LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE LAVORO
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. NEGRI DELLA TORRE Paolo – Presidente –
Dott. BALESTRIERI Federico – Consigliere –
Dott. ARIENZO Rosa – rel. Consigliere –
Dott. LEO Giuseppina – Consigliere –
Dott. BOGHETICH Elena – Consigliere –
ha pronunciato la seguente:
ORDINANZA
sul ricorso 36196-2018 proposto da:
C.C., elettivamente domiciliato in ROMA, VIALE DELLA PIRAMIDE CESTIA, 1/B, presso lo studio dell’avvocato GIUSEPPE MARIA GIOVANELLI, rappresentato e difeso dagli avvocati FRANCESCO TEMPERINI, LUCIANO BROZZETTI;
– ricorrente –
contro
NESTLE’ ITALIANA S.P.A., in persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, VIA VIRGILIO, 8, presso lo studio dell’avvocato ANDREA MUSTI, che la rappresenta e difende unitamente all’avvocato CARLO FOSSATI;
– controricorrente –
avverso la sentenza n. 829/2018 della CORTE D’APPELLO di MILANO, depositata il 13/06/2018 R.G.N. 1353/2017;
udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del 26/01/2021 dal Consigliere Dott. ARIENZO ROSA.
RILEVATO IN FATTO
CHE:
1. la Corte d’appello di Milano, con sentenza del 13.6.2018, respingeva il gravame proposto da C.C. ed il gravame incidentale proposto dalla Nestle’ Italiana s.p.a. avverso la decisione del Tribunale della stessa città che aveva rigettato il ricorso del primo e la domanda riconvenzionale della società, avente ad oggetto la richiesta di condanna del C. al pagamento Euro 175.000,00 a titolo di risarcimento del danno subito a causa dell’illegittimità delle condotte poste in essere e del grave inadempimento delle sue obbligazioni;
2. il C., dirigente della Nestle’ Italiana s.p.a. con funzioni di Business Executive manager Confectionery, aveva ricorso per sentire riconoscere la pretestuosità ed infondatezza delle motivazioni del licenziamento intimatogli il 13.5.2016, nonché l’illegittimità o ingiustificatezza del recesso, chiedendo la condanna della convenuta al pagamento del complessivo importo di Euro 338.217,96 a titolo di indennità sostitutiva di preavviso, del complessivo importo di Euro 25.053,18 a titolo di incidenza di tale somma sul t.f.r. e di quello di Euro 676.435,92 a titolo di indennità supplementare;
3. la Corte distrettuale osservava che, con contestazione disciplinare del 20.4.2016, era stato addebitato al C.: 1) di avere, in data 5.3.2016, sottoscritto con Gioform s.r.l. il contratto per l’apertura e la gestione del negozio Perugina sito in Piazza IV Novembre a Perugia nonostante il parere contrario espresso dalla Direzione Affari Legali e comunicato al C. via mail, il 29.2.2016, in seguito a richiesta di parere in pari data; 2) di avere comunicato il 30.3.2016, via mail, a G.L. ed a G.F., rispettivamente Controller Divisionale e Marketing Confectionery, nonché ad altra referente, l’avvenuta sottoscrizione del contratto di cui al punto 1, accompagnandolo con l’affermazione di avere già concordato quanto aveva poi posto in essere con la controparte contrattuale, con evidente discordanza delle date indicate in tale affermazione; 3) sottoscrizione del contratto de quo senza alcuna preventiva informazione né all’AD dell’azienda, né al successore di esso ricorrente, già designato con comunicazione organizzativa del 3.2.2016; 4) avere concesso, senza averne i poteri, alla Gioform s.r.l., la disponibilità del marchio “Perugina”, relativa insegna, logo e segni grafici distintivi di cui la Nestle’ Italiana s.p.a. era semplice licenziataria e non proprietaria, esponendo in tal modo l’azienda al rischio di azioni risarcitorie; 5) essersi impegnato, in data 14 aprile, a fronte della richiesta di specificare le motivazione del “business” dell’atto sottoscritto, da parte dell’AD della società, venuto solo allora a conoscenza del contratto, ad ottenere l’immediato annullamento dell’atto medesimo senza alcun onere da parte della Nestle’ Italiana, circostanza che non si era verificata;
