Corte di Cassazione, sez. II Civile, Ordinanza n.31631 del 04/11/2021

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LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SECONDA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. LOMBARDO Luigi Giovanni – Presidente –

Dott. BELLINI Ubaldo – Consigliere –

Dott. FALASCHI Milena – rel. Consigliere –

Dott. GIANNACCARI Rosanna – Consigliere –

Dott. VARRONE Luca – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 21592-2019 proposto da:

E.S., rappresentato e difeso dall’avvocato Ermanno Pacanowski, del foro di Roma domiciliato in Roma, via Collina n. 48 presso lo studio del difensore ovvero all’indirizzo PEC del difensore iscritto nel REGINDE;

– ricorrente –

contro

MINISTERO DELL’INTERNO, in persona del Ministro pro tempore, rappresentato e difeso ex lege dall’Avvocatura Generale dello Stato e domiciliato sempre ex lege in Roma, via dei Portoghesi n. 12;

– controricorrente –

avverso il decreto n. 5566/2019 del Tribunale di ROMA, depositato il 15/03/2019;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del 28/01/2021 dal Consigliere Dott.ssa Milena FALASCHI.

OSSERVA IN FATTO E IN DIRITTO Ritenuto che:

– con provvedimento notificato il 24.05.2018 la Commissione territoriale per il riconoscimento della protezione internazionale di Roma rigettava la domanda del ricorrente, volta all’ottenimento dello status di rifugiato, della protezione c.d. sussidiaria o in subordine di quella umanitaria;

– avverso tale provvedimento interponeva opposizione E.S., che veniva respinta dal Tribunale di Roma con decreto n. 5566 del 15.03.2019;

– la decisione evidenziava l’insussistenza dei requisiti previsti dalla normativa, tanto per il riconoscimento dello status di rifugiato quanto per la protezione sussidiaria e umanitaria, esprimendo una valutazione di non credibilità della vicenda narrata dal richiedente per avere rilasciato dichiarazioni contraddittorie in ordine alle ragioni dell’espatrio (nato in *****, *****, iscritto al partito *****, avrebbe preso parte il 30 maggio 2016 alla manifestazione ad Onitsha per l’anniversario della nascita dello Stato del Biafra, duramente repressa dalle forze di sicurezza, ma era riuscito a mettersi in salvo e poiché nei giorni successivi erano proseguiti gli arresti dei giovani del ***** il 26.06.2016 aveva deciso di lasciare la *****), dimostrando di non conoscere gli obiettivi del suo partito, peraltro inizialmente neanche indicato, per cui le circostanze erano tali da non consentire di ravvisare, neanche sotto forma di astratta allegazione, motivi di persecuzione. Aggiungeva che anche dall’esame della condizione sociopolitica del Paese di provenienza, la ***** (*****), e la singola posizione del richiedente (esposto a rischio concreto di sanzioni o pericoli per la integrità fisica o libertà personale) non consentivano di riconoscere allo stesso né lo status di rifugiato, né forme di protezione sussidiaria non incorrendo l’ E. il rischio di essere condannato a morte o all’esecuzione della pena di morte. Del resto le informazioni più recenti circoscrivevano nel Nord-Est del paese l’epicentro delle violenze di *****, senza dar conto di una violenza indiscriminata nel resto del Paese (rapporto 2017-2018 di Amnesty International, rapporto 2018 Human Rights Watch e aggiornamento EASO del giugno 2017). Infine le specifiche vicende allegate non integravano un’ipotesi di vulnerabilità individuale, né era stato prodotto alcun documento attestante siffatto stato da parte del richiedente ovvero elementi di integrazione sociale nel nostro paese (non avendo dimostrato alcuna integrazione lavorativa), sì da rendere difficile il reinserimento nel proprio paese;

– propone ricorso per la cassazione avverso tale decisione l’ E. affidato a cinque motivi;

– il Ministero dell’Interno ha resistito con controricorso;

– in prossimità dell’adunanza camerale il ricorrente ha depositato anche memoria illustrativa.

