LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE LAVORO
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. BERRINO Umberto – Presidente –
Dott. NEGRI DELLA TORRE Paolo – rel. Consigliere –
Dott. LORITO Matilde – Consigliere –
Dott. LEO Giuseppina – Consigliere –
Dott. DE MARINIS Nicola – Consigliere –
ha pronunciato la seguente:
ORDINANZA
sul ricorso 11683-2018 proposto da:
S.G., elettivamente domiciliato in ROMA, VIA COSTANTINO CORVISIERI 4, presso lo studio dell’avvocato ANDREA INGENITO, che lo rappresenta e difende;
– ricorrente principale –
contro
UNICREDIT SERVICES S.C.p.A., (già denominata UBIS – UNICREDIT BUSINESS INTEGRATED SOLUTIONS S.C.p.A.), in persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, VIA DI RIPETTA 70, presso lo studio dell’avvocato MASSIMO LOTTI, che la rappresenta e difende unitamente agli avvocati SALVATORE FLORIO, FABRIZIO DAVERIO;
– controricorrente – ricorrente incidentale –
avverso la sentenza n. 4280/2017 della Corte d’appello di Roma depositata il 06/10/2017 r.g.n. 1253/2004;
udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del 23/03/2021 dal consigliere Dott. PAOLO NEGRI DELLA TORRE.
PREMESSO che S.G. ha agito in giudizio, avanti al Tribunale di Roma, nei confronti di Unicredit Business Partner s.c.p.a. (poi UBIS – Unicredit Business Integrated Solutions s.c.p.a.) per ottenere il risarcimento dei danni, patrimoniali e non patrimoniali, derivati dalla dequalificazione subita nel periodo compreso tra il maggio 2002 e il maggio 2011, quando era stato assegnato a compiti non corrispondenti alla qualifica rivestita (quadro direttivo 4 livello) o lasciato inattivo;
– che il giudice di primo grado ha accolto la domanda relativamente ai periodi dall’ottobre 2003 al febbraio 2008 e dal 14 dicembre 2009 al 31 maggio 2011, condannando il datore di lavoro al pagamento dell’importo pari al 70% delle retribuzioni maturate per il primo periodo e al 50% per il secondo nonché al risarcimento del danno biologico conseguente, nelle sue varie voci (permanente, da inabilità temporanea assoluta e parziale), oltre al risarcimento dell’ulteriore danno non patrimoniale;
– che con sentenza n. 4280/2017, depositata il 6 ottobre 2017, la Corte di appello di Roma ha confermato l’intervenuto demansionamento, osservando come dalle prove testimoniali fosse effettivamente emerso che il S. era stato adibito a mansioni inferiori al livello di inquadramento, in violazione dell’art. 2103 c.c.; ha, tuttavia, ritenuto che la relativa domanda risarcitoria dovesse essere respinta per mancanza di specifiche allegazioni e prove circa la sussistenza del danno professionale, previo richiamo alla giurisprudenza che esclude la configurabilità di un danno in re ipsa; quanto al danno biologico, lo ha determinato – alla luce della espletata consulenza medico-legale d’ufficio – nella complessiva somma di Euro 6.533,13 comprensiva di tutte le voci già liquidate a tale titolo in primo grado;
– che avverso detta sentenza della Corte di appello di Roma ha proposto ricorso per cassazione il S. con tre motivi;
– che ha resistito con controricorso Unicredit Services s.c.p.a. (già UBIS – Unicredit Business Integrated Solutions s.c.p.a.), svolgendo ricorso incidentale (da intendersi proposto anche in via condizionata), affidato a tre motivi e assistito da memoria;
RILEVATO
che con il primo motivo del ricorso principale viene dedotta ex art. 360 c.p.c., n. 4 la nullità della sentenza per motivazione apparente (art. 132 c.p.c., comma 2, n. 4) per avere la Corte di appello respinto la domanda avente ad oggetto il danno alla professionalità limitandosi a citare massime di giurisprudenza ma senza esaminare in alcun modo il caso di specie e senza dare conto delle ragioni per le quali le risultanze di causa (allegazioni, documenti, ammissioni del legale rappresentante della società, prove testimoniali), valutate anche alla stregua di elementi presuntivi in grado di far risalire al fatto ignoto, escludessero la possibilità di ottenere la pronuncia richiesta, così da risultare priva di qualsiasi capacità esplicativa;
– che con il secondo motivo, deducendo il vizio di motivazione, il ricorrente si duole che la Corte non abbia esaminato il fatto decisivo costituito dalla circostanza che un quadro direttivo di 4 livello, con esperienza qualificata, era stato destinato a svolgere operazioni di retrosportello: se la Corte l’avesse esaminata, avrebbe avuto a disposizione l’elemento noto da cui risalire al fatto ignoto, ovvero alla riduzione della capacità lavorativa acquisita e all’impoverimento del bagaglio professionale;
– che con il terzo, deducendo il vizio di cui all’art. 2103 c.c. in relazione all’art. 360, n. 3, il ricorrente censura la sentenza per avere la Corte territoriale, incorrendo in un errore di sussunzione, considerato il caso portato al suo esame come demansionamento, mentre esso riguardava un caso di lesione del diritto del lavoratore a non essere lasciato privo di mansioni e inoperoso; con la conseguenza di non avere applicato, come sarebbe stato necessario, la disciplina della responsabilità contrattuale, con gli effetti che da tale applicazione sarebbero derivati con riferimento all’onere della prova e all’equità nella liquidazione del risarcimento;
