LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE PRIMA CIVILE
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. DE CHIARA Carlo – Presidente –
Dott. DI MARZIO Mauro – rel. Consigliere –
Dott. NAZZICONE Loredana – Consigliere –
Dott. CAIAZZO Luigi – Consigliere –
Dott. SOLAINI Luca – Consigliere –
ha pronunciato la seguente:
ORDINANZA
sul ricorso 1579/2019 proposto da:
M.S.F., in proprio e nella qualità di socio e di amministratore della ***** s.r.l., elettivamente domiciliato in Roma, Via San Valentino n. 24, presso lo studio dell’avvocato Afeltra Roberto, che lo rappresenta e difende, giusta procura in calce al ricorso;
– ricorrente –
contro
Disney Enterprise Inc., già The Walt Disney Company, in persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in Roma, Piazza di Campitelli n. 3, presso lo studio dell’avvocato Colella Domenico Felice, che la rappresenta e difende unitamente agli avvocati Mazzaglia Giuseppe, Sanna Fabrizio, Orsingher Matteo, giusta procura speciale per Notaio R.D. dello Stato della California del 28.2.2019, munita di apostille il 1.3.201;
– controricorrente –
e sul ricorso successivo:
***** S.r.l., in persona dell’amministratore pro tempore, elettivamente domiciliata in Roma, Via San Valentino n. 24, presso lo studio dell’avvocato Afeltra Roberto, che la rappresenta e difende, giusta procura in calce al ricorso;
– ricorrente –
contro
Disney Enterprise Inc., già The Walt Disney Company, in persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in Roma, Piazza di Campitelli n. 3, presso lo studio dell’avvocato Colella Domenico Felice, che la rappresenta e difende unitamente agli avvocati Mazzaglia Giuseppe, Sanna Fabrizio, Orsingher Matteo, giusta procura speciale per Notaio R.D. dello Stato della California del 28.2.2019, munita di apostille il 1.3.2019;
– controricorrente –
avverso la sentenza n. 3174/2018 della CORTE D’APPELLO di MILANO, pubblicata il 28/06/2018;
udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del 17/09/2021 dal cons. DI MARZIO MAURO.
RILEVATO IN FATTO
CHE:
1. – ***** S.r.l. convenne in giudizio, nell’ottobre 1993, la Walt Disney Company per fare accertare che i film e i cartoni animati da essa creati fino al 1949 (tra i quali “Biancaneve e i sette nani” e “Salutos Amigos”) erano caduti in pubblico dominio quanto ad ogni forma di riproduzione visiva e allo sfruttamento editoriale e commerciale dei personaggi.
2. – La convenuta chiese il rigetto della domanda, rivendicando l’attuale titolarità dei propri diritti sui cartoni animati e i personaggi Walt Disney e, in via riconvenzionale, chiese di accertare la contraffazione dei propri marchi, la concorrenza sleale da parte di ***** S.r.l. e di inibire la prosecuzione degli illeciti.
3. – Nel giudizio intervenne volontariamente Martinenghi Italo (creditore e amministratore di ***** S.r.l.) che chiese l’accoglimento delle domande dell’attrice e, dopo l’interruzione del processo per il fallimento di quest’ultima e la riassunzione da parte dell’interveniente, il Tribunale rigettò le domande; accolse la domanda riconvenzionale di accertamento della perdurante titolarità dei diritti d’autore in capo alla Walt Disney; dichiarò improcedibili le altre domande proposte contro la fallita e rigettò quelle proposte contro il M.; condannò l’interveniente a una parte delle spese del giudizio.
4. – Il gravame proposto dal M., di cui la Walt Disney aveva eccepito l’inammissibilità, nella contumacia del Fallimento ***** S.r.l., fu dichiarato inammissibile dalla Corte d’appello di Milano, che, qualificato l’intervento dello stesso M. in primo grado come adesivo dipendente, ritenne che egli non fosse legittimato all’impugnazione.
5. – Il M. propose ricorso per cassazione per undici motivi, cui si oppose Walt Disney Enterprises Inc., mentre il Fallimento ***** S.r.l. non spiegò difese.