4. il licenziamento, a seguito delle giustificazioni rese, era intimato, senza preavviso, il 13 maggio 2016, a causa della ritenuta definitiva lesione di ogni vincolo fiduciario. Con riferimento alle motivazioni della sentenza di primo grado, la Corte evidenziava che era stato disatteso il parere contrario dell’Ufficio Legale e che il ricorrente aveva agito eccedendo i poteri di rappresentanza conferitigli dal CDA in data 26.11.2011, tra i quali non rientrava il potere di stipulare con firma singola contratti di durata superiore a tre anni e neppure quello di concedere a terzi la disponibilità di diritti di proprietà industriale; se pure il parere dell’ufficio legale doveva intendersi solo come consultivo e non come vincolante, la circostanza che lo stesso fosse stato totalmente negativo doveva assumere una rilevanza ai fini considerati, non potendo avallarsi la giustificazione del ricorrente secondo cui “senza una limitata dose di rischio non c’e’ business”, anche a costo di violare regole che prevedevano in via di prassi di concordare i contratti di tale tipo con l’ufficio legale;
5. il C. aveva fatto passare per futura una sottoscrizione già effettuata ed anche con riguardo alle promesse al suo successore, Dott. E., di confrontarsi sui negozi o contratti, non si era tenuto fede a tale impegno, così come era emerso che, nella riunione con di: CDD del 17.3.2016, era stato esibito il testo del contratto stipulato con Gioform comprensivo degli emendamenti e delle indicazioni suggeriti dal CDA ed, infine, anche sulla cessione di diritti senza previo consenso della controparte non era stata fornita adeguata giustificazione, sicché già i primi quattro punti dovevano ritenersi sufficienti a giustificare il licenziamento; circa il quinto punto della contestazione disciplinare, non era contraddittorio affidare al dipendente la possibilità di una sorta di recesso operoso consentendogli di tentare di evitare il danno che la società si attendeva;
6. la Corte evidenziava, poi, che, essendo stato leso in modo irreparabile il vincolo fiduciario e compromesso lo svolgimento regolare dell’attività aziendale con la condotta evidenziata, doveva ritenersi integrata la giusta causa del recesso che rendeva irrilevante ogni considerazione sulla giustificatezza;
7. quanto alla riconvenzionale, la Corte riteneva non concretizzatosi un danno da risarcire per la società che ne assumeva, invece, la sussistenza;
8. di tale decisione domanda la cassazione il C., affidando l’impugnazione a due motivi, cui resiste, con controricorso la società;
9. entrambe le parti hanno depositato memorie ai sensi dell’art. 380 bis. 1 c.p.c..
CONSIDERATO IN DIRITTO
CHE:
1. con il primo motivo, il C. denunzia violazione o falsa applicazione degli artt. 2119,2106,1175,1218 e 1375 c.c., nonché degli artt. 22 e 23 c.c.n.l. per i dirigenti di aziende industriali del 30.12.2014, il tutto ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 3, osservando che l’attività di integrazione del precetto normativo di cui all’art. 2119 c.c. compiuta dal giudice del merito è sindacabile in cassazione a condizione che la contestazione del giudizio valutativo operato in sede di merito non si limiti ad una censura generica e meramente contrappositiva, ma contenga, invece, una specifica denunzia di non coerenza del predetto giudizio rispetto agli “standards” conformi ai valori dell’ordinamento esistenti nella realtà sociale e che il vizio di sussunzione è ipotizzabile anche nel caso di norme che contengano clausole generali o concetti giuridici indeterminati; osserva che, per consentirne lo scrutinio in sede di legittimità, sia indispensabile che si parta dalla ricostruzione della fattispecie concreta come effettuata dal giudice del merito, per non sconfinare nella revisione dell’accertamento di fatto di competenza dei detti giudici; sulla base di tali ed ulteriori premesse, attinenti a principi affermati dalla giurisprudenza di legittimità, il C. osserva che l’ultima mancanza, da reputare come l’unica che aveva condotto al licenziamento, sia quella di cui al punto 5), in quanto, ove il predetto avesse fatto annullare il contratto, la società avrebbe potuto soprassedere all’irrogazione di qualunque sanzione, in tal modo evidenziando che la firma del contratto con la società Gioform in realtà non costituisse un vulnus irreversibile del rapporto fiduciario, in quanto, in caso contrario, la società non si sarebbe affidata al ricorrente per tale ulteriore incarico, caratterizzato da una cifra fiduciaria.