– che con il primo motivo del ricorso incidentale la società deduce il vizio di ultrapetizione, sul rilievo che la Corte di appello aveva dichiarato l’intervenuto demansionamento per l’intero periodo allegato dal ricorrente e, quindi, anche in relazione ad un periodo (da febbraio a settembre 2008) per il quale nessuna impugnazione era stata proposta dal lavoratore;
– che con il secondo viene dedotta la violazione e falsa applicazione degli artt. 2103 e 2697 c.c., dell’art. 66 c.c.n.l. 11 luglio 1999 per le aree professionali e i quadri direttivi del settore credito, in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3; nonché dell’art. 115, art. 116 c.p.c., comma 1 e art. 132 c.p.c., comma 2, n. 4, in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 4; e omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione fra le parti (art. 360, n. 5): si duole in sostanza la società ricorrente che la sentenza avesse totalmente trascurato le censure rivolte alla pronuncia di primo grado e gli elementi probatori offerti a sostegno delle stesse, fornendo una motivazione al di sotto del c.d. “minimo costituzionale”;
– che con il terzo viene dedotta la violazione e falsa applicazione degli artt. 1175,1375,2103,2059,1223,1226,1227 e 2697 c.c., nonché degli artt. 115,116 e 432 c.p.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3; viene altresì dedotto omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione fra le parti, in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 5: il ricorrente lamenta che la sentenza avesse recepito in maniera acritica le conclusioni del C.T.U. in tema di danno biologico, mentre avrebbe dovuto procedere ad una più compiuta analisi delle stesse, anche eventualmente disponendo il rinnovo dell’attività peritale;
osservato:
che il primo e il secondo motivo del ricorso principale, da esaminarsi congiuntamente per la loro connessione, sono fondati e devono essere accolti;
– che la Corte di appello di Roma, riesaminato il materiale probatorio e ritenuto che fosse stato provato il demansionamento del S. per l’intero arco temporale indicato nel ricorso introduttivo, si è poi limitata, nel pronunciare sulla domanda risarcitoria relativa al danno professionale, a richiamare l’orientamento della giurisprudenza di legittimità, per il quale il riconoscimento del diritto del lavoratore a vedersi accertata tale voce di danno non ricorre automaticamente in tutti i casi di inadempimento datoriale, e peraltro senza procedere in alcun modo a quella verifica delle circostanze di fatto allegate dal ricorrente, e più in generale degli elementi acquisiti al giudizio, che la stessa giurisprudenza (Sez. U n. 6572/2006 e successive numerose conformi) richiede di considerare;
– che, nel solco di tale orientamento, è stato ancora di recente precisato che, se il danno da demansionamento e dequalificazione professionale non ricorre in modo automatico in ogni caso di inadempimento datoriale, esso “può essere provato dal lavoratore, ai sensi dell’art. 2729 c.c., attraverso l’allegazione di elementi presuntivi gravi, precisi e concordanti, potendo a tal fine essere valutati la qualità e quantità dell’attività lavorativa svolta, il tipo e la natura della professionalità coinvolta, la durata del demansionamento, la diversa e nuova collocazione lavorativa assunta dopo la prospettata dequalificazione” (Cass. n. 21/2019); e altresì precisato – in un caso sovrapponibile al presente, in cui la decisione impugnata aveva omesso qualsiasi indagine in ordine alla configurabilità del danno prospettato, astenendosi dal fare cenno alle circostanze di fatto dedotte dal lavoratore, anche al solo fine di escluderne la sussistenza o il valore sintomatico – che “In tema di dequalificazione professionale, è risarcibile il danno non patrimoniale ogni qual volta si verifichi una grave violazione dei diritti del lavoratore, che costituiscono oggetto di tutela costituzionale, da accertarsi in base alla persistenza del comportamento lesivo, alla durata e alla reiterazione delle situazioni di disagio professionale e personale, all’inerzia del datore di lavoro rispetto alle istanze del prestatore di lavoro, anche a prescindere da uno specifico intento di declassarlo o svilirne i compiti. La relativa prova spetta al lavoratore, il quale tuttavia non deve necessariamente fornirla per testimoni, potendo anche allegare elementi indiziari gravi, precisi e concordanti, quali, ad esempio, la qualità e la quantità dell’attività lavorativa svolta, la natura e il tipo della professionalità coinvolta, la durata del demansionamento o la diversa e nuova collocazione lavorativa assunta dopo la prospettata dequalificazione” (n. 24585/2019);