6. – Con sentenza del 17 giugno 2015, n. 12502, questa Corte respinse il primo motivo ed accolse il secondo, concernente la natura dell’intervento del M., assorbiti gli altri, osservando che “intervenendo nel processo di primo grado, il M. non si è limitato ad aderire alle domande della ***** (volte all’accertamento della decadenza dei diritti d’autore vantati da Walt Disney sulle opere cinematografiche e cortometraggi in quanto caduti in pubblico dominio) chiedendone l’accoglimento, ma ha proposto contro lo stesso convenuto autonome domande dipendenti dal titolo dedotto in giudizio e volte all’accertamento (anche) del proprio preuso su alcuni films, nonché alla condanna al risarcimento del danno da liquidare in separata sede, con richiesta di provvisionale. Quindi, il suo interesse all’intervento non si correla al mero bisogno di evitare i riflessi negativi indiretti di una pronuncia inter alios, ma alla tutela di una propria situazione soggettiva mediante la proposizione di domande che, seppure analoghe a quelle dell’attrice, costituiscono l’essenza stessa dell’intervento autonomo e litisconsortile… L’osservazione della Corte d’appello circa la mancata dimostrazione documentale del preuso da parte dell’interveniente avrebbe potuto giustificare una decisione negativa sulle domande, ma non la declaratoria di inammissibilità del gravame, avendo il M. agito per la tutela di un suo interesse autonomo e differenziato. Analogamente, l’obiezione della contro ricorrente, secondo cui la domanda dell’interveniente sarebbe stata formulata in modo del tutto generico, non è decisiva, dal momento che la sentenza impugnata ha dichiarato inammissibile il gravame in quanto meramente adesivo e non, invece, l’inammissibilità per genericità o tardività della domanda stessa”.
7. – Riassunto il giudizio da M.S.F., erede del medio tempore deceduto M. Italo, la Corte d’appello di Milano, pronunciando in sede di rinvio, nel contraddittorio con Disney Enterprises Inc., contumace ***** S.r.l. tornata in bonis, con sentenza del 28 giugno 2018, ha respinto l’appello e regolato le spese di lite, osservando quanto segue:
-) la sentenza delle Sezioni Unite penali 29 dicembre 2009, n. 49783, che aveva pronunciato nell’ambito di processi penali nati dall’imputazione di illecita duplicazione, ad opera di M.I. e M.S.F., di film Walt Disney, oltre ad ulteriori collegate fattispecie di reato, non dispiegava efficacia di giudicato in ordine alla circostanza che i film oggetto del contendere, film Walt Disney pubblicati tra il 1930 e il 1948, fossero caduti in pubblico dominio;
-) il diritto d’autore concernente detti film godeva della proroga di sei anni di cui al D.Lgs. luogotenenziale n. 440 del 1945, da aggiungere al termine trentennale previsto dalla L. n. 633 del 1941, nonché dell’estensione a settant’anni prevista dalla L. n. 52 del 1996, in quanto, alla data del 29 giugno 1995, non erano ancora trascorsi settant’anni dal termine a quo applicabile, e, a catena, della ulteriore protezione offerta dal D.Lgs. n. 154 del 1997;
-) per il periodo anteriore alla reviviscenza del diritto d’autore, in relazione al periodo in cui le opere in discorso risultavano legittimamente sfruttabili, occorreva nondimeno valutare se ed in che misura risultassero fondate le domande avanzate dall’interveniente M.I.;
-) quest’ultimo non vantava alcun diritto al risarcimento del danno per il pregiudizio ipoteticamente arrecato alla società originaria attrice, ***** S.r.l., né a partecipare, in veste di “consociato” ai proventi derivanti dal fatturato realizzato dalla Disney attraverso la commercializzazione dei film, evidente essendo che l’affermazione delle Sezioni Unite penali, secondo cui la caduta in pubblico dominio dell’opera fa sorgere “in capo a tutti consociati il diritto di sfruttamento economico della stessa”, doveva essere intesa non come indicativa dell’instaurazione di un rapporto associativo M.-Walt Disney, bensì come riferita alla generalità degli operatori economici, che, in forza della caduta in pubblico dominio possono sfruttare liberamente le opere altrimenti protette;
-) la mancata commercializzazione delle videocassette sequestrate non era addebitabile alla Disney, ma ad un sequestro proveniente dall’autorità giudiziaria, così come non erano addebitabili alla Disney le ipotetiche ripercussioni sulla reputazione dei M., dovute ad articoli giornalistici concernenti la vicenda.
8. – Per la cassazione della sentenza M.S.F. propone ricorso per sei mezzi.
Separato ricorso per tre mezzi propone ***** S.r.l..
The Walt Disney Disney Enterprises Inc. resiste con controricorso. M. e controricorrente depositano memoria.
CONSIDERATO IN DIRITTO
CHE:
9. – Il ricorrente M.S.F. ha così sintetizzato i propri motivi:
Primo Motivo: Violazione dell’art. 105 c.p.c.. laddove la sentenza ha ritenuto che il M. sarebbe legittimato a far valere nel presente giudizio soltanto il “proprio” diritto al risarcimento, relativo ad un danno personalmente subito, laddove le pretese risarcitorie concretamente avanzate trovano fondamento nell’attività svolta dalla società ***** S.r.l.; e ciò anche perché era un noto avvocato e gli era impedito di svolgere attività imprenditoriale in proprio; e tutto ciò, in contrasto insanabile con quanto statuito sul punto dalla sentenza di annullamento numero 12502/2015.