Atteso che:

– con il primo motivo il ricorrente lamenta – ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 3 – la violazione della Direttiva 2004/83/CE recepita dal D.Lgs. n. 251 del 2007, in relazione alle dichiarazioni rese dal ricorrente e le allegazioni portate in giudizio per la valutazione delle condizioni del suo Paese di origine.

Inoltre – sempre ad avviso del ricorrente – il Tribunale trincerandosi dietro alla valutazione di non credibilità, avrebbe omesso di svolgere un ruolo attivo nell’istruttoria della domanda.

La censura è totalmente destituita di fondamento, posto che il giudice di merito ha espresso le ragioni poste a fondamento del mancato riconoscimento di ogni forma di protezione.

In particolare, ha giudicato il racconto del ricorrente inattendibile per avere riferito circostanze contraddittorie in ordine alla vicenda narrata ed il timore manifestato di essere arrestato e perseguitato per la partecipazione il 30 maggio 2016 alla manifestazione ad Onitsha per l’anniversario della nascita dello Stato del Biafra da ritenersi privo di qualunque riscontro, non ravvisandosi alcun presupposto per la minaccia grave alla vita o alla sua persona in assenza di una qualsiasi forma di identificazione da parte delle forze dell’ordine.

Ha, inoltre, escluso che le vicende narrate fossero idonee ad integrare una persecuzione rilevante ai fini del riconoscimento della protezione internazionale e valutandole nel merito ha in ogni caso ritenuto che le stesse esulassero dall’ambito di applicazione del riconoscimento della protezione internazionale non essendo la zona di provenienza del richiedente in *****, *****, area interessata da un conflitto armato interno o internazionale, dovendosi circoscrivere l’epicentro delle violenze nel Nord-Est del paese.

Del resto la valutazione in ordine alla credibilità del racconto del cittadino straniero costituisce un apprezzamento di fatto rimesso al giudice del merito, il quale deve valutare se le dichiarazioni del ricorrente siano coerenti e plausibili, D.Lgs. 19 novembre 2007, n. 251, ex art. 3, comma 5, lett. c). Tale apprezzamento di fatto è censurabile in cassazione solo ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5 come omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti, come mancanza assoluta della motivazione, come motivazione apparente, come motivazione perplessa ed obiettivamente incomprensibile, dovendosi escludere la rilevanza della mera insufficienza di motivazione e l’ammissibilità della prospettazione di una diversa lettura ed interpretazione delle dichiarazioni rilasciate dal richiedente, trattandosi di censura attinente al merito (da ultimo: Cass. n. 3340 del 2019; Cass. n. 20580 del 2019).

Rispetto all’indicato principio, che risponde a consolidata giurisprudenza di questa Corte di legittimità, fermo ogni altro profilo di critica, la censurabilità del racconto sub specie del vizio motivazionale, nella sua tendenziale insindacabilità nell’ambito del giudizio di legittimità, deve in ogni caso, ove introdotta, farsi carico di segnalare, nei termini sopra indicati, quale fatto sia stato omesso, nella sua decisività, nella valutazione del giudice del merito, non potendo limitarsi a denunciarne genericamente l’omissione.

Il giudice di merito, infatti, ha definito il racconto caratterizzato da non credibilità e non suffragato da circostanza meritevoli di rilievo, che anzi si presentavano contraddittorie. Il ricorrente censura detta affermazione assumendo che il giudice del gravame avrebbe deciso senza tenere conto del verbale di audizione del richiedente, senza però spiegarne le ragioni ovvero allegando fatti di rilevanza che sarebbero contenuti in siffatto atto in ordine alla ricorrenza della credibilità, difettando, così, la doglianza di cui trattasi di sufficiente specificità e di autosufficienza.

