LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE LAVORO
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. MANNA Antonio – Presidente –
Dott. NEGRI DELLA TORRE Paolo – Consigliere –
Dott. MAROTTA Caterina – rel. Consigliere –
Dott. TRICOMI Irene – Consigliere –
Dott. SPENA Francesca – Consigliere –
ha pronunciato la seguente:
ORDINANZA
sul ricorso 1385-2015 proposto da:
M.P.S., + ALTRI OMESSI, tutti elettivamente domiciliati in ROMA, VIA CAIO MARIO n. 8, presso lo studio dell’avvocato GIANDOMENICO CONDELLO, rappresentati e difesi dall’avvocato GIUSEPPE MONTALBANO;
– ricorrenti –
contro
AZIENDA SANITARIA PROVINCIALE DI AGRIGENTO, in persona del legale rappresentante pro tempore elettivamente domiciliata in ROMA, VIA GERMANICO N. 101 presso lo studio dell’avvocato ANTONIO IELO, rappresentata e difesa dagli avvocati PIETRO DE LUCA, DOMENICO CANTAVENERA;
– controricorrente –
avverso la sentenza n. 859/2014 della CORTE D’APPELLO di PALERMO, depositata il 07/07/2014 R.G.N. 8/2014;
udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del 15/07/2021 dal Consigliere Dott. MAROTTA CATERINA.
RILEVATO IN FATTO
che:
1. la Corte d’Appello di Palermo, con sentenza n. 859/2014, in parziale riforma delle pronunce di primo grado, tutte emesse dal Tribunale di Sciacca che, decidendo sulle domande originariamente proposte nei confronti della Azienda Sanitaria Provinciale di Palermo, tra gli altri, dagli odierni ricorrenti ( M.S.P. e altri dodici dipendenti con mansioni di ausiliario specializzato servizi socio-sanitari, cat. A del c.c.n.l. per il personale del Servizio Sanitario Nazionale) aveva ritenuto illegittima la reiterazione dei contratti a termine stipulati da ciascuno di essi, respinto le richieste di conversione dei rapporti in rapporti a tempo indeterminato, riconosciuto il risarcimento del danno per l’abusivo ricorso ai contratti a termine – rigettava interamente le domande originariamente proposte;
2. la Corte territoriale, previamente, richiamava il D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 36, la direttiva n. 70/1999/CE e la relativa giurisprudenza comunitaria sull’applicabilità della stessa e sulla sanzione dell’abusivo ricorso al contratto a termine;
sottolineava che tale giurisprudenza non impone allo Stato membro l’obbligo di prevedere la conversione del rapporto quale sanzione per l’abusivo ricorso al contratto a termine, ma rimette alla normativa interna le misure adeguate a sanzionare tale abuso;
rilevava che il D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 36, era stato considerato sufficientemente dissuasivo a garantire la piena attuazione dell’accordo quadro;
evidenziava che, stante il D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 36, in materia di impiego pubblico contrattualizzato non fosse possibile convertire il rapporto a tempo indeterminato ma che, nel rispetto della clausola 5 dell’accordo, fosse previsto per il lavoratore il risarcimento del danno da reiterato abuso del contratto a termine;
osservava che, pur tenendo conto del difficile onere probatorio gravante sul lavoratore, la sanzione risarcitoria non potesse considerarsi conseguenza automatica dell’illegittimo ricorso al contratto a termine;
considerava erronea l’interpretazione data dalla Corte di Cassazione con sent. n. 19371 del 2013 in ordine all’applicazione della L. n. 183 del 2010, art. 32, ai fini risarcitori in quanto in contrasto con il dato letterale della norma citata, la quale prevede un’indennità forfettizzata (quale forma di risarcimento) solo per i casi di conversione del contratto a tempo determinato;
evidenziava che, esclusa la possibilità di conversione del rapporto, il risarcimento non potesse essere il frutto di un danno in re ipsa, essendo invece necessaria la prova di un effettivo danno prodotto dall’illegittimo comportamento della PA;
riteneva che di tale prova fosse onerato il lavoratore e, richiamata sul punto l’ordinanza della Corte di Giustizia (Papalia) del 12 dicembre 2013, osservava che nel caso de quo i lavoratori non avessero fornito alcuna allegazione e/o prova, nemmeno presuntiva, limitandosi a generiche affermazioni;
3. ricorrono per la cassazione della sentenza i dipendenti indicati in epigrafe con due motivi di ricorso;
4. l’Azienda Sanitaria Provinciale di Agrigento ha proposto difesa con regolare controricorso successivamente illustrato da memoria.
