Corte di Cassazione, sez. V Civile, Ordinanza n.31972 del 05/11/2021

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LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TRIBUTARIA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. MANZON Enrico – Presidente –

Dott. TRISCARI Giancarlo – Consigliere –

Dott. SUCCIO Roberto – Consigliere –

Dott. PUTATURO DONATI VISCIDO DI NOCERA Maria G. – Consigliere –

Dott. GORI P. – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso iscritto al n. 15776 del ruolo generale dell’anno 2017 proposto da:

M.M., rappresentato e difeso dall’Avv. Luca Morani per procura speciale in calce al ricorso, presso il cui studio in Roma, via Pasubio, n. 15, è elettivamente domiciliato;

– ricorrente –

contro

Agenzia delle entrate, in persona del Direttore pro tempore, rappresentata e difesa dall’Avvocatura generale dello Stato, presso i cui uffici in Roma, via dei Portoghesi, n. 12, è domiciliata;

– controricorrente –

per la cassazione della sentenza della Commissione tributaria regionale della Campania, n. 11606/32/2016, depositata in data 16 dicembre 2016;

udita la relazione svolta nella Camera di consiglio del giorno 24 giugno 2021 dal Consigliere Giancarlo Triscari.

RILEVATO

che:

dall’esposizione in fatto della sentenza censurata si evince che: l’Agenzia delle entrate aveva emesso nei confronti di M.M. un atto di recupero, relativo all’anno di imposta 2008, dei crediti di imposta indebitamente utilizzati in compensazione dalla società Consulting Center Service s.r.l., con conseguenti sanzioni; avverso l’atto di recupero il contribuente aveva proposto ricorso che era stato accolto dalla Commissione tributaria provinciale di Caserta; avverso la pronuncia del giudice di primo grado l’Agenzia delle entrate aveva proposto appello;

la Commissione tributaria regionale della Campania ha accolto l’appello dell’Agenzia delle entrate, in particolare ha ritenuto che: il contribuente si era costituito tardivamente e, poiché il giudice di primo grado non si era pronunciato sulla eccezione di difetto di motivazione dell’atto impugnato e di estraneità dello stesso alla pretesa tributaria, la tardiva costituzione comportava la rinuncia alla pronuncia, con conseguente definitività dell’atto di recupero; in ogni caso, doveva ritenersi che il contribuente doveva essere qualificato quale amministratore di fatto della società, con la conseguenza che era legittimo l’atto impositivo di recupero del credito indebitamente compensato dalla società;

il contribuente ha quindi proposto ricorso per la cassazione della sentenza affidato a sei motivi di censura, illustrati con successiva memoria, cui ha resistito l’Agenzia delle entrate depositando controricorso;

il contribuente ha, altresì, depositato copia della sentenza della Commissione tributaria regionale della Campania n. 2651/28/2017 ed ha chiesto dichiararsi il giudice esterno della pronuncia;

il pubblico Ministero, in persona del Sostituto procuratore generale Dott. Vitiello Mauro ha depositato le proprie osservazioni con le quali ha concluso per l’accoglimento del ricorso.

CONSIDERATO

che:

va preliminarmente disattesa l’eccezione del contribuente di giudicato esterno conseguente alla pronuncia della Commissione tributaria regionale della Campania n. 2651/28/2017;

questa Corte ha più volte precisato che il giudicato, formatosi in ordine a un periodo, può avere efficacia preclusiva nel giudizio relativo al medesimo tributo per un altro periodo solo nel caso in cui vengano in considerazione elementi rilevanti necessariamente comuni ai distinti periodi d’imposta, onde potersene desumere che l’accertamento di fatto su tali elementi (e solo l’accertamento di fatto) debba fare stato nel giudizio relativo alle obbligazioni sorte in un periodo d’imposta diverso;

