Corte di Cassazione, sez. II Civile, Ordinanza n.33448 del 11/11/2021

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LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SECONDA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. MANNA Felice – Presidente –

Dott. CARRATO Aldo – rel. Consigliere –

Dott. PICARONI Elisa – Consigliere –

Dott. GRASSO Giuseppe – Consigliere –

Dott. CASADONTE Annamaria – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso (iscritto al N.R.G. 17537/2016) proposto da:

L.F., (C.F.: *****) e S.D., (C.F.:

*****), rappresentati e difesi, in virtù di procura speciale in calce al ricorso, dagli Avv.ti Claudio Michelon, e Nicola Di Pierro, ed elettivamente domiciliati presso lo studio del secondo, in Roma, via Tagliamento, n. 55;

– ricorrenti –

contro

R.S., (C.F.: *****), e Z.G., (C.F.:

*****), rappresentati e difesi, in virtù di procura speciale materialmente allegata al controricorso, dall’Avv.ti Simone Perazzolo e domiciliati “ex lege” presso la Cancelleria civile della Corte di cassazione, in Roma, Piazza Cavour;

– controricorrenti –

avverso la sentenza della Corte di appello di Venezia n. 1557/2015 (pubblicata il 17 giugno 2015);

udita la relazione della causa svolta nella Camera di consiglio del 15 aprile 2021 dal Consigliere relatore Dott. Aldo Carrato;

letta la memoria depositata dalla difesa dei ricorrenti ai sensi dell’art. 380-bis.1 c.p.c..

RITENUTO IN FATTO

1. Con atto di citazione notificato nell’ottobre 2001, i coniugi L.L. e S.D. convenivano in giudizio, dinanzi al Tribunale di Padova, i coniugi R.S. e Z.G., esponendo: – di aver sottoscritto, in data 23 ottobre 1998, un contratto preliminare con i convenuti in cui essi si impegnavano ad acquistare una porzione di un immobile quadrifamilare a schiera, sito in *****, facente parte della lottizzazione “*****” di v. *****; – che, non essendo il fondo edificato, R.S. aveva dichiarato, nell’art. 6 di detto contratto, che i lavori sarebbero iniziati entro e non oltre il 31 marzo 1999; – che, con lo stesso art. 6, si era stabilito che il termine massimo per la consegna della suddetta porzione immobiliare era di sei mesi dalla data di inizio dei lavori, onde il termine finale sarebbe venuto a scadenza il 30 settembre 1999; – che, avvenuto nelle more il trasferimento della proprietà del terreno ad essi attori, il contratto si era trasformato in appalto in cui lo stesso R. e la moglie Z.G. erano venuti ad acquisire la qualità di meri appaltatori; – che, non essendo stati ultimati molti dei lavori alla data del 17 gennaio 2000, essi attori avevano assunto l’obbligo di ultimarli entro e non oltre il 30 aprile 2000, con la previsione del riconoscimento, in favore delle parti acquirenti, in caso di inosservanza di tale termine, della somma giornaliera di Lire 500.000 a decorrere dal 1 maggio 2000, quale risarcimento per i danni causati da ritardi, che si erano protratti per sette mesi; – che, nel frattempo, avevano ceduto la proprietà del bene in costruzione; – che, con missiva del 19 aprile 2001, avevano contestato la mancata ultimazione dell’immobile e, con ulteriore missiva successiva del 29 maggio 2001, avevano comunicato di considerare sciolto il contratto, chiedendo la restituzione dei versamenti effettuati ed il pagamento della penale pattuita, richiesta respinta dagli indicati convenuti.

Tanto premesso, essi attori invocavano la dichiarazione di risoluzione del predetto contratto con la condanna dei convenuti al pagamento della somma di Lire 500.000. (prevista a titolo di penale) dal giorno 30 settembre 1999 al 30 aprile 2000 (data di effettiva ultimazione dei lavori), e, quindi, del complessivo importo di Lire 288.500.000 o la diversa, maggiore o minore, somma ritenuta di giustizia, con compensazione di detta somma con eventuali crediti degli stessi convenuti.