Secondo Motivo: Violazione dell’art. 654 c.p.p. e dell’art. 324 c.p.c., del D.P.R. n. 19 del 1979 e della L. n. 52 del 1996, laddove ha escluso nel presente giudizio l’efficacia di giudicato della sentenza numero 49783/2009 emessa inter partes dalle Sezioni Unite della Corte di Cassazione e di quella numero 30036/2011 in punto di avvenuto accertamento della caduta in pubblico dominio agli inizi degli anni ‘90 delle opere di Walt Disney di cui si discute, laddove nelle specifiche motivazioni delle due citate sentenze da un lato si esplicitava esattamente che le opere erano cadute in pubblico dominio, che non si applicava la L. n. 52 del 1996, art. 17 e che non fosse applicabile al caso di specie la protezione di cui al D.Lgs. n. n. 154 del 1997, e dall’altro ha affrontato e deciso in ben due sentenze irrevocabili inter partes il problema della persistenza del diritto d’autore di cui trattasi, che costituisce proprio il “fatto materiale” da cui discende il diritto al risarcimento del danno richiesto dai ricorrenti.
Terzo Motivo: Violazione degli artt. 2043 e 1226 c.c., in punto di rigetto della domanda di risarcimento del danno in proprio avanzata dal ricorrente, di inammissibilità della domanda di risarcimento del danno per le attività svolte dalla S.r.l. *****, di rigetto della domanda di risarcimento danno perequata al fatturato della Disney non potendo essere ritenuto il M. un consociato in senso stretto; di rigetto della domanda di risarcimento danno derivante dall’esercitabilità del diritto di sfruttamento perché dopo la riprotezione dell’anno 1996 esso sarebbe stato coperto dal diritto di autore; della inimputabilità alla Disney della mancata commercializzazione delle videocassette, essendo la sua condotta circoscritta al legittimo esercizio del diritto di difesa, anche in riferimento alla mancanza di prova dell’esistenza del danno. Dagli atti di causa ed in particolare dalle motivazioni delle tre sentenze della Corte di cassazione sia in sede penale nei 2009 che in sede civile riel 2011 e nel 2015 emerge invece tutto l’opposto anche alla luce dei pregnanti motivi sul punto esposti dall’odierno ricorrente nell’atto di riassunzione del giudizio a seguito della sentenza di annullamento e di cui la Corte di appello non ha tenuto alcun conto, anche per determinare il danno in via equitativa.
Quarto Motivo: Violazione di legge in riferimento agli artt. 210 e 213 c.p.c. in punto di omessa acquisizione delle scritture sequestrate dalla Guardia di Finanza di Milano nell’anno 1992 e mai restituite al fine di determinare con certezze il valore degli ordini inevasi per centinaia di migliaia di videocassette e necessarie ai fini di determinare il quantum del danno, nonché dell’ordine di esibizione alla Disney dei nominativi dei coautori dei singoli film oggetto di causa con le date del loro decesso al fine di determinare con esattezza i 70 anni dalla loro ultima morte previsto dalla L. n. 52 del 1996.
Quinto Motivo: Violazione di legge in riferimento all’art. 191 e ss. c.p.c., in ordine alla omessa disposizione della ctu richiesta per determinare le somme dovute ai ricorrenti dall’anno 1992 ad oggi quali consociati nel pubblico dominio ed impediti al loro sfruttamento, poiché la esclusione della loro qualità di consociati è contraria al fatto accertato irrevocabilmente con sentenza della Corte di Cassazione e quindi la consulenza era imprescindibile ai fini della quantificazione. Sesto Motivo: Violazione di legge in riferimento agli artt. 91 e ss. c.p.c. in punto di attribuzione delle spese di lite agli odierni ricorrenti poiché si è trattato, a tutto concedere, di soccombenza reciproca in quanto la sentenza di annullamento ha accolto un motivo di ricorso ed ha dichiarato assorbiti gli altri dieci, e non li ha rigettati, ed ha rimesso alla Corte di appello la valutazione sulla determinazione delle spese del giudizio di legittimità ma non la loro attribuzione, ed anche nel giudizio di rinvio si è verificato l’accoglimento parziale della domanda in punto di legittimazione attiva.
10. – La ricorrente ***** S.r.l. ha così sintetizzato i propri motivi: Primo motivo: Violazione di legge – art. 360 c.p.c., n. 3 in relazione all’art. 105 c.p.c. ed all’art. 627 c.p.c. anche in riferimento al preuso dei diritti.