Parimenti inammissibili sono le allegazioni operate con il secondo profilo del motivo, che ostendono, pur sotto l’apparente veste di un preteso errore di diritto, una critica puramente motivazionale, non più rappresentabile alla stregua del novellato disposto dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5 quale idoneo vizio cassatorio, e sollecitano perciò una rivisitazione delle risultanze di fatto della vicenda e del giudizio riguardo ad esse enunciato dal giudice di merito, che ha inteso escludere le ragioni di concessione della misura richiesta dando, tra l’altro, atto insieme all’insussistenza di oggettivi fattori di rischio in caso di rimpatrio, della situazione nella area di provenienza in ***** dell’ E..

Invero, alla stregua del dato normativo il richiedente la protezione internazionale è tenuto a presentare “tutti gli elementi e la documentazione necessari” a motivare la domanda medesima, il cui esame è poi destinato ad essere “svolto in cooperazione con il richiedente”, e cioè in un’ottica di sinergica collaborazione, e “riguarda tutti gli elementi significativi della domanda”, misurandosi con l’intero ventaglio dei requisiti rilevanti, siccome presentati dall’interessato, perché la domanda di protezione internazionale, nelle sue diverse forme, riconoscimento dello status di rifugiato o protezione sussidiaria, possa essere accolta (comma 1). Detto onere di presentazione degli “elementi” e della “documentazione” concerne, in specifico, oltre all’età, alla condizione sociale, se necessario anche dei congiunti, all’identità, alla cittadinanza, ai paesi e luoghi in cui il ricorrente ha soggiornato, le domande d’asilo pregresse, gli itinerari di viaggio, i documenti di identità e di viaggio, anche, e diremmo soprattutto, “i motivi della sua domanda di protezione internazionale” (comma 2).

La latitudine degli oneri di allegazione e prova a carico del richiedente emerge altresì dal comma 3 della disposizione, dall’angolo visuale della valutazione della domanda di protezione internazionale, da effettuarsi su base individuale, e cioè in relazione alle circostanze come allegate dal richiedente, valutazione che deve estendersi a tutti i fatti pertinenti concernenti il Paese d’origine; alle persecuzioni o danni gravi che egli deve rendere noto di aver subito o di rischiare di subire; alla situazione individuale ed alle circostanze personali rilevanti al fine di verificare se gli atti indicati, come subiti o paventati, si configurino effettivamente come persecuzione o danno grave; alla condotta del richiedente, ove egli abbia operato al fine di creare le condizioni necessarie alla presentazione della domanda di protezione internazionale, e se ciò lo esponga a persecuzione o danno grave in caso di rientro nel Paese; all’eventualità che il richiedente possa far ricorso alla protezione di un altro Paese.

Ebbene, laddove l’art. 3 citato stabilisce che il richiedente “e’ tenuto a presentare… tutti gli elementi e la documentazione necessari a motivare la medesima domanda”, si riferisce, come si premetteva, tanto agli oneri di allegazione (per il che il richiedente deve presentare, ed in tal senso allegare, gli elementi dedotti a sostegno della domanda), quanto a quelli probatori (per il che il richiedente deve presentare, ed in tal senso produrre, la documentazione necessaria). E’ allora manifesto come le ragioni fondanti la domanda di protezione, sia sussidiaria sia umanitaria, debbano essere senz’altro anzitutto allegate dall’interessato.

Sicché, il richiedente ha il preciso onere di offrire agli organi del Paese al quale rivolge la domanda di protezione ogni elemento utile allo scrutinio di essa: e ciò egli deve fare in un’ottica di schietta collaborazione con tali organi, evidente essendo che la previsione normativa, laddove impone di procedere all’esame della domanda di protezione internazionale “in cooperazione con il richiedente”, richiede un atteggiamento collaborativo reciproco, giacché, sul piano della logica prima ancora che su quello del diritto, non è pensabile che la Commissione territoriale, come pure il giudice, possa cooperare, e cioè operare insieme, ad un richiedente che, al contrario, non offra la collaborazione dovuta.

Il principio è stato così massimato: la domanda di protezione internazionale non si sottrae all’applicazione del principio dispositivo, sicché il ricorrente ha l’onere di indicare i fatti costitutivi del diritto azionato, pena l’impossibilità per il giudice di introdurli d’ufficio nel giudizio (cfr Cass. n. 19197 del 2015).