Questi ultimi si costituivano in giudizio, contestando la domanda attrice e sostenendo che, poiché il contratto preliminare doveva ancora considerarsi efficace, essi non erano incorsi in alcun ritardo rispetto al termine pattuito con la scrittura conclusa il 17 gennaio 2020, eccependo, in ogni caso, il difetto di legittimazione attiva degli attori per aver essi rivenduto l’immobile a terzi. Perciò, concludevano per il rigetto della domanda e, in ipotesi di suo accoglimento, per la riduzione della penale ai sensi dell’art. 1384 c.c.. Inoltre, essi chiedevano, in via riconvenzionale, la condanna in solido degli attori al pagamento della somma di Lire 35.000.000, dovuta a saldo del prezzo in origine concordato, oltre che dell’importo di Lire 26.700.000, a titolo di corrispettivo per opere extracontratto realizzate in favore degli attori e per oneri e pratiche amministrative, come da varianti in atti.

L’adito Tribunale, con sentenza n. 3229/2009, condannava R.S. e Z.G. al pagamento, in favore degli attori, della somma di Euro 62.387,99, con gli interessi legali dal 31 maggio 2001 al saldo, compensando per metà le spese giudiziali e ponendo a carico delle parti convenute la residua metà oltre alle spese di c.t.u..

2. Decidendo sull’appello formulato da R.S. e Z.G. e nella costituzione di entrambi gli appellati, la Corte di appello di Venezia, con sentenza n. 1557/2015 (pubblicata il 17 giugno 2015), accoglieva per quanto di ragione il gravame ed in parziale riforma dell’impugnata decisione dichiarava tenuti e condannava L.L. e S.D., in solido, a pagare, in favore degli appellanti, la somma di Euro 23.465,39, oltre interessi legali dal 15 novembre 2001, dichiarando compensate tra le parti le spese del doppio grado di giudizio nella misura di un terzo e condannando gli appellati al pagamento dei residui due terzi.

A fondamento dell’adottata pronuncia, la Corte veneta riteneva, innanzitutto, l’infondatezza del primo motivo sull’asserita carenza di legittimazione ad agire dei due appellanti per avere gli stessi venduto l’immobile oggetto del contratto a terzi, siccome superata dalla sopravvenuta conversione del contratto in quello di appalto, come ritenuta dal giudice di primo grado con statuizione da ritenersi coperta dal giudicato, a mezzo della quale era stato chiarito che per la stipulazione di un contratto di appalto non è necessaria la qualità di proprietario del fondo sul quale devono essere realizzate le opere, trattandosi di un contratto che può legittimamente intercorrere anche con persone diverse.

Il giudice di appello considerava infondata anche la seconda censura degli appellanti con la quale avevano contestato la sentenza impugnata nella parte in cui il Tribunale aveva ritenuto sussistente il ritardo nell’ultimazione delle opere, dovendosi, invece, ritenere che dalle risultanze istruttorie era emerso che l’esecuzione delle opere previste dalla scrittura del 17 gennaio 2000 non era stata terminata nel termine pattuito.

La Corte di appello ravvisava la fondatezza, seppure parzialmente, del terzo motivo di gravame e, dato atto della pacifica entità del ritardo, riteneva che, effettivamente, sussistevano i presupposti per pervenire alla riduzione della penale complessivamente applicata siccome manifestamente eccessiva e rapportandola, mensilmente, a quella di Euro 700,00 per ogni mese di ritardo (correlando tale importo a quello del canone di locazione di un immobile del tipo di quello oggetto di causa), rideterminava la penale nella sua misura globale nella ridotta somma di Euro 8.400,00; pertanto, tenuto conto che con la decisione di prime cure il residuo credito della parte appaltatrice era stato computato nell’ordine di Euro 31.865,39, e procedendosi alla compensazione tra i due reciproci crediti, residuava in favore degli appellanti l’importo di Euro 23.465,39 (oltre interessi legali), al cui pagamento, quindi, venivano condannate le parti appellate.

