Corte di Cassazione, sez. VI Civile, Ordinanza n.31645 del 04/11/2021

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LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SESTA CIVILE

SOTTOSEZIONE 1

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. SCOTTI Umberto L.C.G. – Presidente –

Dott. TRICOMI Laura – Consigliere –

Dott. IOFRIDA Giulia – rel. Consigliere –

Dott. MERCOLINO Guido – Consigliere –

Dott. TERRUSI Francesco – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 2011-2020 proposto da:

C.L., elettivamente domiciliato in ROMA, PIAZZA CAVOUR presso la CANCELLERIA della CORTE di CASSAZIONE, rappresentato e difeso dagli avvocati FRANCESCO GRECO, VINCENZA SCARDINA;

– ricorrente –

contro

T.O., elettivamente domiciliata in ROMA, VIA GERMANICO N. 101, presso lo studio dell’avvocato LUCIANO PIAZZA, che la rappresenta e difende;

– controricorrente –

avverso il decreto n. cronol. 2761/2019 della CORTE D’APPELLO di PALERMO, depositato il 17/07/2019;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio non partecipata del 15/06/2021 dal Consigliere Relatore Dott. GIULIA IOFRIDA.

FATTI DI CAUSA

La Corte d’appello di Palermo, con decreto n. cronol. 2761/2019, depositato in data 17/7/2019, in accoglimento del reclamo di T.O., nei confronti di C.L., ha riformato il decreto del Tribunale che aveva, su domanda del C., L. n. 898 del 1970, ex art. 9, revocato l’assegno divorzile di Euro 2.000,00 mensili, posto a carico del medesimo (gravato altresì dell’onere di mantenimento della figlia, per Euro 1.000,00 mensili, oltre il 50% delle spese straordinarie nell’interesse della medesima) con la decisione di primo grado di pronuncia dello scioglimento del matrimonio tra le parti, ed aveva ridotto al controvalore di Euro 30.000,00 il sequestro gravante sui beni dell’ex coniuge, ex art. 8 L. divorzio, con ordinanza del 2014, su richiesta della ex moglie.

In particolare, i giudici d’appello hanno sostenuto che, non potendo rilevare quale causa di revisione dell’assegno, come già ritenuto in primo grado, “né l’eredità paterna, né la costituzione della Dada sas né l’avvio dell’attività di bed and breakfast”, perché già dedotti e deducibili nel corso del giudizio di primo grado, né le allegate condizioni reddituali del C., essendosi questi limitato a ribadire quanto già dedotto nel corso del giudizio di divorzio, richiedendo di riconsiderare le proprie condizioni di asserita difficoltà a far fronte agli oneri del divorzio, né la relazione sentimentale intrattenuta dalla T. da oltre dieci anni, essendo pacifico che la coppia non aveva instaurato in data successiva al divorzio alcuna convivenza, con carattere di stabilità e continuità, era inconsistente l’unico fatto effettivamente sopravvenuto vale a dire l’incorporazione della Mamalù srl nella Dada srl, di cui la T. era titolare del solo 25% delle quote sociali, all’esito dell’istruttoria documentale, essendo da escludere che da detta fusione fosse derivato un effettivo incremento del patrimonio e del reddito della T., non essendo l’attività commerciale ancora redditizia, come da dichiarazioni fiscali prodotte, ed avendo la stessa dovuto lasciare l’abitazione in affitto per trasferirsi presso la casa materna.

Avverso la suddetta pronuncia, L. notificato il 27/12/2019, C. propone ricorso per cassazione, affidato a tre motivi, nei confronti di T.O. (che resiste con controricorso, notificato il 5/2/2020). E’ stata disposta la trattazione con il rito camerale di cui all’art. 380-bis c.p.c., ritenuti ricorrenti i relativi presupposti.

Entrambe le parti hanno depositato memorie.

RAGIONI DELLA DECISIONE

1. Il ricorrente lamenta: a) con il primo motivo, la violazione e falsa applicazione, ex art. 360 c.p.c., n. 3, della L. n. 898 del 1970, art. 9, in punto di diniego della chiesta revoca dell’assegno divorzile, per mancata dimostrazione di un peggioramento delle condizioni economiche del C., per essere stata la questione già posta nelle fasi di merito precedenti, così negandosi il dritto di dedurre un ulteriore peggioramento; b) con il secondo motivo, la violazione e falsa applicazione, ex art. 360 c.p.c., n. 3, della L. n. 898 del 1970, art. 9, in punto di diniego della chiesta revoca dell’assegno divorzile, per mancata dimostrazione di un miglioramento delle condizioni economiche della T. conseguente all’acquisizione a titolo gratuito da parte della società Dada sas, di cui la T. è socia accomandataria, detenendo il 25% delle quote, di tre appartamenti in cui viene svolta attività di impresa (Bed and Breakfast); c) con il terzo motivo, la violazione della L. n. 898 del 1970, art. 9, in punto di modifica delle condizioni economiche, dedotta da esso reclamante per avere la ex moglie da oltre dieci anni instaurato una stabile relazione more uxorio con altro uomo, pur mantenendo i due diverse residenze anagrafiche, questione erroneamente respinta dalla Corte di merito.