Una volta allegati, i fatti posti a sostegno della domanda di protezione internazionale vanno provati dal richiedente, sia pure entro speciali limiti, e con peculiari agevolazioni, come subito si vedrà: in linea di principio, cioè, il giudizio volto al riconoscimento della protezione internazionale, come si desume dalla già citata previsione che sollecita il richiedente a depositare la documentazione necessaria, non si sottrae, salvo quanto si dirà, all’applicazione delle regole generali dettate in ordine al riparto dell’onere probatorio dall’art. 2697 c.c., comma 1: con la conseguenza che, se la sussistenza dei presupposti per il riconoscimento della protezione internazionale non sono provati, la domanda è da rigettare.

E difatti è ben possibile che il richiedente, dopo aver assolto l’ineludibile onere di allegare le circostanze poste a sostegno della domanda di protezione internazionale, sia talora in condizione altresì di comprovarne il fondamento; ma è ampiamente intuitivo che egli, proprio a cagione delle persecuzioni o danni gravi subiti nel Paese di provenienza, o anche solo paventati, possa non essere in grado di offrire la prova di dette circostanze: e tale è il contesto in cui la norma in esame tempera il principio dispositivo, disciplinando, tra l’altro, il dovere c.d. di cooperazione istruttoria.

Stabilisce difatti il menzionato art. 3, comma 5 che, qualora taluni elementi posti a sostegno della domanda di protezione internazionale non siano suffragati da prove, prove che dunque la norma ribadisce di porre di regola a carico dell’interessato, essi sono considerati veritieri ove possa ritenersi che il richiedente, oltre ad essersi attivato tempestivamente alla proposizione della domanda, abbia compiuto ogni ragionevole sforzo per circostanziarla e, così, abbia offerto tutti gli elementi pertinenti in suo possesso ed abbia fornito una idonea motivazione dell’eventuale mancanza di altri elementi significativi ovvero abbia fornito dichiarazioni coerenti e plausibili e non in contraddizione con le informazioni generali e specifiche pertinenti al suo caso, di cui si dispone, e risulti altresì, in generale credibile.

Tale disposizione, è stato detto in una nota decisione che ha enucleato il c.d. dovere di cooperazione istruttoria, “affida all’autorità esaminante un ruolo attivo ed integrativo nell’istruzione della domanda, disancorato dal principio dispositivo proprio del giudizio civile ordinario e libero da preclusioni o impedimenti processuali, con la possibilità di assumere informazioni ed acquisire tutta la documentazione reperibile per verificare la sussistenza delle condizioni della protezione internazionale” (Cass., Sez. Un., 17 novembre 2008 n. 27310).

Accanto al c.d. dovere di cooperazione istruttoria, peraltro, la norma contempla un ulteriore aspetto tale da comprimere il principio dispositivo, laddove consente altresì di porre a base del riconoscimento della protezione internazionale fatti che provati non sono, alla sola condizione che ricorrano le condizioni considerate dall’art. 3, comma 5 in esame.

Facendo il punto di quanto finora si è detto, è evidente, da un lato, che l’attenuazione del principio dispositivo in cui la c.d. “cooperazione istruttoria” si collochi non dal versante dell’allegazione, ma esclusivamente da quello della prova, dacché l’allegazione deve essere adeguatamente circostanziata; dall’altro lato, che il dovere di cooperazione istruttoria, collocato esclusivamente dal versante probatorio, trova per espressa previsione normativa un preciso limite tanto nella reticenza del richiedente (in ciò risolvendosi l’omissione di uno sforzo ragionevole per circostanziare i fatti) quanto nella non credibilità delle circostanze che egli pone a sostegno della domanda. Si tratta quindi di deficienze, reticenza e non credibilità, parimenti riferibili al quadro delle allegazioni, di guisa che, intanto si concretizza il dovere di cooperazione istruttoria, in quanto si sia in presenza di allegazioni precise, complete, circostanziate e credibili, e non invece generiche, non personalizzate, stereotipate, approssimative e, a maggior ragione, non credibili.