3. Contro la sentenza di appello hanno proposto ricorso per cassazione, affidato a cinque motivi, L.L. e S.D., resistito con un unico controricorso da entrambi gli intimati R.S. e Z.G..

La difesa dei ricorrenti ha anche depositato memoria ai sensi dell’art. 380-bis.1 c.p.c..

CONSIDERATO IN DIRITTO

1. Con il primo motivo i ricorrenti denunciano – ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5 – l’omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti, avuto riguardo alla mancata valutazione della natura transattiva dell’accordo del 17 gennaio 2000 e della natura di risarcimento del danno già patito dai ricorrenti di quella che risultava genericamente definita “penale”.

2. Con la seconda censura i ricorrenti deducono – in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3 – la violazione e falsa applicazione degli artt. 1384 e 2697 c.c., lamentando l’erroneità dell’impugnata sentenza nella parte in cui la Corte veneta aveva esercitato d’ufficio la riduzione della penale senza che le controparti avessero assolto rigorosamente all’obbligo di provare gli elementi sulla cui scorta si sarebbe potuto legittimamente addivenire a tale riduzione.

3. Con il terzo mezzo i ricorrenti prospettano – con riferimento all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3 – la violazione e/o falsa applicazione dell’art. 2697 c.c., sul presupposto che, pur avendo il giudice di appello rilevato che i sigg. L. – S. avrebbero dovuto provare il fondamento della penale, era stato lo stesso giudice a liquidarla d’ufficio, in via apparentemente equitativa, ponendo riferimento al costo ipotetico di una locazione di un immobile per il periodo riferibile al ritardo accertato nella consegna.

4. Con il quarto motivo i ricorrenti denunciano – ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5 – l’omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che era stato oggetto di discussione tra le parti, sotto il profilo della mancata considerazione delle pronunce e motivazioni del giudice di primo grado e della stessa Corte di appello in sede di inibitoria, nel senso che a fronte della misura della penale liquidata in primo grado per Euro 62.387,99, la Corte di appello l’aveva ridotta fino al limite di Euro 35.000 in sede di adozione del provvedimento di cui all’art. 351 c.p.c., per poi riconoscere in sentenza l’importo, di molto inferiore, di Euro 8.400,00.

5. Con il quinto ed ultimo mezzo i ricorrenti deducono – ancora una volta ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5 – l’omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che era stato oggetto di discussione tra le parti, avuto riguardo al punto fondamentale dell’interesse del creditore all’esecuzione del contratto, nel caso di specie da ritenersi avente natura transattiva novativa.

6. Rileva il collegio che il primo motivo è inammissibile perché non può ritenersi configurabile il vizio di omesso esame di un fatto decisivo ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 5), con riferimento alla qualificazione di un contratto e alla interpretazione di una clausola di preventiva determinazione della misura del danno come previsione di una penale per il ritardo nell’adempimento, risultando, peraltro, irrilevante – e, a maggior ragione, non decisiva – a tal fine la natura giuridica dell’accordo (se avente valore di transazione novativa o meno) concluso tra le parti nella quale tale clausola era stata inserita.

7. La seconda censura è priva di fondamento dal momento che al di là della pacifica circostanza che l’esercizio del potere ex art. 1384 c.c. – sulla riduzione della penale manifestamente eccessiva – può avvenire anche d’ufficio (cfr., tra le tante, Cass. n. 9504/2010 e Cass. n. 34021/2019), va osservato che, in ogni caso, nella specie, i coniugi R. – Z. ne avevano contestato l’iniquità, per come dedotto in controricorso, laddove si riportano i testi sia della comparsa di risposta (contenente domanda riconvenzionale) che dell’atto di citazione in appello dal cui contenuto emerge inequivocamente la proposizione di tale richiesta, sostenendosi l’abnorme sproporzione della penale in concreto attribuita agli attori rispetto al valore dell’immobile, senza trascurare la circostanza dell’insussistenza di danni nei loro confronti (privati e non imprenditori), avendo essi trasferito, subito dopo la sottoscrizione della scrittura del 17 gennaio 2000, l’immobile oggetto delle opere in contestazione a terzi.