Si contesta la configurazione come recesso operoso del nuovo incarico conferito al C., presupponendo tale tipo di recesso, per sua natura, la spontaneità di colui che realizza il comportamento recessivo, che non deve essere determinato da fattori esterni, e si ritiene che tale comportamento gli era stato imposto al fine di evitare dapprima la contestazione disciplinare e poi il licenziamento. Si precisa come nella sostanza venga devoluto alla Corte di legittimità non un diverso apprezzamento dei fatti ma una verifica di coerenza e congruità, rispetto ad un’asserita lesione del vincolo fiduciario, dell’affidamento del nuovo incarico al dirigente avente ad oggetto un contratto la cui stipula era stata ritenuta integrare una irreversibile compromissione del vincolo fiduciario e si sostiene che in tal modo i giudici del merito abbiano violato gli “standards conformi all’ordinamento, esistenti nella realtà sociale” e le regole di correttezza e buona fede che devono connotare i rapporti tra datore di lavoro e lavoratore, con riflessi anche sulla proporzionalità della sanzione irrogata;
2. con il secondo motivo, il ricorrente deduce la nullità della sentenza ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4, sottolineando come la Corte distrettuale non abbia fornito alcuna risposta in ordine alle istanze istruttorie ritualmente formulate dal C. nell’atto di appello (prova testimoniale articolata a punti da 23 a 30, ritrascritti), in tal modo incorrendo in error in procedendo, in violazione dell’art. 112 c.p.c.. Assume che la prova era volta a dimostrare il contenuto del nuovo incarico conferitogli dai vertici aziendali e sostiene che le risultanze della stessa siano, in via prognostica, rilevanti e connotate da decisività al fine di dimostrare che il dirigente è stato licenziato proprio per il mancato raggiungimento dello scopo aziendale di ottenere la risoluzione consensuale dell’accordo del 5.3.2016. Il mancato raggiungimento di tale obiettivo gli sarebbe stato imputato quale inadempienza rispetto ad un’asserita obbligazione di risultato assunta, tralasciandosi immotivatamente di considerare che non si è trattato in realtà di un’inadempienza, a fronte dell’insussistenza di un impegno di risultato preso in tal senso dal lavoratore e, tantomeno, di inadempimento incolpevole a lui imputabile ex art. 1218 c.c.;
3. il ricorso è infondato;
4. quanto al primo motivo, va in realtà osservato che il recesso, come pare evidenziarsi nelle motivazioni della Corte distrettuale, era stata reputato già giustificato e quindi intimato legittimamente in base ai precedenti quattro punti della contestazione, salvo sua riconsiderazione nel caso in cui fosse stato portato a termine il tentativo di pervenire ad un annullamento di un contratto che ledeva gli interessi della società e la cui stipulazione era avvenuta senza condivisione dal parte dei vertici aziendali, in qualche modo concedendosi al dirigente l’opportunità di sanare l’iniziale discostamento dalle indicazioni della società o quanto meno la mancata considerazione da parte del predetto del possibile orientamento contrario dei vertici aziendali;
4.1. le condotte addebitate nei primi quattro punti della contestazione, secondo la ricostruzione operatane del giudice del gravame, sono state, dunque, ritenute idonee alla lesione del vincolo fiduciario ed il punto 5) della contestazione poneva nel giusto risalto un recesso operoso in senso atecnico, che si inseriva nella vicenda in termini di rivalutazione possibile anche del precedente comportamento, avente già di per sé una valenza disciplinare rilevante, nella prospettiva valutativa del datore di lavoro, avallata dalla Corte del merito;
