Corte di Cassazione, sez. VI Civile, Ordinanza n.33121 del 10/11/2021

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LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SESTA CIVILE

SOTTOSEZIONE L

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. LEONE Margherita Maria – Presidente –

Dott. MARCHESE Gabriella – Consigliere –

Dott. BUFFA Francesco – Consigliere –

Dott. BOGHETICH Elena – rel. Consigliere –

Dott. DE FELICE Alfonsina – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 11211-2020 proposto da:

TIM SPA, in persona del procuratore pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, VIA ARCIONE N. 71, presso lo studio dell’avvocato STEFANO D’ERCOLE, che la rappresenta e difende unitamente all’avvocato NICOLA PALOMBI;

– ricorrente –

contro

P.I., elettivamente domiciliata in ROMA, VIALE DELLE MILIZIE 9, presso lo studio dell’avvocato ENRICO LUBERTO, rappresentata e difesa dall’avvocato ANDREA CONTE;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 139/2019 della CORTE D’APPELLO di FIRENZE, depositata il 3/09/2019;

udita la relazione della causa svolta nella Camera di consiglio non partecipata del 17/06/2021 dal Consigliere Relatore Dott. ELENA BOGHETICH.

RILEVATO

che:

1. Con sentenza n. 139 del 3.9.2019 la Corte d’appello di Firenze ha confermato la sentenza del Tribunale della medesima sede che aveva accolto la domanda proposta da P.I., dipendente della società TIM s.p.a., per l’accertamento del diritto all’inquadramento nella superiore VII qualifica con decorrenza da maggio 2012 e la condanna al pagamento delle differenze retributive, oltre accessori di legge.

2. La Corte ha, dapprima, rilevato che la società non aveva (in primo grado) mosso alcuna specifica contestazione alla descrizione, particolarmente analitica, contenuta nel ricorso introduttivo del giudizio, delle mansioni svolte, delle loro caratteristiche e modalità di esecuzione, sicché la questione atteneva esclusivamente alla riconducibilità delle attività descritte (e dedotte quali mansioni esclusive) alla professionalità rivendicata; in secondo luogo, ritenuto che le suddette mansioni dovevano ritenersi comprese nella previsione, di cui alla declaratoria negoziale della VII qualifica, che concerneva “contributi professionali a carattere progettuale-innovativo di particolare complessità ed alta specializzazione” ha confermato la pronuncia di primo grado.

3. Per la cassazione della sentenza propone ricorso la società con due motivi. Resiste la lavoratrice con controricorso. Entrambi le parti hanno depositato memoria.

4. La proposta del relatore è stata comunicata alle parti, unitamente al decreto di fissazione dell’udienza, ai sensi dell’art. 380 bis c.p.c..

CONSIDERATO

che:

1. Con il primo motivo la società ricorrente denuncia violazione dell’art. 23 CCNL Telecomunicazioni, degli artt. 1362,2103 e 2697 c.c. (in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3), avendo la Corte territoriale effettuato una errata interpretazione della disposizione contrattuale relativa alla classificazione del personale come reso evidente dalla ricognizione delle mansioni effettivamente svolte dalla P., che in realtà si è sempre limitata ad affiancare la sig.ra T. nella stesura dei progetti di risparmio energetico delle reti, svolgendo dunque attività perfettamente corrispondenti al livello assegnato, posto che, inoltre, le unità operative in cui aveva lavorato erano sempre state gestite da un dirigente; la Corte territoriale ha trascurato che la P. non era dotata di particolare autonomia nello svolgimento delle sue mansioni ed ha fatto confusione tra i titoli posseduti dalla lavoratrice e le mansioni effettivamente svolte; inoltre, la società aveva contestato gli elementi fattuali dedotti nel ricorso giudiziale depositato dalla lavoratrice.

2. Con il secondo motivo si denunzia violazione dell’art. 2697 c.c. (in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3), avendo la Corte territoriale ritenuto raggiunta la prova dei fatti dedotti in giudizio escludendo le istanze istruttorie articolate dalla società.

3. I motivi, che possono essere trattati congiuntamente in quanto connessi, appaiono inammissibili in quanto si sostanziano, anche laddove denunciano la violazione di norme di diritto, in un vizio di motivazione formulato in modo non coerente allo schema legale del nuovo art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, applicabile ratione temporis alla fattispecie in esame.