in particolare, è stato affermato che “nel processo tributario, l’effetto vincolante del giudicato esterno in relazione alle imposte periodiche concerne i fatti integranti elementi costitutivi della fattispecie che, estendendosi ad una pluralità di annualità, abbiano carattere stabile o tendenzialmente permanente mentre non riguarda gli elementi variabili, destinati a modificarsi nel tempo.” (Cass. civ., n. 25516 del 2019), e quindi “in relazione alle imposte periodiche, è limitato ai soli casi in cui vengano in esame fatti che, per legge, hanno efficacia permanente o pluriennale, producendo effetti per un arco di tempo che comprende più periodi di imposta, o nei quali l’accertamento concerne la qualificazione di un rapporto ad esecuzione prolungata” (Cass. civ., n. 31084 del 2019; Cass. civ., n. 1300 del 2018);

nel caso di specie, il giudicato di cui alla sentenza prodotta dal contribuente riguarda altra annualità e, inoltre, si basa sulla mancanza di allegazione del processo verbale di costatazione da cui ha fatto discendere, relativamente a quell’avviso di accertamento, il difetto di motivazione, oltre che sulla genericità dell’appello;

sotto tale profilo, non è dato riscontrare alcun accertamento suscettibile di avere efficacia permanente o pluriennale riconducibile a più periodi di imposta, trattandosi, invero, di autonomi avvisi di accertamento, sicché il difetto di motivazione di quello per il quale è stata resa la sentenza passata in giudicato non può estendersi al diverso avviso di accertamento oggetto del presente giudizio;

con il primo motivo di ricorso si censura la sentenza ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3) e 4), per violazione del D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 53, e dell’art. 324 c.p.c., per avere omesso di rilevare l’inammissibilità dell’atto di appello proposto dall’Agenzia delle entrate, posto che conterrebbe una mera riproposizione dell’iter notificatorio degli atti impositivi seguito nella fase amministrativa, senza ribadire le argomentazioni giuridiche proposte, peraltro sommariamente, in primo grado e senza indicare le ragioni per cui la sentenza di primo grado doveva essere riformata;

il motivo è inammissibile;

questa Corte ha precisato che il principio di autosufficienza del ricorso per cassazione vale anche per i motivi d’appello in relazione ai quali si denuncino errori da parte dei giudici di merito, sicché il ricorrente che denunci la violazione e falsa applicazione dell’art. 342 c.p.c. (ovvero del D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 53) per la mancata declaratoria della nullità dell’atto di appello per genericità dei motivi, deve riportare nel ricorso, nel loro impianto specifico, i detti motivi formulati dalla controparte (Cass. civ., 10 dicembre 2012, n. 86); nel caso di specie, parte ricorrente si limita ad una generica contestazione della insufficienza dei motivi di appello proposti dall’Agenzia delle entrate, ed alla sola produzione dell’atto di appello, senza, tuttavia, fornire alcuna specifica indicazione dell’esatto contenuto degli stessi, non consentendo a questa Corte di apprezzare e valutare le ragioni della censura;

in ogni caso, più in generale, con riferimento al profilo di censura di cui all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4), consistente nella mancata pronuncia di inammissibilità dell’atto di appello dell’Agenzia delle entrate, deve ribadirsi che il “vizio di omissione di pronuncia non è configurabile su questioni processuali” (Cass. civ., 15 aprile 2019, n. 10422);

circa, poi, il profilo relativo alla censura per violazione di legge, va precisato che, secondo questa Corte, “In tema di contenzioso tributario, la riproposizione, a supporto dell’appello proposto dal contribuente, delle ragioni d’impugnazione del provvedimento impositivo in contrapposizione alle argomentazioni adottate dal giudice di primo grado, assolve l’onere d’impugnazione specifica imposto dal D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 53, atteso il carattere devolutivo pieno, nel processo tributario, dell’appello, mezzo quest’ultimo non limitato al controllo di vizi specifici, ma rivolto ad ottenere il riesame della causa nel merito” (Cass. civ., 22 gennaio 2016, n. 1200; Cass. civ., 1 luglio 2014, n. 14908);

il giudice del gravame, sotto tale profilo, si è espressamente pronunciato sui motivi di appello dell’Agenzia delle entrate, e ciò evidenzia come non abbia in alcun modo ritenuto di ravvisare il mancato assolvimento dell’onere di impugnazione specifica;