4.2. questa Corte ha ben chiarito che, in tema di licenziamento disciplinare, rientra nell’attività sussuntiva e valutativa del giudice di merito la verifica della sussistenza della giusta causa, con riferimento alla violazione dei parametri integrativi posti dal codice disciplinare del c.c.n.l., le cui previsioni, anche quando la condotta del lavoratore sia astrattamente corrispondente alla fattispecie tipizzata contrattualmente, non sono vincolanti per il giudice, dovendo la scala valoriale ivi recepita costituire uno dei parametri cui fare riferimento per riempire di contenuto la clausola generale di cui all’art. 2119 c.c., attraverso un accertamento in concreto della proporzionalità tra sanzione ed infrazione sotto i profili oggettivo e soggettivo (così, tra le tante, Cass. 16.4.2018 n. 9396; Cass. 26.9.2018 n. 23020). Con particolare riferimento agli artt. 2119 e 2118 c.c., alla L. n. 604 del 1966, art. 3, agli artt. del c.c.n.l., occorre considerare che la giusta causa di licenziamento, quale fatto “che non consenta la prosecuzione, anche provvisoria, del rapporto”, è una nozione che la legge – allo scopo di un adeguamento delle norme alla realtà da disciplinare, articolata e mutevole nel tempo – configura con una disposizione (ascrivibile alla tipologia delle c.d. clausole generali) di limitato contenuto, delineante un modulo generico che richiede di essere specificato in sede interpretativa, mediante la valorizzazione sia di fattori esterni relativi alla coscienza generale, sia di principi che la stessa disposizione tacitamente richiama; è solo l’integrazione giurisprudenziale, a livello generale ed astratto, della nozione di giusta causa o di giustificato motivo soggettivo che si colloca sul piano normativo e consente una censura per violazione di legge; mentre l’applicazione in concreto del più specifico canone integrativo, così ricostruito, rientra nella valutazione di fatto devoluta al giudice di merito e non è censurabile in sede di legittimità se non per vizio di motivazione, (cfr. Cass. n. 7838 del 2005; Cass. n. 21214 del 2009; Cass. 6901 del 2016; Cass. n. 18715 del 2016); è stato precisato come il giudizio di proporzionalità o adeguatezza della sanzione dell’illecito commesso – istituzionalmente rimesso al giudice di merito – si sostanzia nella valutazione della gravità dell’inadempimento imputato al lavoratore in relazione al concreto rapporto e a tutte le circostanze del caso, dovendo tenersi al riguardo in considerazione la circostanza che tale inadempimento deve essere valutato in senso accentuativo rispetto alla regola generale della “non scarsa importanza” di cui all’art. 1455 c.c., sicché l’irrogazione della massima sanzione disciplinare risulta giustificata soltanto in presenza di un notevole inadempimento degli obblighi contrattuali (L. n. 604 del 1966, art. 3) ovvero addirittura tale da non consentire la prosecuzione neppure provvisoria del rapporto (art. 2119 c.c.), (cfr. Cass. 28.5.2019 n. 14504, con richiamo a Cass. 18715 del 2016; Cass. n. 21965 del 2007; Cass., n. 25743 del 2007); in sostanza: in materia disciplinare, non è vincolante la tipizzazione contenuta nella contrattazione collettiva ai fini dell’apprezzamento della giusta causa di recesso, rientrando il giudizio di gravità e proporzionalità della condotta nell’attività sussuntiva e valutativa del giudice, purché vengano valorizzati elementi concreti, di natura oggettiva e soggettiva, della fattispecie, coerenti con la scala valoriale del contratto collettivo, oltre che con i principi radicati nella coscienza sociale, idonei a ledere irreparabilmente il vincolo fiduciario (cfr., Cass. 7.11.2018 n. 28492, 9396/2018, Cass. 27238/2018);