Come più volte precisato da questa Corte, il vizio di violazione di legge coincide con l’errore interpretativo, cioè con l’erronea individuazione della norma regolatrice della fattispecie o con la comprensione errata della sua portata precettiva; la falsa applicazione di norme di diritto ricorre quando la disposizione normativa, interpretata correttamente, sia applicata ad una fattispecie concreta in essa erroneamente sussunta. Al contrario, l’erronea ricognizione della fattispecie concreta a mezzo delle risultanze di causa è esterna all’interpretazione della norma e inerisce alla tipica valutazione del giudice di merito, la cui censura è possibile, in sede di legittimità, solo sotto l’aspetto del vizio di motivazione (cfr. Cass. n. 26272 del 2017; Cass. n. 9217 del 2016; Cass. n. 195 del 2016; Cass. n. 26110 del 2015; n. 26307 del 2014). Solo quest’ultima censura è mediata dalla contestata valutazione delle risultanze di causa.

4. Nel caso di specie, le censure investono tutte la valutazione delle prove come operata dalla Corte di merito, e si sostanziano, attraverso il richiamo al contenuto del ricorso introduttivo del giudizio (ove vi era la descrizione analitica delle mansioni svolte) e dei documenti prodotti, in una richiesta di rivisitazione del materiale istruttorio (quanto al grado di autonomia e di responsabilità posseduto dalla lavoratrice nello svolgimento delle mansioni) non consentita in questa sede di legittimità, a maggior ragione in virtù del nuovo testo dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, e vieppiù in caso di impugnativa di pronuncia c.d. doppia conforme.

5. Inoltre, con riguardo alla censura relativa alla mancata prova dei fatti, la stessa è prospettata con modalità non conformi al principio di specificità dei motivi di ricorso per cassazione, secondo cui parte ricorrente avrebbe dovuto, quantomeno, trascrivere nel ricorso il contenuto della memoria difensiva di primo grado e di appello ove si contestava “in maniera specifica” i fatti dedotti nel ricorso introduttivo del giudizio, fornendo al contempo alla Corte elementi sicuri per consentirne l’individuazione e il reperimento negli atti processuali, potendosi solo così ritenere assolto il duplice onere, rispettivamente previsto a presidio del suddetto principio dall’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 6, e dall’art. 369 c.p.c., comma 2, n. 4, (Cass. SU n. 5698 del 2012; Cass. SU n. 22726 del 2011; da ultimo, Cass. n. 10992 del 2020).

6. Da ultimo, la violazione dell’art. 2697 c.c., è censurabile per cassazione ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, soltanto nell’ipotesi in cui il giudice abbia attribuito l’onere della prova ad una parte diversa da quella che ne fosse onerata secondo le regole di scomposizione delle fattispecie basate sulla differenza tra fatti costitutivi ed eccezioni e non invece laddove oggetto di censura sia la valutazione che il giudice abbia svolto delle prove proposte dalle parti (Cass. n. 15107 del 2013; Cass. n. 13395 del 2018), mentre nella sentenza impugnata non è in alcun modo ravvisabile un sovvertimento dell’onere probatorio, che la Corte territoriale ha ritenuto interamente gravante sulla lavoratrice ma assolto a seguito dell’applicazione del principio di non contestazione dei fatti specificamente ed analiticamente allegati nel ricorso introduttivo del giudizio.

7. In conclusione, il ricorso va dichiarato inammissibile e le spese di lite seguono il criterio della soccombenza dettato dall’art. 91 c.p.c..

8. Sussistono i presupposti processuali per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato previsto dal D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1-quater, introdotto dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17 (legge di stabilità 2013) pari a quello – ove dovuto – per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis.

PQM

La Corte dichiara inammissibile il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di legittimità, che liquida in complessivi Euro 3.000,00 per compensi professionali, oltre ad Euro 200,00 per esborsi, rimborso delle spese generali nella misura del 15% ed accessori di legge.

Ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1-quater, nel testo introdotto dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello previsto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis, se dovuto.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Sesta Sezione civile della Corte di cassazione, il 17 giugno 2021.

Depositato in Cancelleria il 10 novembre 2021

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