Secondo Motivo: Violazione dell’art. 654 c.p.p. e dell’art. 324 c.p.c., del D.P.R. n. 19 del 1979 e della L. n. 52 del 1996, laddove ha escluso nel presente giudizio l’efficacia di giudicato della sentenza numero 49783/2009 emessa inter partes dalle Sezioni Unite della Corte di Cassazione e di quella numero 30036/2011 in punto di avvenuto accertamento della caduta in pubblico dominio delle opere di Walt Disney di cui si discute, nonostante nelle specifiche motivazioni delle due citate sentenze da un lato si esplicitava es attamente: a) che le opere erano cadute in pubblico dominio; b) che non si applicava la L. n. 52 del 1996, art. 17; c) che non fosse applicabile al caso di specie la protezione di cui al D.Lgs. n. 154 del 1997, e dall’altro affrontava e decideva in ben due sentenze irrevocabili inter partes il problema della persistenza del diritto d’autore di cui trattasi, che costituisce proprio il “fatto materiale” da cui discende il diritto al risarcimento del danno richiesto dalla ricorrente.
Terzo Motivo: Violazione degli artt. 2043 e 1226 c.c. anche per omessa valutazione di un fatto decisivo in punto di inammissibilità della domanda di risarcimento del danno avanzata dall’intervenuto M. per le attività svolte dalla S.r.l. *****, anche in relazione al fatturato della Disney non potendo essere ritenuto il M. un consociato in senso stretto nonché alla esercitabilità del diritto di sfruttamento perché dopo la riprotezione dell’anno 1996 esso sarebbe stato coperto dal diritto di autore; della inimputabilità alla Disney della mancata commercializzazione delle videocassette, essendo la sua condotta circoscritta al legittimo esercizio del diritto di difesa, anche in riferimento alla mancanza di prova dell’esistenza del danno. Dagli atti di causa ed in particolare dalle motivazioni delle tre sentenze della Corte di Cassazione sia in sede penale nel 2009 che in sede civile nel 2011 e nel 2015 emerge invece tutto l’opposto anche alla luce dei pregnanti motivi sul punto comunque esposti dall’intervenuto nell’atto di riassunzione del giudizio a seguito della sentenza di annullamento e di cui la Corte di appello non ha tenuto alcun conto.
RITENUTO CHE:
11. – I ricorsi M. ed ***** S.r.l. vanno riuniti ai sensi dell’art. 335 c.p.c..
12. – Disney Enterprises Inc. formula in memoria illustrativa eccezioni di improcedibilità e di inammissibilità del ricorso M.:
-) l’improcedibilità discenderebbe dall’omesso deposito da parte del M. di copia analogica del messaggio di posta elettronica e dei relativi allegati recante la notificazione della sentenza impugnata, nonché dalla mancanza dell’attestazione di conformità dei documenti cartacei depositati agli originali, oltre che dall’omesso deposito di “copia analogica della sentenza impugnata “ritualmente autenticata””;
-) l’inammissibilità discenderebbe: ) dal difetto di procura alle liti, avendo il M. conferito al proprio difensore l’incarico in ordine al “giudizio avanti la Corte di Cassazione R.G. n. 16572/2016”, ossia in una causa diversa; 2) dal fatto che il M. “ha proposto il ricorso per la cassazione della Sentenza n. 3174/2018 “in proprio e nella qualità di socio e di amministratore di *****””, mentre egli aveva riassunto la causa dinanzi alla Corte d’appello di Milano in qualità esclusivamente di erede di M.I., ossia per vedersi riconoscere un diritto conseguito iure hereditario.
12.1. – L’eccezione di improcedibilità va disattesa.
Il deposito in cancelleria, nel termine di venti giorni dall’ultima notificazione, di copia analogica della decisione impugnata predisposta in originale telematico e notificata a mezzo PEC priva di attestazione di conformità del difensore della L. n. 53 del 1994, ex art. 9, commi 1 bis e 1 ter, oppure con attestazione priva di sottoscrizione autografa, non determina l’improcedibilità del ricorso per cassazione laddove il controricorrente (o uno dei controricorrenti), nel costituirsi (anche tardivamente), depositi a sua volta copia analogica della decisione ritualmente autenticata, ovvero non disconosca D.Lgs. n. 82 del 2005, ex art. 23, comma 2, la conformità della copia informale all’originale notificatogli; nell’ipotesi in cui, invece, la controparte (o una delle controparti) sia rimasta soltanto intimata, ovvero abbia effettuato il suddetto disconoscimento, per evitare di incorrere nella dichiarazione di improcedibilità il ricorrente ha l’onere di depositare l’asseverazione di conformità all’originale della copia analogica, entro l’udienza di discussione o l’adunanza in camera di consiglio (Cass., Sez. Un., 25 marzo 2019, n. 8312).