4.3. tali principi sono stati riaffermati, da ultimo, da Cass. 16.7.2019 n. 19023, che ha evidenziato come l’elencazione delle ipotesi di giusta causa di licenziamento contenuta nei contratti collettivi ha, al contrario che per le sanzioni disciplinari con effetto conservativo, valenza meramente esemplificativa, sicché non preclude un’autonoma valutazione del giudice di merito in ordine alla idoneità di un grave inadempimento o di un grave comportamento del lavoratore, contrario alle norme della comune etica o del comune vivere civile, a far venire meno il rapporto fiduciario tra datore di lavoro e lavoratore (cfr., in termini, Cass. n. 27004 del 2018 ed ivi le richiamate Cass. n. 14321 del 2017; Cass. n. 2830 del 2016 e Cass. n. 9223 del 2015); ne consegue che il giudice chiamato a verificare l’esistenza della giusta causa o del giustificato motivo soggettivo di licenziamento incontra solo il limite che non può essere irrogato un licenziamento per giusta causa quando questo costituisca una sanzione più grave di quella prevista dal contratto collettivo in relazione ad una determinata infrazione (id est: alla condotta contestata al lavoratore) (oltre Cass. n. 27004 del 2018 e Cass. n. 14321 del 2017 citate anche Cass. n. 6165 del 2016 e n. 19053 del 7 RG 25016/2018 2005). Ne discende che il giudice deve verificare la condotta, in tutti gli aspetti soggettivi ed oggettivi che la compongono, anche al di là della fattispecie contrattuale prevista (Cass. n. 27004 del 2018, in motivazione, p. 7.5.); i medesimi principi risultano ribaditi, da ultimo, da Cass. 23.5.2019, nn. 14062 e 14063, laddove è stato affermato che le tipizzazioni delle fattispecie previste dal contratto collettivo nell’individuazione delle condotte costituenti giusta causa di recesso non sono vincolanti per il giudice, ma la scala valoriale formulata dalle parti sociali deve costituire uno dei parametri cui occorre fare riferimento per riempire di contenuto la clausola generale dell’art. 2119 c.c. e che “con la predisposizione del codice disciplinare, sebbene di solito in modo generico e meramente esemplificativo, l’autonomia collettiva individua infatti il limite di tollerabilità e la soglia di gravità delle violazioni degli artt. 2104 e 2105 c.c., in quel determinato momento storico ed in quel contesto aziendale”. In tal senso, le parti ben potranno sottoporre il risultato della valutazione cui è pervenuto il giudice di merito all’esame di questa Corte sotto il profilo della violazione del parametro integrativo della clausola generale costituito dalle previsioni del codice disciplinare” (cfr. Cass. 1463/2019 cit.);
4.4. coordinando e calibrando la portata di tali principi generali con la peculiarità della fattispecie in esame ed avuto riguardo alla posizione dirigenziale ricoperta dal C., si ritiene che la censura articolata con il primo motivo, più che censurare la valenza disciplinare del contegno addebitato al predetto, mira in realtà a considerare atomisticamente l’ultimo punto della contestazione, ciò che rifluisce in una valutazione di puro merito e non muta i termini giuridici della questione, che risultano essere stati correttamente intesi dalla Corte del merito;
5. il secondo motivo è connesso a quello precedente e comunque con lo stesso non si contesta che l’impegno del dirigente fosse stato assunto in conformità a quanto richiesto dalla società, ciò che denota la correttezza della ritenuta irrilevanza ed inammissibilità della prova richiesta, coerente con la ricostruzione in fatto operata in sentenza;
6. alla stregua delle esposte considerazioni il ricorso deve essere respinto;
7. le spese seguono la soccombenza del ricorrente e si liquidano come in dispositivo;
8. sussistono per il ricorrente le condizioni di cui al D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater.
PQM
la Corte rigetta il ricorso; condanna il ricorrente al pagamento delle spese del presente giudizio, liquidate in Euro 200,00 per esborsi e in Euro 8000,00 per compensi professionali, oltre accessori come per legge, nonché al rimborso delle spese generali in misura del 15%.
Ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma del citato D.P.R., art. 13, comma 1 bis, ove dovuto.
Così deciso in Roma, nell’adunanza camerale, il 26 gennaio 2021.
Depositato in Cancelleria il 5 novembre 2021
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