CONSIDERATO IN DIRITTO
che:
1. con il primo motivo i ricorrenti denunciano error in iudicando, ex art. 360 c.p.c., n. 5, per omesso esame circa un fatto decisivo del giudizio per non avere il Giudice del gravame valutato l’inammissibilità della eccezione/domanda nuova sull’onere della prova del risarcimento danni omessa in primo grado e proposta per la prima volta dall’appellante in grado di appello;
lamentano la mancata considerazione da parte del Giudice territoriale dell’inammissibilità di un’eccezione proposta solo in grado di appello e quindi in violazione dell’art. 345 c.p.c., sui nova di appello, che riguardano tanto le domande quanto le eccezioni;
sostengono che in primo grado l’Azienda nulla aveva eccepito sul risarcimento del danno e sul relativo onere della prova e che quindi sulla questione sarebbe maturata una preclusione della domanda;
2. con il secondo motivo i ricorrenti lamentano error in iudicando, ex art. 360, n. 3 per violazione e falsa applicazione di norme di diritto con riferimento al D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 36 e la Direttiva UE n. 1999/70 CEE, la cui clausola 5, nell’imporre allo Stato membro l’adozione di misure preventive e sanzionatorie contro la reiterazione dei contratti a tempo determinato, ancora inattuate, rimanda e consente al giudice di rinvio di valutare e riconoscere la misura della sanzione proprio per la mancata previsione e attuazione del legislatore italiano di un adeguato sistema sanzionatorio;
rilevano una contraddizione della stessa sentenza ove si rifà alla giurisprudenza interna e comunitaria sul risarcimento del danno per poi discostarsene in punto di conclusioni, facendo leva sull’onere della prova allorquando proprio i riferimenti richiamati dalla stessa Corte conducevano ad un diverso criterio di riconoscimento del danno;
richiamano la giurisprudenza comunitaria sul risarcimento del danno e qualificano il danno come danno in re ipsa;
3. il primo motivo deve essere respinto per l’assorbente rilievo che addurre l’altrui mancato rispetto dell’onere della prova non integra né una domanda né un’eccezione (in senso stretto o in senso lato), ma una mera difesa, in quanto tale estranea al divieto di nova di cui agli artt. 345 e 437 c.p.c. (v., tra le più recenti, Cass. 1 ottobre 2018, n. 23796; Cass. 28 maggio 2019, n. 14515);
4. il secondo motivo è fondato;
4.1. si discute nella specie (pag. 3 del ricorso) di reiterati contratti a tempo determinato, stipulati da ciascun ricorrente, per i quali il giudice di primo grado ha ritenuto l’insussistenza delle ragioni giustificatrici del termine;
4.2. in una situazione del genere, la Corte territoriale, nell’affermare che il danno deve essere provato dal soggetto che assume di averlo subito e che in nessun caso può essere ritenuto in re ipsa, si è discostata dal principio di diritto affermato dalle Sezioni Unite di questa Corte secondo cui “in materia di pubblico impiego privatizzato, nell’ipotesi di abusiva reiterazione di contratti a termine, la misura risarcitoria prevista dal D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 36, comma 5, va interpretata in conformità al canone di effettività della tutela affermato dalla Corte di Giustizia UE (ordinanza 12 dicembre 2013, in C50/13), sicché, mentre va escluso – siccome incongruo – il ricorso ai criteri previsti per il licenziamento illegittimo, può farsi riferimento alla fattispecie omogenea di cui alla L. n. 183 del 2010, art. 32, comma 5, quale danno presunto, con valenza sanzionatoria e qualificabile come “danno comunitario”, determinato tra un minimo ed un massimo, salva la prova del maggior pregiudizio sofferto, senza che ne derivi una posizione di favore del lavoratore privato rispetto al dipendente pubblico, atteso che, per il primo, l’indennità forfetizzata limita il danno risarcibile, per il secondo, invece, agevola l’onere probatorio del danno subito” (Cass., S.U., n. 5072/2016);