2. La prima censura è inammissibile.

La Corte d’appello, confermando sul punto quanto già deciso in primo grado, ha ritenuto che non costituivano fatti nuovi sopravvenuti, denunciabili ai fini della revisione delle condizioni di divorzio, le allegate condizioni reddituali del C., essendosi questo limitato a “ribadire quanto già dedotto nel corso del giudizio di divorzio, richiedendo inammissibilmente di riconsiderare le proprie condizioni di asserita difficoltà a far fronte agi oneri imposti da questa Corte con sentenza ormai passata in giudicato”.

Tale assunto è confermato da questa Corte che ha chiarito come “ai sensi della L. n. 898 del 1970, art. 9 (così come modificato dalla L. n. 436 del 1978, art. 2, e dalla L. n. 74 del 1987, art. 13), le sentenze di divorzio passano in cosa giudicata “rebus sic stantibus”, rimanendo cioè suscettibili di modifica quanto ai rapporti economici o all’affidamento dei figli, in relazione alla sopravvenienza di fatti nuovi, mentre la rilevanza dei fatti pregressi e delle ragioni giuridiche non addotte nel giudizio che vi ha dato luogo rimane viceversa esclusa in base alla regola generale secondo cui il giudicato copre il dedotto e il deducibile. Ne consegue che l’attribuzione in favore di un ex coniuge dell’assegno divorzile non può essere rimessa in discussione in altro processo sulla base di fatti anteriori all’emissione della sentenza, ancorché ignorati da una parte, se non attraverso il rimedio della revocazione, nei casi eccezionali e tassativi di cui all’art. 395 c.p.c.” (Cass. n. 21049/2004; v. anche Cass. 25 agosto 2005, n. 17320).

In sostanza, in forza della particolare natura del giudicato delle sentenze di divorzio, e delle successive modifiche, deve comunque ritenersi che le stesse passano in cosa giudicata “rebus sic stantibus”, rimanendo cioè suscettibili di modifica quanto ai rapporti economici o all’affidamento dei figli, in relazione alla sopravvenienza di fatti nuovi, mentre la rilevanza dei fatti pregressi e delle ragioni giuridiche non addotte nel giudizio che vi ha dato luogo rimane esclusa in base alla regola generale secondo cui il giudicato copre il dedotto e il deducibile.

Le censure risultano peraltro anche inammissibili per carenza di autosufficienza.

Anche nel ricorso il ricorrente non specifica in che cosa sarebbe consistito l’asserito ulteriore peggioramento delle proprie condizioni economiche.

3. La seconda censura è inammissibile.

In punto di prova del miglioramento delle condizioni economico-patrimoniali della ex moglie, il ricorrente contesta la valutazione delle risultanze probatorie operata dalla Corte d’appello, deducendo che invece l’incremento del patrimonio societario della Dada, di cui la T. possiede il 25% ed è socia accomandataria, per effetto del conferimento nel patrimonio di tre appartamenti nel centro di Palermo, avrebbe comunque comportato un arricchimento a titolo gratuito della T..

Ma la Corte di merito ha motivatamente escluso che, allo stato, vi fosse un effettivo miglioramento delle condizioni reddituali personali della T. (fatto questo rilevante), esaminate le dichiarazioni fiscali prodotte ed il fatto che l’attività economica non fosse ancora redditizia, tanto che la T. aveva anche dovuto lasciare l’abitazione condotta in locazione, per trasferirsi nella casa materna.

Il motivo è inammissibile, risolvendosi in una implicita e generica richiesta di rivisitazione del giudizio di fatto compiuto dai giudici di merito, i quali hanno ritenuto che il quadro probatorio dimostrava che le condizioni economiche dell’ex coniuge beneficiario non erano migliorate.

Ne’ viene dedotto vizio di omesso esame di fatto decisivo, ex art. 360 c.p.c., n. 5.

4. Il terzo motivo è del pari inammissibile.

La Corte d’appello ha ritenuto che la relazione sentimentale intrattenuta dalla T. da oltre dieci anni, di cui il C. era a conoscenza, essendo pacifico che la coppia non aveva instaurato in data successiva al divorzio alcuna convivenza, con carattere di stabilità e continuità, non costituiva un fatto nuovo sopravvenuto idoneo a giustificare la revoca dell’assegno di divorzio.