In altri termini, compete al richiedente innescare l’esercizio del dovere di cooperazione istruttoria, per cui egli non incontra difficoltà alcuna ove la sua narrazione sia vera e reale (cfr Cass. n. 15794 del 2019). La soggezione del richiedente alla valutazione di credibilità, per lo scopo dell’innesco del c.d. dovere di cooperazione istruttoria, lungi dal comprimere o limitare l’esercizio del diritto alla protezione internazionale, ne costituisce viceversa intensa agevolazione: a fronte della regola generale dettata dal citato art. 2697 c.c., in forza del quale l’attore è onerato della prova dei fatti costitutivi della domanda, la speciale disciplina dettata in materia di protezione internazionale offre al richiedente, come si è visto, non solo di cooperare con lui nella ricerca di quelle prove che egli non abbia potuto offrire, ma finanche di credergli pur in difetto di prova.

Nel provvedimento impugnato, il collegio giudicante ha puntualmente scongiurato l’eventualità di un concreto rischio di persecuzione, avvalendosi dei poteri officiosi di indagine e di informazione di cui al D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 8, comma 3, ed ha verificato l’assenza di esposizione a pericolo per l’incolumità fisica del ricorrente per quanto sopra esposto, ragioni non condivise dal ricorrente;

– con il secondo motivo viene denunciato – ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3 – l’omesso esame delle dichiarazioni rese dal ricorrente alla Commissione territoriale e delle allegazioni portate in giudizio per la valutazione delle condizioni del Paese di origine del ricorrente.

Relativamente alla condizione di pericolosità e alle situazioni di violenza generalizzata esistenti in ***** – ad avviso del ricorrente – il giudice non avrebbe considerato che si tratta di un Paese estremamente pericoloso, dove da anni si vivrebbe una situazione di forte instabilità politica a causa di conflitti, violenze armate e tensioni interne, come emergerebbe nel report 2018 di Human Rights Watch.

La censura è totalmente destituita di fondamento, posto che il Tribunale ha espresso le ragioni poste a fondamento del mancato riconoscimento di ogni forma di protezione.

Ha escluso che le vicende narrate fossero idonee ad integrare una persecuzione rilevante ai fini del riconoscimento della protezione internazionale e valutandole nel merito ha in ogni caso ritenuto che le stesse esulassero dall’ambito di applicazione del riconoscimento della protezione internazionale non essendo la ***** nella regione di *****, area di provenienza del richiedente, zona interessata da un conflitto armato interno o internazionale.

Tale apprezzamento di fatto è censurabile in cassazione solo ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5 come omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti, come mancanza assoluta della motivazione, come motivazione apparente, come motivazione perplessa ed obiettivamente incomprensibile, dovendosi escludere la rilevanza della mera insufficienza di motivazione e l’ammissibilità della prospettazione di una diversa lettura ed interpretazione delle dichiarazioni rilasciate dal richiedente, trattandosi di censura attinente al merito (da ultimo: Cass. n. 3340 del 2019; Cass. n. 20580 del 2019).

Rispetto all’indicato principio, che risponde a consolidata giurisprudenza di questa Corte di legittimità, fermo ogni altro profilo di critica, la censurabilità del racconto sub specie del vizio motivazionale, nella sua tendenziale insindacabilità nell’ambito del giudizio di legittimità, deve in ogni caso, ove introdotta, farsi carico di segnalare, nei termini sopra indicati, quale fatto sia stato omesso, nella sua decisività, nella valutazione del giudice del merito, non potendo limitarsi a denunciarne genericamente l’omissione.

Il ricorrente censura le affermazioni del giudice di merito ritenendo che non si sia valorizzato la reale condizione del suo Paese, senza però spiegarne le ragioni ovvero allegando fatti di rilevanza che sarebbero contenuti in fonti di informazione diverse, difettando, così, la doglianza di cui trattasi di sufficiente specificità e di autosufficienza.