con il secondo motivo di ricorso si censura la sentenza ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3), per violazione e falsa applicazione del D.Lgs. n. 546 del 1992, artt. 56 e 57, del D.P.R. n. 633 del 1972, art. 17, del D.L. n. 269 del 2003, per avere erroneamente ritenuto che la tardiva costituzione del ricorrente nel giudizio di appello comportasse la preclusione all’esame della questione della legittimazione sostanziale passiva del contribuente, nonostante il fatto che la stessa era stata prospettata con il ricorso introduttivo e riproposta in appello, seppure tardivamente;

evidenzia parte ricorrente che la questione della legittimazione sostanziale passiva costituiva una mera difesa, in quanto diretta a negare la legittima individuazione del soggetto nei confronti del quale la pretesa era stata fatta valere, sicché non correttamente il giudice del gravame ha ritenuto che la stessa avrebbe dovuto sottostare al regime delle preclusioni proprie delle eccezioni in senso stretto;

con il terzo motivo di ricorso si censura la sentenza ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3), per violazione e falsa applicazione dell’art. 113 c.p.c., del D.P.R. n. 633 del 1972, art. 17, del D.L. n. 269 del 2003, art. 7, per avere erroneamente ritenuto che il ricorrente dovesse rispondere delle imposte e delle sanzioni relativa alla società Consulting Center Service s.r.l.;

con il quarto motivo di ricorso si censura la sentenza ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3), per violazione o falsa applicazione dell’art. 324 c.p.c., nonché del D.Lgs. n. 546 del 1992, artt. 49,50,56 e 62, per avere erroneamente ritenuto che la tardività della costituzione del ricorrente nel giudizio di appello comportasse la definitività dell’atto dli recupero;

i motivi, che possono essere esaminati unitariamente, sono fondati; la questione di fondo che attiene alla presente controversia ha riguardo alla applicabilità del regime delle preclusioni di cui al D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 56, il cui contenuto è sostanzialmente analogo a quello di cui all’art. 346 c.p.c., secondo cui “Le questioni ed eccezioni non accolte nella sentenza della commissione provinciale, che non sono state specificamente riproposte in appello, s’intendono rinunciate”;

va osservato, in primo luogo, che, secondo questa Corte (Cass. Sez. U., 12 magio 2017, n. 11799): “l’art. 346 c.p.c., con l’espressione eccezioni non accolte nella sentenza di primo grado, nell’ammettere la mera riproposizione dell’eccezione di merito da parte del convenuto rimasto vittorioso con riguardo all’esito finale della lite, intende riferirsi all’ipotesi in cui l’eccezione non sia stata dal primo giudice ritenuta infondata nella motivazione né attraverso un’enunciazione in modo espresso, né attraverso un’enunciazione indiretta, ma chiara ed inequivoca. Quando la mera riproposizione (che dev’essere espressa) è possibile, la sua mancanza rende irrilevante in appello l’eccezione, se il potere di rilevazione riguardo ad essa è riservato alla parte, mentre, se il potere di rilevazione compete anche al giudice, non impedisce ferma la preclusione del potere del convenuto, che il giudice d’appello eserciti detto potere a norma dell’art. 345 c.p.c., comma 2”;

in sostanza, nel caso in cui il giudice di primo grado non si sia pronunciato sulla questione e la parte vittoriosa non ha provveduto alla riproposizione delle stesse in appello, occorre valutare se, nonostante l’intervenuta preclusione, il giudice possa comunque esercitare il potere di rilevare d’ufficio la questione;

sotto tale profilo, la questione si sposta nell’esaminare la natura dell’eccezione della parte totalmente vittoriosa nel giudizio di primo grado e la possibilità che la stessa possa comunque essere proposta nel giudizio di appello ovvero rilevata d’ufficio dal giudice;

occorre evidenziare, a tal proposito, che la contestazione prospettata sin dal primo grado di giudizio da parte del ricorrente aveva riguardato la non assoggettabilità del medesimo alla pretesa fatta valere dall’amministrazione finanziaria, in particolare, rispetto alla affermazione, contenuto nell’atto di recupero, che il ricorrente era obbligato al pagamento dell’Iva illegittimamente compensata dalla società Cosulting Center Service s.r.l., questi aveva sostenuto di non avere la legittimazione sostanziale, cioè di non essere obbligato al pagamento, essendo “estraneo all’indebita compensazione contestata dall’Ufficio” (vd. sentenza, pag. 7);