La censura non coglie tale ratio decidendi, soffermandosi esclusivamente sulla non decisività della mancanza di convivenza tra la ex moglie ed il nuovo partner.

Questa Corte (Cass. 6855/2015; conf. Cass.2466/2016) ha affermato che “l’instaurazione da parte del coniuge divorziato di una nuova famiglia, ancorché di fatto, rescindendo ogni connessione con il tenore ed il modello di vita caratterizzanti la pregressa fase di convivenza matrimoniale, fa venire definitivamente meno ogni presupposto per la riconoscibilità dell’assegno divorzile a carico dell’altro coniuge, sicché il relativo diritto non entra in stato di quiescenza, ma resta definitivamente escluso. Infatti, la formazione di una famiglia di fatto – costituzionalmente tutelata ai sensi dell’art. 2 Cost. come formazione sociale stabile e duratura in cui si svolge la personalità dell’individuo – è espressione di una scelta esistenziale, libera e consapevole, che si caratterizza per l’assunzione piena del rischio di una cessazione del rapporto e, quindi, esclude ogni residua solidarietà post-matrimoniale con l’altro coniuge, il quale non può che confidare nell’esonero definitivo da ogni obbligo” (cfr. anche Cass. 11975/2003 e Cass. 17195/2011, ove pero si era affermato che la nuova convivenza non interrompe in modo definitivo il legame con la precedente esperienza di vita matrimoniale, ma ne determina la collocazione in uno stato di “quiescenza”, cosicché il diritto all’assegno potrebbe “riproporsi, in caso di rottura della convivenza tra i familiari di fatto”). In tale pronuncia, quindi questa Corte ha ritenuto che, in presenza di una “convivenza” che assuma “i connotati di stabilità e continuità”, in cui i conviventi “elaborino un progetto ed un modello di vita in comune (analogo a quello che di regola caratterizza la famiglia fondata sul matrimonio)”, la mera convivenza si trasforma in una vera e propria “famiglia di fatto” e quindi si rescinde ogni presupposto per la riconoscibilità di un assegno divorzile, fondato sulla conservazione del tenore di vita goduto nella precedente vita matrimoniale, pur ribadendosi che non vi è né identità, né analogia tra il nuovo matrimonio del coniuge divorziato, che fa automaticamente cessare il suo diritto all’assegno, L. n. 898 del 1970, ex art. 5, comma 10, e la fattispecie descritta, che necessita comunque di un accertamento e di una pronuncia giurisdizionale.

La Corte di merito, dopo avere affermato la carenza di novità nel fatto in questione, ai finì della chiesta revisione delle condizioni economiche tra gli ex coniugi, ha ritenuto, inoltre, che l’indirizzo di cui alla sentenza n. 6855/2015 non potesse, in ogni caso, essere interpretato in senso estensivo, anche alla luce della ricostruzione dell’assegno divorzile sulla base di un criterio anche compensativo-perequativo e solidaristico, occorrendo un’effettiva relazione sentimentale stabile indice di un progetto di vita idoneo ad interrompere in modo definitivo il legame con la precedente esperienza di vita matrimoniale. Ma la prima ratio decidendi della decisione impugnata, in ordine alla mancanza di novità nella dedotta relazione ultradecennale tra la T. e l’altro uomo, in merito alla quale nulla era stato allegato nel precedente giudizio di divorzio, sicché la sussistenza di tale relazione, non mutata quindi nella pacifica insussistenza di una convivenza tra i due, non potesse essere dedotta a fondamento di una domanda di revisione L. n. 898 del 1970, ex art. 9, non viene censurata puntualmente.

In relazione alla mancata ammissione delle prove testimoniali dedotte, la doglianza è del tutto generica, anche per mancata trascrizione dei capitoli di prova articolati, con conseguente difetto di autosufficienza.

5. Per tutto quanto sopra esposto, va dichiarato inammissibile il ricorso. Le spese, liquidate come in dispositivo, seguono la soccombenza.

PQM

La Corte dichiara inammissibile il ricorso; condanna il ricorrente al rimborso delle spese processuali del presente giudizio di legittimità, liquidate in complessivi Euro 2.700,00, a titolo di compensi, oltre Euro 100,00 per esborsi, nonché al rimborso forfetario delle spese generali, nella misura del 15%, ed agli accessori di legge.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della ricorrenza dei presupposti processuali per il versamento da parte del ricorrente dell’importo a titolo di contributo unificato, pari a quello dovuto per il ricorso, ove dovuto, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis.

Dispone che, ai sensi del D.Lgs. n. 198 del 2003, art. 52, siano omessi le generalità e gli altri dati identificativi, in caso di diffusione del presente provvedimento.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio, il 15 giugno 2021.

Depositato in Cancelleria il 4 novembre 2021

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