Nel caso in esame, concorrono due distinte e convergenti ragioni ad escludere l’improponibilità:
-) per un verso, il controricorso di Disney Enterprises Inc. non contiene il disconoscimento di cui si è detto, con la precisazione che esso deve necessariamente trovare collocazione nel controricorso, in ossequio al principio, applicabile anche nella specie, secondo cui il congegno di tempestività del disconoscimento desumibile dall’art. 214 c.p.c., trova applicazione anche nel caso del disconoscimento di conformità della copia all’originale (tra le tante Cass. 14 ottobre 2011, n. 21339), senza di che, d’altronde, ove si ammettesse la formulazione dell’eccezione sine die, i.e. anche in sede di eventuale discussione orale, rimarrebbe frustrata la facoltà del ricorrente, ritenuta necessaria dalle Sezioni Unite per i fini di una lettura del dato normativo in conformità al principio di effettività, di ottemperare all’onere di deposito entro l’udienza di discussione o l’adunanza in camera di consiglio; di guisa che, se anche un disconoscimento successivo al controricorso vi fosse, esso sarebbe tardivo;
-) per altro verso, un simile disconoscimento, a ben vedere, non è contenuto neppure nella memoria illustrativa, ove la controricorrente si limita a dare atto della carenza degli adempimenti menzionati, senza tuttavia affatto negare che la sentenza prodotta in copia sia quella pronunciata dalla Corte d’appello di Milano, contro la quale è stato interposto il ricorso per cassazione.
Ergo, è rimasta pienamente integrata l’ipotesi considerata dalle Sezioni Unite di deposito della sentenza priva degli addentellati già menzionati, ma senza che il controricorrente abbia effettuato il disconoscimento.
12.2. – La prima eccezione di inammissibilità va disattesa.
E’ circostanza non certo commendevole che il ricorso per cassazione rechi in calce una procura in cui il ricorrente conferisce al suo difensore procura a “rappresentarlo e difenderlo con ogni facoltà nel giudizio avanti la Corte di Cassazione R.G. n. 16572/2016”: qui non si tratta di un mero refuso, purtroppo sempre possibile, dovuto alla digitazione di una cifra per un’altra, bensì di un ben più marchiano errore, per l’ovvia considerazione che la procura a ricorrere per cassazione non può contenere l’indicazione del numero di registro generale del giudizio di cassazione, numero che il ricorso acquisterà soltanto successivamente al suo deposito.
E tuttavia, proprio l’evidenza dell’errore convince la Corte che di tanto si tratti, e cioè di un manifesto errore materiale, non idoneo ad infrangere il principio, desumibile da un dato giurisprudenziale ampiamente ribadito (quantunque non manchino talora pronunce dissonanti), secondo cui la procura per il ricorso per cassazione, apposta non soltanto a margine, ma, come nel caso in esame, anche in calce ad esso, non può che riferirsi al ricorso al quale accede, indipendentemente dalla sua formulazione (v. p. es. tra le tante Cass. 3 ottobre 2019, n. 24670).
12.3. – La seconda eccezione di inammissibilità va anch’essa disattesa, nei limiti che seguono.
Nuovamente, non può dirsi lodevole che il M.S.F., che non ha introdotto l’originario giudizio, ma è subentrato in veste di erede a M.I., che a sua volta non aveva instaurato la causa, ma vi era intervenuto, dopo aver riassunto il giudizio all’esito del rinvio da questa Corte disposto “quale erede di M.I.”, abbia proposto il ricorso per cassazione, come detto anche nell’intestazione di questa ordinanza, “in proprio e nella qualità di socio e di amministratore della ***** s.r.l.”, come se si trattasse di espressioni tra loro fungibili.
Ma, mentre il M. non ha alcun titolo ad agire quale socio ed amministratore della società (per l’assorbente considerazione che egli non è stato in tale veste parte del processo), tanto più che essa ha spiegato autonomo ricorso per cassazione, pare al Collegio palese che, laddove il ricorrente assume di aver agito “in proprio”, intende riferirsi alla sua posizione acquisita nel processo a seguito della morte del proprio dante causa, e cioè in vista della tutela del preteso diritto entrato nel suo patrimonio a seguito dell’apertura della successione di M.I..
Sicché entro tali limiti il ricorso è inammissibile.
13. – Il suddetto ricorso proposto da M.S.F. va respinto.
13.1. – Occorre muovere per ragioni di priorità logica dall’esame del secondo mezzo, con il quale si sostiene che la Corte d’appello, nella sentenza impugnata, avrebbe violato il giudicato derivante dalla sentenza delle Sezioni Unite penali 29 dicembre 2009, n. 49783, sentenza la quale aveva accertato, nell’ambito di un processo che aveva visto l’odierna controricorrente costituirsi parte civile, “che le opere della Walt Disney specificate nei capi di imputazione erano cadute in pubblico dominio al massimo entro il 31 dicembre del 1978” (così la citata decisione).