in sostanza, rispetto alla pretesa fatta valere nei suoi confronti, basata sulla sua accertata qualifica di amministratore di fatto della società, il ricorrente aveva negato la propria titolarità passiva, cioè la propria estraneità all’obbligazione tributaria;

sul punto, va quindi osservato che, secondo questa Corte (Cass. Sez. U., 16 febbraio 2016, n. 2951), qualora il convenuto non condivida l’assunto dell’attore in ordine alla titolarità del diritto, può limitarsi a negarla. Questa presa di posizione è una mera difesa. Le “difese” sono, in generale, le posizioni assunte dal convenuto per contrapporsi alla domanda. Possono consistere nella esposizione di ragioni giuridiche o in prese di posizione rispetto ai fatti prospettati dall’attore. Queste ultime potranno, a loro volta, consistere in prese di posizione che si limitano a negare l’esistenza di fatti costitutivi del diritto (“mere difese”), oppure nella contrapposizione di altri fatti che privano di efficacia i fatti costitutivi, o modificano o estinguono il diritto;

evidenzia questa Corte che, all’interno della categoria generale delle eccezioni, si delinea poi la sottocategoria delle “eccezioni in senso stretto”, che presenta un regime giuridico peculiare, in quanto il giudice non può pronunciare d’ufficio su eccezioni che possono essere proposte soltanto dalle parti;

sul piano pratico la distinzione che più conta non è tanto quella tra mere difese ed eccezioni, quanto quella che isola le eccezioni in senso stretto, soggette a decadenza, se non vengono tempestivamente proposte, e non rilevabili d’ufficio;

si è quindi precisato che la titolarità, costituendo un elemento costitutivo del diritto fatto valere in giudizio, può essere negata dal convenuto con una mera difesa e cioè con una presa di posizione negativa, che contrariamente alle eccezioni in senso stretto, non è soggetta a decadenza ex art. 167 c.p.c., comma 2;

pertanto, la questione che non si risolva in un’eccezione in senso stretto può essere posta dal convenuto anche oltre quel termine e può essere sollevata d’ufficio dal giudice. Essa può anche essere oggetto di motivo di appello, perché l’art. 345 c.p.c., comma 2, prevede il divieto di “nuove eccezioni che non siano rilevabili anche d’ufficio”;

le suddette considerazioni valgono, peraltro, anche con riferimento al caso in cui il convenuto contesti la legittimità della pretesa fatta valere nei suoi confronti deducendo la propria estraneità rispetto all’obbligazione tributaria sulla cui base la pretesa è stata fatta valere: si tratta, anche in questo caso di difese con le quali il convenuto si oppone alla domanda limitandosi a negare l’esistenza dei fatti costitutivi esponendo una ragione giuridica (la non applicabilità nei propri confronti della pretesa in quanto il debito e la sanzione era riconducibile, piuttosto, alla società) senza contrapporre altri fatti che privino di efficacia i fatti costitutivi o modifichino o estinguano il diritto, dovendosi solo in questo ultimo caso ragionarsi in termini di eccezioni in senso stretto;

ne consegue che il giudice del gravame avrebbe dovuto esaminare comunque la questione della legittimazione passiva sostanziale del contribuente;

inoltre, va osservato che correttamente parte ricorrente ha prospettato il proprio difetto di legittimazione passiva sostanziale in relazione alla pretesa fatta valere nei suoi confronti dall’amministrazione finanziaria basata sulla considerazione che lo stesso, quale amministratore di fatto della società Consulting Service Center s.r.l., doveva rispondere sia del pagamento dell’imposta che della sanzione;

invero, la questione di fondo della ragione di censura prospettata con il terzo motivo di ricorso attiene alla verifica se delle obbligazioni tributarie aventi ad oggetto Irpeg, Irap e Iva gravanti su Consulting Service Center s.r.l., possa rispondere, oltre che la medesima società, quale autonomo soggetto passivo di imposta, anche il ricorrente in considerazione della qualifica dallo stesso rivestita di amministratore di fatto, della società;