Nel provvedimento impugnato, il giudicante ha puntualmente scongiurato l’eventualità di un concreto rischio di persecuzione, avvalendosi dei poteri officiosi di indagine e di informazione di cui al D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 8, comma 3, ed ha verificato l’assenza di esposizione a pericolo per l’incolumità fisica del ricorrente per quanto sopra esposto, ragioni non condivise dal ricorrente;

– con il terzo motivo, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, il ricorrente denuncia la violazione o la falsa applicazione del D.Lgs. 19 novembre 2007, n. 251, art. 14 per non avere riconosciuto la protezione sussidiaria cui egli avrebbe diritto ex lege in ragione delle attuali condizioni socio politiche del Paese di origine.

La doglianza è inammissibile per avere il provvedimento impugnato motivato il convincimento sulla base di accreditate fonti di informazione specificamente indicate, nel rispetto dunque del disposto sia del D.Lgs. 25 gennaio 2008, n. 25, art. 8 sia del D.Lgs. 19 novembre 2007, n. 251, art. 14, e la critica svolta al riguardo in ricorso si sostanzia nella richiesta di un riesame di tale valutazione, non consentita in sede di verifica di legittimità, neppure sotto il profilo del vizio previsto dall’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, ove come nella specie – la doglianza non attenga all’omesso esame di un fatto decisivo puntualmente indicato in ricorso (che si limita ad indicare fonti di informazione e conoscenza che secondo il ricorrente avrebbero raggiunto conclusioni difformi da quella del provvedimento qui impugnato).

Quanto alla forma di protezione sussidiaria prevista dal D.Lgs. 19 novembre 2007, n. 251, art. 14, lett. c) la doglianza, pur formulata nei termini della violazione di legge, si risolve nella denuncia di un vizio di motivazione neppure formalmente dedotto.

In ogni caso, l’obbligo del giudice di cooperare, ai sensi del D.Lgs. 25 gennaio 2008, n. 25, art. 8, comma 3, nell’accertare la situazione reale del paese di provenienza del richiedente mediante l’esercizio di poteri-doveri officiosi d’indagine, può dirsi adempiuto mediante la specifica indicazione delle fonti in base alle quali abbia svolto l’accertamento richiesto (Cass. n. 11312 del 2019: nel caso di specie il report 2017 – 2018 di Amnesty International, il rapporto 2018 Human Rights Watch e l’aggiornamento EASO di giugno 2017).

A fronte di tale accertamento, le circostanze indicate dal ricorrente, non risultano decisive in quanto non vengono dedotte situazioni di violenza idonee ad integrare il presupposto previsto dal D.Lgs. 25 gennaio 2008, n. 25, art. 14.

Il ricorrente, infatti, si limita ad affermare che il ***** sarebbe ancora pericoloso e non vi sarebbe alcuna forma di tutela da parte delle autorità.

Questa Corte ha affermato, anche di recente, che, ai fini del riconoscimento della protezione sussidiaria D.Lgs. 19 novembre 2007, n. 251, ex art. 14, la nozione di violenza indiscriminata in situazione di conflitto armato, interno o internazionale, dev’essere interpretata nel senso che il conflitto armato interno rileva solo se, eccezionalmente, possa ritenersi che gli scontri tra le forze governative di uno Stato o uno o più gruppi armati, o tra due o più gruppi armati, siano all’origine di una minaccia grave ed individuale alla vita o alla persona del richiedente la protezione sussidiaria (Cass. 2 ottobre 2019 n. 24647).

La situazione denunciata in ricorso, pur nella perturbata sua consistenza, non vale ad integrare l’indicato estremo e a censurare in modo concludente la decisione, per essere state esclusi rilievi ad evidenze di sostegno di ipotesi legittimanti il riconoscimento della protezione sussidiaria in tutte le fattispecie di cui al D.Lgs. 19 novembre 2007, n. 251, art. 14.