Esso è infondato.
Ed invero, secondo l’art. 654 c.p.p., la sentenza penale irrevocabile di condanna o di assoluzione pronunciata in seguito a dibattimento ha efficacia di giudicato nel giudizio civile o amministrativo, quando in questo si controverte intorno a un diritto (o a un interesse legittimo) il cui riconoscimento dipende dall’accertamento degli stessi fatti materiali che furono oggetto del giudizio penale: e ciò sta a significare che l’efficacia concerne esclusivamente l’accertamento dei c.d. “fatti materiali”, ossia, come si è osservato in dottrina, degli accadimenti concreti della realtà naturale esterna, depurati da ogni apprezzamento, valutazione e qualificazione di natura giuridica e non giuridica, considerati singolarmente e non nelle relazioni tra loro (v. al riguardo p. es. Cass. 16 febbraio 2009, n. 3713).
Val quanto dire che la citata sentenza delle Sezioni Unite penali non è dotata di autorità di giudicato in ordine alla questione, attinente non materialità del fatto, bensì all’interpretazione della normativa concernente la protezione del diritto d’autore sull’opera cinematografica, se e quando i film oggetto del contendere siano caduti in pubblico dominio.
A rincalzo di quanto precede va d’altronde osservato che la Corte d’appello, lungi dal contraddire la motivazione in iure svolta dalle Sezioni Unite penali – motivazione in iure dalla quale, peraltro, per quanto detto, essa bene avrebbe potuto discostarsi – in ordine alla cumulabilità della proroga prevista dal D.Lgs. Luogotenenziale n. 440 del 1945 con la sospensione contemplata dal Trattato di pace di Parigi, reso esecutivo dal D.L. n.c.p.S. n. 1430 del 1947, nonché all’applicabilità del termine di protezione cinquantennale di cui al D.P.R. 8 gennaio 1979, n. 19, ha fondato la propria decisione su un dato normativo riguardo al quale le Sezioni Unite penali non si sono punto pronunciate: e cioè:
-) L. n. 52 del 1996, art. 17, comma 1 (“1. I termini di durata di protezione dei diritti di utilizzazione economica delle opere dell’ingegno di cui al titolo I della L. 22 aprile 1941, n. 633, e successive modificazioni, previsti dagli articoli… 32… della legge medesima, sono elevati a 70 anni… E’ abrogato il termine di proroga di protezione previsto dal D.Lgs. luogotenenziale 20 luglio 1945, n. 440…. 2. I termini di durata di protezione disciplinati nel comma 1 si applicano anche alle opere ed ai diritti non più protetti sulla base dei termini previgenti, sempreché, per effetto dell’applicazione di tali termini, detti opere e diritti ricadano in protezione alla data del 29 giugno 1995…”),
-) nonché il D.Lgs. n. 154 del 1997, art. 3, che ha modificato l’art. 32 della legge sul diritto d’autore (“Fermo restando quanto stabilito dall’art. 44, i diritti di utilizzazione economica dell’opera cinematografica o assimilata durano sino al termine del settantesimo anno dopo la morte dell’ultima persona sopravvissuta fra le seguenti persone: il direttore artistico, gli autori della sceneggiatura, ivi compreso l’autore del dialogo, e l’autore della musica specificamente creata per essere utilizzata nell’opera cinematografica o assimilata”).
Il tutto con la finale conseguenza, affermata nella sentenza impugnata, della “permanenza del diritto d’autore in capo a Disney in relazione alle opere pubblicate tra il 1930 e il 1948”. Affermazione, quest’ultima, che lo stesso ricorrente mostra di condividere laddove afferma, nel corpo del terzo motivo (le pagine non sono numerate) che “i diritti di alcuni film oggetto di causa decadranno attorno al 2060”.
Non risponde difatti al vero, come si sostiene invece nel motivo, che le Sezioni Unite penali avrebbero affermato “che non si applicava la L. n. 52 del 1996, art. 17 e che non fosse applicabile al caso di specie la protezione di cui al D.Lgs. n. 154 del 1997”: al contrario, la sentenza penale si occupa di quest’ultimo decreto legislativo soltanto nella ricostruzione cronologica del dato normativo, mentre sull’art. 17 si sofferma soltanto per dare atto della sua espressa retroattività, senza prendere posizione sulla sua applicabilità ad una vicenda penale svoltasi anteriormente.