in realtà, in materia di imposte dirette, la responsabilità degli amministratori è prevista dal D.P.R. n. 602 del 1973, art. 36, ma solo per l’ipotesi di messa in liquidazione della società e realizzazione, da parte degli amministratori, di operazioni di liquidazioni nel corso degli ultimi due periodi di imposta precedenti alla messa in liquidazione ovvero di occultamento di attività sociali mediante omissione nelle scritture contabili;

si tratta, invero, di una responsabilità per obbligazione propria ex lege avente natura civilistica e non tributaria, non ponendo la norma alcuna successione o coobbligazione nei debiti tributari a carico di tali soggetti, nemmeno allorché la società sia cancellata dal registro delle imprese (Cass. civ., 30 marzo 2021, n. 8811; Cass. civ., 20 luglio 2020, n. 15377; Cass. civ., nn. 29969/2019, 17020/2019), il cui presupposto risiede nel compimento di una specifica condotta illecita diretta a sottrarre o occultare il patrimonio sociale, con conseguente depauperamento della garanzia patrimoniale;

quella verso l’amministratore e’, in particolare, un credito dell’amministrazione finanziaria non strettamente tributario, ma di natura civilistica, che trova titolo autonomo rispetto all’obbligazione fiscale vera e propria, costituente mero presupposto della responsabilità stessa (Cass., Sez. Un., n. 2767 del 1989), ancorché detta responsabilità debba essere accertata dall’Ufficio con atto motivato da notificare ai sensi del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 60, avverso il quale è ammesso ricorso secondo le disposizioni relative al contenzioso tributario del citato D.P.R. n. 602 del 1973, ex art. 36, penultimo comma e u.c. (Cass. civ., n. 7327 del 2012; Cass. civ., n. 11968 del 2012);

la previsione normativa in esame, peraltro, è applicabile alle sole imposte sui redditi, dunque non anche all’imposizione sul valore aggiunto o sulle attività produttive (D.Lgs. n. 46 del 1999, art. 19); con riferimento al caso di specie, la sentenza censurata ha fatto conseguire dall’accertamento della qualifica del ricorrente quale amministratore in via di fatto della società la sua responsabilità per le obbligazioni tributarie riconducibili a quest’ultima, sicché la stessa è in contrasto con i principi sopra espressi, con conseguente vizio di violazione di legge;

con riferimento, poi, alle sanzioni, va osservato, che le sanzioni amministrative relative al rapporto tributario proprio di società o enti con personalità giuridica, ai sensi del D.L. n. 269 del 2003, art. 7, (conv. dalla L. n. 326 del 2003), sono esclusivamente a carico della persona giuridica anche quando sia gestita da un amministratore di fatto, non potendosi fondare un eventuale concorso di quest’ultimo nella violazione fiscale sul disposto di cui al D.Lgs. n. 472 del 1997, art. 9, che non può costituire deroga al predetto art. 7, ad esso successivo, che invece prevede l’applicabilità delle disposizioni del D.Lgs. n. 472 del 1997, ma solo in quanto “compatibili” (Cass. civ., 25 ottobre 2017, n. 25284);

e’ stato, inoltre, precisato che “l’amministratore di fatto di una società alla quale sia riferibile il rapporto fiscale ne risponde direttamente qualora le violazioni siano contestate o le sanzioni irrogate antecedentemente alla data di entrata in vigore del D.L. 30 settembre 2003, n. 269, convertito con modificazioni dalla L. 24 novembre 2003, n. 326, stante la disposizione di diritto transitorio di cui al menzionato decreto, art. 7, comma 2, e la disciplina precedentemente vigente dettata dal D.Lgs. 18 dicembre 1997, n. 472, art. 3, comma 2, e art. 11” (Cass. n. 9122 del 23/4/2014);