Alla luce degli enunciati principi, la censura del ricorrente si risolve in una generica critica del ragionamento logico posto dal giudice di merito a base dell’interpretazione degli elementi probatori del processo e, in sostanza, nella richiesta di una diversa valutazione degli stessi, ipotesi integrante un vizio motivazionale non più proponibile in seguito alla modifica dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5 apportata dal D.L. 22 giugno 2012, n. 83, art. 54 convertito con modificazioni dalla L. 7 agosto 2012, n. 134, che richiede che il giudice di merito abbia esaminato la questione oggetto di doglianza, ma abbia totalmente pretermesso uno specifico fatto storico, e si esaurisce nella “mancanza assoluta di motivi sotto l’aspetto materiale e grafico”, nella “motivazione apparente”, nel “contrasto irriducibile tra affermazioni inconciliabili” e nella “motivazione perplessa e obiettivamente incomprensibile”, mentre resta irrilevante il semplice difetto di “sufficienza” della motivazione (Cass. 13 agosto 2018 n. 20721);

– con il quarto motivo è denunciata – ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3 – la errata applicazione del D.Lgs. 25 luglio 1998, n. 286, art. 5, comma 6 quanto alla mancata concessione della protezione umanitaria, che – ad avviso del ricorrente – per non avere il giudice di merito in alcun modo preso in considerazione il suo grado di integrazione sociale e le precarie condizioni del suo paese di origine.

Il motivo è generico e come tale inammissibile nel carattere meramente assertivo e descrittivo assolto dal medesimo che richiama contenuti di norme e principi di loro interpretazione non puntualizzati in relazione al caso concreto.

A siffatto rilievo si accompagna, altresì, la considerazione che la natura residuale ed atipica della protezione umanitaria se da un lato implica che il suo riconoscimento debba essere frutto di valutazione autonoma, caso per caso, e che il suo rigetto non possa conseguire automaticamente al rigetto delle altre forme tipiche di protezione, dall’altro comporta che chi invochi tale forma di tutela debba allegare in giudizio fatti ulteriori e diversi da quelli posti a fondamento delle altre due domande di protezione c.d. “maggiore” (Cass. n. 21123 del 2019).

Il ricorrente denuncia la violazione dell’istituto senza indicare al di là della provenienza, la *****, i motivi di vulnerabilità della propria condizione, che resta genericamente dedotta a fronte di un sistema a tutele tipizzate.

Inoltre nessun dirimente rilievo dispiega, ai fini della prova del profilo dell’avvenuta integrazione sociale del richiedente in funzione del riconoscimento del presidio tutorio di cui al D.Lgs. 25 luglio 1998, n. 286, art. 5, comma 6, valutata dal giudice l’assenza di una qualche forma di integrazione lavorativa (v. pag. 4 provvedimento impugnato). Invero, quand’anche effettivamente conseguita, l’integrazione non risulta neanche allegata ed è ben lungi dall’esaurire la piattaforma dei presupposti richiesti per il riconoscimento della protezione minore, ai cui fini è necessaria, secondo la più autorevole interpretazione di questa Corte regolatrice: “la valutazione comparativa della situazione soggettiva e oggettiva del richiedente con riferimento al Paese di origine, in raffronto alla situazione d’integrazione raggiunta nel paese di accoglienza, senza che abbia rilievo l’esame del livello di integrazione raggiunto in Italia, isolatamente ed astrattamente considerato” (Cass., Sez. Un., n. 29459 del 2019).

