invero, si limita a dare conto dei motivi di appello, relativi sul punto alla non condivisa valutazione dei documenti in atti, da un lato, ed al mancato espletamento della c.t.u., dall’altro lato. Non vi si menziona, invece, una reiterata istanza di ammissione delle prove orali.
Onde era onere del ricorrente dedurre l’avvenuta proposizione dell’appello anche su tale profilo; in mancanza, la nuova deduzione in cassazione si palesa inammissibile.
6. – Il quarto motivo è inammissibile.
Occorre ricordare che, com’e’ noto, l’interpretazione del contratto e degli atti privati è censurabile in sede di legittimità soltanto per violazione dei criteri legali di ermeneutica contrattuale o per assenza assoluta di motivazione (dopo il nuovo art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5): ai fini della censura di violazione dei canoni ermeneutici, pertanto, è anzitutto indispensabile, in ossequio al principio di specificità del ricorso, di cui all’art. 366 c.p.c., la trascrizione del testo integrale della regolamentazione privata (Cass. 22 febbraio 2007, n. 4178; nonché, fra le altre, Cass. 23 agosto 2018, n. 21010; Cass. 1 marzo 2012, n. 3218), e, quindi, la individuazione del preciso canone ermeneutico violato.
In mancanza, non è dato al giudice di legittimità di poter effettuare il proprio controllo sulla interpretazione resa dalla corte del merito e sulla eventuale violazione dei canoni che la guidano, previsti dagli artt. 1362 c.c. e segg..
7. – Il quinto motivo è inammissibile.
La corte del merito ha accolto la domanda di risarcimento dei danni ex art. 96 c.p.c., con riguardo sia al primo, sia al secondo grado di giudizio, ravvisando in punto di fatto la mala fede o colpa grave della parte, che ha agito pur nella coscienza della infondatezza della domanda o comunque della grave negligenza nel mancare di rendersi conto della stessa: ed ha rinviato all’esistenza di documenti in atti, da cui era inequivoca l’assenza del diritto vantato.
Il motivo, dunque, non si confronta con tale motivazione e non coglie trattarsi di questione di fatto, risolta dal giudice del merito nel senso indicato, nell’esercizio del potere di apprezzamento a lui riservato.
8. – Le spese di lite seguono la soccombenza.
9. – Deve, infine, rilevarsi che l’avv. Cinzia Graff Cavanna, che si qualifica sin dal controricorso “in assistenza” della difesa della controricorrente B.R., non risulta avvocato cassazionista, onde nessun potere può spendere in questa sede.
Sotto un profilo processuale, con riferimento all’art. 365 c.p.c., sussiste la validità del controricorso, essendo a tal fine sufficiente la sottoscrizione di un avvocato cassazionista (cfr. Cass. 11 giugno 2008, n. 15478); nel contempo, la mancanza di detta qualità rende irregolare la intestazione degli atti, nonché la sottoscrizione dei medesimi da parte dell’avvocato privo dei poteri di rappresentare la parte in sede di legittimità, rilevante sotto il profilo disciplinare (cfr. Cass. 18 aprile 2001, n. 5712).
PQM
La Corte dichiara inammissibile il ricorso e condanna L.M.L. al pagamento delle spese di lite, liquidate: 1) in favore di Weleda Italia s.r.l., nella somma di Euro 6.200,00, di cui Euro 200,00 per esborsi, oltre alle spese generali nella misura del 15% sui compensi ed agli accessori di legge; 2) in favore di P.S., nella somma di Euro 5.200,00, di cui Euro 200,00 per esborsi, oltre alle spese generali nella misura del 15% sui compensi ed agli accessori di legge; 3) in favore di B.R., nella somma di Euro 5.200,00, di cui Euro 200,00 per esborsi, oltre alle spese generali nella misura del 15% sui compensi ed agli accessori di legge.
Dichiara che, ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1-quater, sussistono i presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello richiesto, ove dovuto, per il ricorso.
Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio, il 8 luglio 2021.
Depositato in Cancelleria il 7 ottobre 2021
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