infine, questa Corte (Cass. civ., 7 novembre 2018, n. 28332) ha precisato che tale orientamento incontra un limite nella artificiosa costituzione ai fini illeciti della società di capitali, potendo allora le sanzioni amministrative tributarie essere irrogate “nei confronti della persona fisica che ha beneficiato materialmente delle violazioni contestate. In tal caso, la persona fisica che ha agito per conto della società e’, nel contempo, trasgressore e contribuente, e la persona giuridica è una mera fictio, creata nell’esclusivo interesse della persona fisica. Non opera pertanto il D.L. n. 269 del 2003, art. 7, secondo cui nel caso di rapporti fiscali facenti capo a persone giuridiche le sanzioni possono essere irrogate nei soli confronti dell’ente, in quanto detta norma intende regolamentare le ipotesi in cui vi sia una differenza tra trasgressore e contribuente e, in particolare, l’ipotesi di un amministratore di una persona giuridica che, in forza del proprio mandato, compie violazioni nell’interesse della persona giuridica medesima”;

con riferimento al caso di specie, trova applicazione il D.L. n. 269 del 2003, art. 7, posto che dalla sentenza si evince che l’atto di recupero era derivato da un processo verbale di constatazione redatto nel 2010, sicché non può configurarsi la responsabilità del ricorrente, quale amministratore di fatto della società, a titolo solidale per le sanzioni comminate alla società;

non emerge, infatti, dalla sentenza impugnata che l’amministrazione finanziaria avesse dedotto nelle proprie difese la questione della fittizietà della società, che sarebbe stata creata nell’esclusivo interesse del ricorrente, né tale questione è stata affrontata dai giudici di merito e, pertanto, la sentenza, sul punto, risulta viziata da violazione di legge;

con il quinto motivo di ricorso si censura la sentenza ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4), per nullità della sentenza in conseguenza della violazione dell’art. 2909 c.c., degli artt. 324 e 329 c.p.c., del D.Lgs. n. 546 del 1992, artt. 49,50,53, per avere omesso di rilevare che il capo della sentenza di primo grado che accertava l’inesistenza del requisito dell’amministrazione di fatto non era stato oggetto di specifica impugnazione da parte dell’Agenzia delle entrate;

il motivo è infondato;

si evince dal contenuto dell’atto di appello riprodotto in sentenza che l’Agenzia delle entrate aveva espressamente dedotto in ordine alla sussistenza degli elementi di prova da cui desumere la qualifica del contribuente di amministratore di fatto, rinviando, sul punto, al verbale redatto dall’ufficio antifrode pag. 9/19, sicché la questione della qualifica di amministratore di fatto era stata nuovamente posta all’attenzione del giudice del gravame, non potendosi, quindi, ragionare in termini di giudicato interno, come invece prospettato dal ricorrente;

con il sesto motivo di ricorso si censura la sentenza ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5), per omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio, relativo alla insussistenza della qualifica nei confronti del contribuente di amministratore di fatto della società Consulting Service Center s.r.l.;

le considerazioni espresse in sede di esame del secondo, terzo e quarto motivo di ricorso hanno valore assorbente del presente motivo;

in conclusione, sono fondati il secondo, terzo e quarto motivo, inammissibile il primo, infondato il quinto ed assorbito il sesto, con conseguente accoglimento del ricorso e, non essendo necessari ulteriori accertamenti in fatto, la causa può essere decisa del merito con cassazione della sentenza censurata ed accoglimento del ricorso originario del contribuente;

con riferimento alle spese di lite, compensate quelle relative ai giudizi di merito, la controricorrente va condannata al pagamento in favore del ricorrente di quelle relative al presente giudizio.

PQM

La Corte:

accoglie il secondo, terzo e quarto motivo di ricorso, inammissibile il primo, infondato il quinto ed assorbito il sesto, cassa la sentenza censurata e, decidendo nel merito, accoglie il ricorso originario del contribuente;

compensa le spese di lite relative ai giudizi di merito, condanna la controricorrente al pagamento in favore del ricorrente delle spese di lite del presente giudizio che si liquidano in complessive Euro 15.000,00, oltre spese forfettarie nella misura del quindici per cento, Euro 200,00 per esborsi ed accessori.

Così deciso in Roma, il 24 giugno 2021.

Depositato in Cancelleria il 5 novembre 2021

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