Ne’ è possibile valutare la sussistenza dei presupposti per la protezione umanitaria dalle migliori condizioni di vita che sarebbero assicurate a lui e alla sua famiglia dalla permanenza in Italia piuttosto che nel Paese di origine, non costituendo siffatta sproporzione ragione per l’acquisizione di un diritto in tal senso (Cass. n. 32213 del 2018);

– con il quinto ed ultimo motivo il ricorrente solleva eccezione di legittimità costituzionale del D.Lgs. 25 gennaio 2008, n. 25, art. 35 bis, comma 13, come modificato dal D.L. n. 13 del 2017, art. 6 in relazione agli artt. 3,24,111 e 113 Cost., con cui è stata introdotta la nuova disciplina processuale in materia di protezione internazionale, che si applica a tutti i procedimenti giudiziari sorti dopo il 180 0 giorno dalla entrata in vigore del suddetto decreto, con conseguente mancanza di possibilità di proporre appello nel merito, per violazione dell’art. 3 Cost. per trattamento diseguale in situazioni identiche, nonché per violazione del diritto di difesa tutelato dall’art. 24 Cost., violazione dell’art. 111 in materia di giusto processo e violazione dell’art. 113 nella parte in cui prevede che la tutela giurisdizionale non può essere esclusa o limitata a particolari mezzi di impugnazione o per determinate categorie di atti.

La questione si appalesa manifestamente infondata, in quanto appare appartenere alla scelta discrezionale del legislatore la valutazione di introdurre uno o più gradi di merito.

Le ragioni di queste scelte sono esplicitate, peraltro, nel preambolo al decreto n. 13 del 2017, là dove si enuncia la “straordinaria necessità ed urgenza di prevedere misure per la celere definizione dei procedimenti amministrativi innanzi alle Commissioni territoriali per il riconoscimento della protezione internazionale e per l’accelerazione dei relativi procedimenti giudiziari, nel rispetto del principio di effettività, in ragione dell’aumento esponenziale delle domande di protezione internazionale e dell’incremento del numero delle impugnazioni giurisdizionali”.

In ogni caso, non si ha una lesione apprezzabile del diritto alla difesa, perché con l’apertura della fase giurisdizionale al richiedente asilo è assicurata una pronuncia sulla spettanza del suo diritto alla protezione invocata, resa da un giudice terzo ed imparziale all’esito di un processo a cognizione piena (v. Cass. n. 1548 del 2021; Cass. n. 1433 del 2021; Cass. n. 31481 del 2018; Cass. n. 17717 del 2018).

Cass. n. 27700 del 2018 ha ulteriormente precisato che, “…essendo il principio del doppio grado di giurisdizione privo di copertura costituzionale, il legislatore può sopprimere l’impugnazione in appello al fine di soddisfare specifiche esigenze, massime quella della celerità, esigenza decisiva per i fini del riconoscimento della protezione internazionale, dovendosi, altresì, considerare, per la verifica della compatibilità costituzionale della eliminazione del giudizio di appello, che il ricorso di cui trattasi è preceduto da una fase amministrativa destinata a svolgersi dinanzi ad un personale dotato di apposita preparazione, nell’ambito del quale l’istante è posto in condizioni di illustrare pienamente le proprie ragioni attraversi il colloquio destinato a svolgersi dinanzi alle Commissioni territoriali, di guisa che la soppressione dell’appello si giustifica anche per il fatto che il giudice è chiamato ad intervenire in un contesto in cui è stato già acquisito l’elemento istruttorio centrale – per l’appunto il detto colloquio -, al fine dello scrutinio della fondatezza della domanda di protezione, il che concorre a far ritenere superfluo il giudizio di appello”.

In conclusione il ricorso va dichiarato inammissibile.

Le spese del giudizio di legittimità seguono la soccombenza.

Poiché il ricorso è stato proposto successivamente al 30 gennaio 2013 ed è rigettato, sussistono le condizioni per dare atto – ai sensi della L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17 (Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato – Legge di stabilità 2013), che ha aggiunto il comma 1-quater al testo unico di cui al D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13 – della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per la stessa impugnazione, se dovuto.

PQM

La Corte dichiara inammissibile il ricorso;

condanna parte ricorrente alla rifusione delle spese di lite in favore dell’Amministrazione che liquida in complessivi Euro 2.000,00 oltre a spese prenotate e prenotande a debito.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, si dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento da parte del ricorrente di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis se dovuto.

Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della sezione seconda civile, il 28 gennaio 2021.

Depositato in Cancelleria il 4 novembre 2021

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