Sul prolungamento di cui al citato art. 17, che ha poi per così dire “trascinato” l’applicazione dell’art. 32 della legge sul diritto d’autore come modificato, occorre dire che la sentenza d’appello è conforme alla giurisprudenza di questa Corte, che ha già avuto modo di pronunciarsi sul tema, sebbene con riguardo alle opere fonografiche (ma la questione, in iure, è la stessa), evidenziando che la norma (con le salvezze ivi contemplate, cui nuovamente si accennerà tra breve) è espressamente retroattiva: “La disposizione, essendo tesa a recuperare la protezione anche per le opere e per i diritti già caduti in pubblico dominio, ha effetto retroattivo, purché quelle opere e quei diritti rientrino, alla data del 30 giugno 1995, nel predetto prolungato termine di cinquant’anni a decorrere dal momento in cui iniziava la loro protezione” (Cass. 25 gennaio 2017, n. 1935). Affermazione, questa, condivisa del resto dalle stesse Sezioni Unite penali, nella sentenza poc’anzi citata, le quali, come si diceva, hanno tratto argomento dall’art. 17, espressamente retroattivo, per affermare la non retroattività, in mancanza di una chiara formulazione in tal senso, del D.P.R. 8 gennaio 1979, n. 19.
13.2. – Il terzo mezzo è invece inammissibile.
Secondo il ricorrente, in buona sostanza, “la Disney ha salvaguardato, con il proprio illegittimo comportamento, il monopolio che de facto detiene nel mercato di film per l’infanzia”, illegittimo comportamento che aveva dato luogo al sequestro di innumerevoli videocassette e bollini SIAE, il che aveva impedito lo sfruttamento economico delle opere medio tempore cadute in pubblico dominio, ed aveva altresì gettato discredito sui M..
Il motivo si innesta sulla previsione della citata L. n. 52 del 1996, art. 17, comma 4: “4. Restano pienamente salvi e impregiudicati gli atti e contratti fatti o stipulati anteriormente al 29 giugno 1995, anche in deroga, per i contratti stipulati dopo il 30 giugno 1990, alla L. 22 aprile 1941, n. 633, art. 119, comma 3, nonché i diritti legittimamente acquisiti ed esercitati dai terzi in conseguenza dei medesimi. In particolare sono fatte salve…”. In proposito, la Corte d’appello ha ipotizzato che le pretese risarcitorie avanzate dall’appellante potessero, in astratto, trovare fondamento nell’attività svolta nei primi anni 90, cioè in un momento in cui la caduta di pubblico dominio non era stata colpita dalla norma retroattiva di cui si è detto.
Orbene, la censura così riassunta, e che il ricorso espone nell’arco di circa 15 pagine, giungendo a quantificare il danno subito in “Euro 1,142 miliardi”, non si cimenta affatto con la motivazione al riguardo addotta dalla Corte territoriale, laddove essa ha affermato “che la mancata commercializzazione delle videocassette e le relative conseguenze sull’attività della società – dedotte dall’appellante sotto il profilo di danno cessante – sono derivate non da una iniziativa illegittima della Disney, bensì da un sequestro, atto fondato su una decisione soppesata, proveniente dall’autorità giudiziaria”, e che “nemmeno il danno all’immagine… può essere riconosciuto. Infatti, da un lato, come già evidenziato, le ripercussioni sulla reputazione dei M. devono essere ricondotte a un’iniziativa giudiziaria legittima della Disney. Dall’altro lato, il pregiudizio all’immagine, derivato dal generico tenore o dalle specifiche espressioni degli articoli di giornali versati in causa, oltre a essere lamentato in termini troppo generici, non può in ogni caso venire imputato alla Disney, ma ai soggetti responsabili della redazione della pubblicazione degli articoli”.
Ciò detto, l’affermazione della Corte territoriale, nella sua prima parte, è conforme all’insegnamento di questa Corte in tema di denuncia penale infondata, la quale, in caso di assoluzione del denunciato, può dar luogo a responsabilità del denunciante solo in ipotesi di calunnia (di recente, tra le tante, Cass. 30 novembre 2018, n. 30988), ipotesi che nella specie non pare neppure prospettata, che non emerge dalla sentenza delle Sezioni Unite penali, e che non è presa in considerazione dalla Corte d’appello, la quale ha anzi escluso “un atteggiamento persecutorio da parte della Disney” come pure “un abuso del suo diritto di agire”, discorrendo invece, come si è visto, di iniziativa legittima.
Nella sua seconda parte, poi, a parte l’incensurabilità dell’affermazione concernente la genericità della denuncia, l’assunto svolto nella sentenza impugnata, secondo cui non può porsi a carico della Disney il pregiudizio ipoteticamente cagionato da articoli giornalistici non da essa provenienti, è evidentemente inattaccabile. Sicché non resta se non ribadire che la motivazione svolta dalla Corte territoriale non è specificamente attinta dal motivo, che è come tale inammissibile per difetto di specificità.