– che non può invece trovare accoglimento il terzo motivo del ricorso principale, poiché la Corte di appello, diversamente da quanto dedotto, non ha accertato il ricorrere di una fattispecie di forzata inoperosità (e così l’inadempimento del datore all’obbligazione di far svolgere al lavoratore le mansioni previste), ma di una fattispecie di demansionamento (cfr. sentenza, pp. 5-6), pur dando atto di alcune dichiarazioni testimoniali che, per taluni momenti della lunga e complessa vicenda, avevano confermato la condizione di inattività del S.;
– che il primo motivo del ricorso incidentale risulta inammissibile, non riportando, nella inosservanza del requisito di cui all’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 6), l’atto di gravame (incidentale) del S., dal quale dedurre la circostanza della mancata impugnazione della decisione di primo grado in relazione al periodo febbraio-settembre 2008;
– che parimenti inammissibile risulta il secondo motivo del medesimo ricorso, per una pluralità di coesistenti ragioni: in particolare, per indicazione, in uno stesso motivo, di più profili di doglianza, seguita da una esposizione unitaria e complessiva che non consente un esame separato e rimette al giudice il compito di individuare le singole censure proposte (Cass. n. 26790/2018, fra le molte conformi); per incompatibilità logica di alcune censure rispetto ad altre, la deduzione del vizio di cui all’art. 360 c.p.c., n. 3 presupponendo una motivazione esistente e sindacabile, in cui eventualmente riconoscere il denunciato vizio di violazione o falsa applicazione di norme di diritto o di contratti e accordi collettivi; perché, sotto l’apparente deduzione del vizio di cui all’art. 360, n. 3, di mancanza assoluta di motivazione e di omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio, mira, in realtà, ad una rivalutazione dei fatti storici operata dal giudice di merito (cfr. da ultimo Sez. U n. 34476/2019);
– che il terzo motivo è infondato;
– che al riguardo, e in primo luogo, deve ribadirsi che la consulenza tecnica d’ufficio non è un mezzo istruttorio in senso proprio, poiché ha la finalità di aiutare il giudice nella valutazione di elementi acquisiti o nella soluzione di questioni che necessitino di specifiche conoscenze, ragione per cui non è qualificabile come una prova vera e propria e, come tale, è sottratta alla disponibilità delle parti e affidata al prudente apprezzamento del giudice del merito; ne consegue che, qualora la consulenza d’ufficio sia stata disposta e il giudice ne condivida i risultati, egli “non è tenuto ad esporre in modo specifico le ragioni del suo convincimento, atteso che la decisione di aderire alle risultanze della consulenza implica valutazione ed esame delle contrarie deduzioni delle parti, mentre l’accettazione del parere del consulente, delineando il percorso logico della decisione, ne costituisce motivazione adeguata, non suscettibile di censure in sede di legittimità” (Cass. n. 3881/2006): fermo restando che, nella specie, la Corte di appello risulta avere comunque esaminato le critiche del consulente di parte, là dove, nel condividere e fare proprie le conclusioni della C.T.U., ha rilevato come essa non fosse stata “efficacemente contrastata dai rilievi delle parti alle quali ha esaurientemente già replicato il consulente d’ufficio” (cfr. sentenza impugnata, p. 8, 2 capoverso);
– che, d’altra parte, è consolidato il principio, per il quale rientra nei poteri discrezionali del giudice di merito la valutazione dell’opportunità di disporre indagini tecniche suppletive o integrative, di sentire a chiarimenti il consulente sulla relazione già depositata ovvero di rinnovare, in parte o in toto, le indagini, sostituendo l’ausiliare del giudice (Cass. n. 2103/2019), e peraltro non risulta dedotto che l’esercizio di tale potere discrezionale sia stato sollecitato;
ritenuto:
conclusivamente che – accolto il primo e il secondo motivo del ricorso principale, respinto il terzo motivo del medesimo ricorso; respinto altresì il ricorso incidentale – l’impugnata sentenza n. 4280/2017 della Corte di appello di Roma deve essere cassata e la causa rinviata, anche per la liquidazione delle spese del presente giudizio, alla stessa Corte in diversa composizione, che, nel procedere all’esame delle allegazioni di parte ricorrente, unitamente alle altre risultanze del giudizio, si atterrà al principio di diritto richiamato, in particolare verificando l’idoneità delle stesse a costituire la base di un ragionamento inferenziale che consenta di risalire in modo attendibile e coerente all’eventuale configurabilità di un danno risarcibile derivante da demansionamento e dequalificazione professionale.
PQM
La Corte accoglie il primo e il secondo motivo del ricorso principale, rigettato il terzo; respinge il ricorso incidentale; cassa la sentenza impugnata in relazione ai motivi accolti del ricorso principale e rinvia, anche per le spese, alla Corte di appello di Roma in diversa composizione.
Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte della ricorrente incidentale, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso incidentale, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis se dovuto.
Così deciso in Roma, nell’adunanza camerale, il 23 marzo 2021.
Depositato in Cancelleria il 12 novembre 2021
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