8. Anche la terza doglianza è infondata e va, quindi, rigettata.

Infatti, deve rilevarsi che, nell’applicazione dell’art. 1384 c.c., la Corte di appello non ha avallato un’inversione dell’onere della prova, ma – sul presupposto pacifico che non si trattava di porre a carico della parte a cui favore era stata prevista la penale la dimostrazione del danno subito per il ritardo – si è conformata al disposto di detto articolo al fine di valutare la sussistenza o meno della manifesta eccessività e, a tal fine, ha preso in considerazione l’interesse del creditore anche con riguardo al momento in cui la prestazione era stata tardivamente eseguita, sostenendone l’insussistenza alla stregua del fatto che gli odierni ricorrenti avevano nelle more ceduto a terzi l’immobile dedotto in giudizio senza ricevere conseguenze negative da questa sopravvenuta alienazione.

La Corte di appello si e’, perciò, conformata al principio secondo cui, in caso di riduzione giudiziale della penale convenzionalmente stabilita dalle parti, il giudice deve esplicitare le ragioni che lo hanno indotto a ritenerne eccessivo l’importo come originariamente determinato, soprattutto con riferimento alla valutazione dell’interesse del creditore all’adempimento alla data di stipulazione del contratto, tenendo conto dell’effettiva incidenza dell’adempimento sullo squilibrio delle prestazioni e sulla concreta situazione contrattuale, a prescindere da una rigida ed esclusiva correlazione con l’effettiva entità del danno subito (cfr., ad es., Cass. n. 21994/2012 e Cass. n. 17731/2015).

9. Il quarto motivo va ritenuto inammissibile non configurandosi certamente il vizio di omesso esame di fatto decisivo rispetto alla diversità di motivazioni attinenti nei vari gradi (e anche in sede di inibitoria) alla misura dell’eccessività della penale, avendo, comunque, la Corte di appello sufficientemente motivato sulla misura ritenuta equa e spiegato il parametro di riferimento preso in considerazione a tal riguardo, ovvero il canone di locazione di un immobile dello stesso tipo di quello oggetto di contratto, in difetto di deduzioni delle parti appellate di più specifiche e concrete esigenze conseguenti al ritardo nell’adempimento.

10. La quinta ed ultima censura è priva di fondamento avendo la Corte di appello evidenziato, con adeguata motivazione, che le parti appellate non avevano dedotto alcuna prova idonea a parametrare la misura della penale a conseguenze maggiormente dannose per loro, ponendosi in risalto, peraltro, come nello stesso motivo – in violazione del principio di necessaria specificità – non risultano indicati mezzi istruttori che avrebbero potuto offrire detta prova.

Il documento depositato dopo la notificazione del ricorso afferente ad una copia dell’avviso di rettifica dell’imposta invim è chiaramente inammissibile ai sensi dell’art. 372 c.p.c., dal momento che è riferito alla data del 26 gennaio 2001 e, quindi, avrebbe dovuto essere indicato (ai sensi dell’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 6)) ed allegato già al momento della proposizione del ricorso e, in ogni caso, esso non attiene né alla nullità della sentenza impugnata né all’ammissibilità del ricorso (cfr., ad es., Cass. n. 7515/2011 e Cass. n. 28999/2018).

11. In definitiva, il ricorso deve essere integralmente respinto, con la conseguente condanna dei soccombenti ricorrenti al pagamento, in solido, delle spese del presente giudizio, che si liquidano nei sensi di cui in dispositivo.

Infine, ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, occorre dare atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte dei ricorrenti, sempre con vincolo solidale, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis, se dovuto.

PQM

La Corte rigetta il ricorso e condanna i ricorrenti, in solido fra loro, al pagamento delle spese del presente giudizio, che si liquidano in complessivi Euro 4.300,00, di cui Euro 200,00 per esborsi, oltre contributo forfettario, iva e cpa nella misura e sulle voci come per legge.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte dei ricorrenti, in solido, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis, se dovuto.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Sezione Seconda Civile, il 15 aprile 2021.

Depositato in Cancelleria il 11 novembre 2021

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