13.3. – Può passarsi ora all’esame del primo mezzo.
Sostiene in breve il ricorrente che la Corte d’appello, nell’affermare che esso M. non era legittimato a far valere altro che un proprio diritto al risarcimento, abbia reso una pronuncia incompatibile con quanto statuito nella sentenza di cassazione.
Ma, una volta stabilito che la Corte territoriale ha correttamente affermato che i film in questione non sono caduti di pubblico dominio e che il M., nell’arco temporale in cui lo sfruttamento economico dei film era aperto alla generalità dei consociati, non ha subito un danno risarcibile in conseguenza dell’iniziativa giudiziaria intrapresa dalla Disney, la censura rimane senza dubbio assorbita.
In ogni caso, l’assunto svolto nel motivo è privo di fondamento, quantunque il giudice del rinvio abbia adoperato in modo inappropriato la nozione di legittimazione ad agire, peraltro adottando poi, correttamente, una decisione qualificata in termini di rigetto: e cioè, al di là della formula adottata, riassunta nell’affermazione secondo cui “non sussiste la legittimazione del M. a proporre tali domande in proprio”, la Corte d’appello ha inteso con tutta chiarezza sostenere che nessun pregiudizio poteva egli aver subito per effetto della condotta posta in essere dall’originaria convenuta, che aveva contestato la caduta in pubblico dominio del materiale commercializzato da ***** S.r.l., dal momento che tale condotta avrebbe potuto tutt’al più, in ipotesi, ledere il patrimonio della società, non quello, se non indirettamente, del M..
Questa Corte, in altri termini, nella precedente pronuncia rescindente, si è limitata a stabilire che il M. aveva “agito per la tutela di un suo interesse autonomo e differenziato”, sicché la Corte d’appello, nella prima sentenza resa tra le parti, non avrebbe potuto qualificare l’intervento come meramente adesivo, facendone discendere l’inammissibilità dell’impugnazione: il che certo non precludeva alla stessa Corte d’appello – come del resto espressamente osservato nella sentenza n. 12502 del 2015 di questa Corte – di accertare l’insussistenza del diritto autonomamente fatto valere.
13.4. – Il quarto e quinto motivo, concernenti istanza di esibizione e consulenza tecnica d’ufficio, sono assorbiti.
13.5. – Il sesto mezzo è infondato.
Il ricorrente incorre in errore laddove afferma che si verserebbe in situazione “di soccombenza reciproca in quanto la sentenza di annullamento ha accolto un motivo di ricorso ed ha dichiarato assorbiti gli altri dieci, e non li ha rigettati”: è cosa nota, difatti, tanto da rendere del tutto superfluo anche il richiamo a precedenti giurisprudenziali, che la valutazione della soccombenza va fatta considerando l’esito globale della lite, di modo che il M. è risultato all’esito del giudizio integralmente soccombente, avendo viste respinte nella totalità le sue domande.
Ciò detto, se anche soccombenza reciproca vi fosse stata, ciò non consentirebbe di sindacare il diniego di compensazione, giacché, in tema di spese processuali, il sindacato della Corte di cassazione è limitato ad accertare che non risulti violato il principio secondo il quale le stesse non possono essere poste a carico della parte totalmente vittoriosa, per cui vi esula, rientrando nel potere discrezionale del giudice di merito, la valutazione dell’opportunità di compensarle in tutto o in parte, sia nell’ipotesi di soccombenza reciproca che in quella di concorso di altri giusti motivi (tra le tantissime, Cass. 17 ottobre 2017, n. 24502).
14. – Il ricorso di ***** S.r.l. è inammissibile.
Nei suoi confronti, infatti, come eccepito dalla controricorrente, la sentenza di primo grado, di integrale rigetto, non impugnata dal Fallimento della società, è passata in giudicato.
15. – Le spese seguono la soccombenza. Sussistono i presupposti processuali per il raddoppio del contributo unificato se dovuto.
P.Q.M.
rigetta il ricorso proposto da M.S.F. e dichiara inammissibile quello spiegato da ***** S.r.l., condannando ciascuno dei ricorrenti al rimborso, in favore della controricorrente, delle spese sostenute per questo giudizio di legittimità, liquidate, quanto ad ognuno dei ricorrenti, in complessivi Euro 10.200,00, di cui Euro 200,00 per esborsi, oltre alle spese forfettarie nella misura del 15% ed agli accessori di legge, dando atto, ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, che sussistono i presupposti per il versamento, a carico delle parti ricorrenti, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis.
Così deciso in Roma, il 17 settembre 2021.
Depositato in Cancelleria il 11 novembre 2021
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