con la richiamata pronuncia, alla quale le stesse Sezioni Unite hanno dato continuità con la successiva sentenza n. 19165/2017, si è in sintesi osservato che, ove venga in rilievo la clausola 5 dell’accordo quadro allegato alla direttiva 1999/70/CE, il diritto dell’Unione non impone la conversione del rapporto a termine in contratto a tempo indeterminato, giacché può costituire una misura adeguata anche il risarcimento del danno;
4.3. nell’impiego pubblico contrattualizzato, poiché la conversione è impedita dal D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 36, attuativo del precetto costituzionale dettato dall’art. 97 Cost., il danno risarcibile, derivante dalla prestazione in violazione di disposizioni imperative riguardanti l’assunzione o l’impiego di lavoratori da parte della P.A, consiste di norma nella perdita di chance di un’occupazione alternativa migliore, con onere della prova a carico del lavoratore, ai sensi dell’art. 1223 c.c.;
peraltro, poiché la prova di detto danno non sempre è agevole, è necessario fare ricorso ad un’interpretazione orientata alla compatibilità comunitaria, che secondo la giurisprudenza della Corte di giustizia richiede un’adeguata reazione dell’ordinamento volta ad assicurare effettività alla tutela del lavoratore, affinché quest’ultimo non sia gravato da un onere probatorio difficile da assolvere;
4.4. sulla questione qui controversa e’, poi, recentemente intervenuta la Corte di Lussemburgo che, chiamata a pronunciare sulla conformità al diritto dell’Unione, del D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 36, come interpretato dalle Sezioni Unite di questa Corte, ha evidenziato che “la clausola 5 dell’accordo quadro dev’essere interpretata nel senso che essa non osta a una normativa nazionale che, da un lato, non sanziona il ricorso abusivo, da parte di un datore di lavoro rientrante nel settore pubblico, a una successione di contratti a tempo determinato mediante il versamento, al lavoratore interessato, di un’indennità volta a compensare la mancata trasformazione del rapporto di lavoro a tempo determinato in un rapporto di lavoro a tempo indeterminato bensì, dall’altro, prevede la concessione di un’indennità compresa tra 2,5 e 12 mensilità dell’ultima retribuzione di detto lavoratore, accompagnata dalla possibilità, per quest’ultimo, di ottenere il risarcimento integrale del danno” anche facendo ricorso, quanto alla prova, a presunzioni (Corte di Giustizia 7.3.2018 in causa C – 494/16 Santoro);
5. nel caso di specie la Corte territoriale ha errato nel respingere la domanda risarcitoria perché non provata, finendo in tal modo per lasciare privo di sanzione l’abuso;
6. la sentenza impugnata va, pertanto, cassata con rinvio alla Corte territoriale indicata in dispositivo che procederà ad un nuovo esame, attenendosi al principio di diritto enunciato nei punti che precedono e provvedendo anche sulle spese del giudizio di legittimità;
7. non sussistono le condizioni di cui al D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater.
P.Q.M.
La Corte accoglie il secondo motivo di ricorso e rigetta il primo; cassa la sentenza impugnata in relazione al motivo accolto e rinvia, anche per le spese, alla Corte d’appello di Palermo in diversa composizione.
Così deciso in Roma, nella Adunanza Camerale, il 15 luglio 2021.
Depositato in Cancelleria il 11 novembre 2021
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