LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE TERZA CIVILE
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. GRAZIOSI Chiara – Presidente –
Dott. SCRIMA Antonietta – Consigliere –
Dott. IANNELLO Emilio – Consigliere –
Dott. GIAIME GUIZZI Stefano – Consigliere –
Dott. GORGONI Marilena – rel. Consigliere –
ha pronunciato la seguente:
ORDINANZA
sul ricorso 3425-2018 proposto da:
ET LABORA SRL, in persona dell’amministratore unico, M.E., elettivamente domiciliata in ROMA, VIA CARDINAL DE LUCA 1, presso lo studio dell’avvocato GIANFRANCO RAVA’ che la rappresenta e difende;
– ricorrente –
contro
CAPELLO & C. SAS di L.T., in persona del suo socio accomandatario e legale rappresentante p.t. L.T., elettivamente domiciliata in ROMA, VIA CICERONE 44, presso lo studio dell’avvocato GIOVANNI CORBYONS, che la rappresenta e difende unitamente all’avvocato GIOVANNI MARIA FERRERI;
– controricorrente –
avverso la sentenza n. 1253/2017 della CORTE D’APPELLO di TORINO, depositata il 15/06/2017;
udita la relazione della causa svolta nella CAMERA DI CONSIGLIO del 23/06/2021 dal Consigliere Dott. GORGONI MARILENA.
RILEVATO IN FATTO
che:
Et Labora SRL ricorre, formulando dieci motivi, avverso la sentenza n. 52/2017 della Corte d’Appello di Torino, pubblicata il 15 giugno 2017.
Resiste con controricorso la Capello & c. di L.T. & c..
La vicenda per cui è causa trae origine dal decreto n. 13143/2014, con cui la Società Capello ingiungeva alla società Et Labora il pagamento di Euro 6.451,50, a titolo di differenza tra gli importi per saldo canoni locatizi e spese accessorie per gli anni 2011-2014, relativi al locale locato uso ufficio, a far data dal 2 novembre 2010, e per indennità di occupazione di un ulteriore locale uso archivio e le somme a suo debito per la restituzione del deposito cauzionale.
L’ingiunta proponeva opposizione, contestando la debenza delle somme richieste e, adducendo di essere creditrice di Euro 30.000,00, per avere eseguito migliorie ed addizioni consentite dal contratto, domandava la condanna dell’opposta al pagamento di detto importo o la sua compensazione giudiziale con eventuali crediti vantati dalla società Capello e la condanna di quest’ultima alla restituzione della differenza.
Il Tribunale di Torino accoglieva parzialmente l’opposizione; di conseguenza, revocava il decreto ingiuntivo, rigettava la domanda riconvenzionale e condannava l’opponente al pagamento di Euro 6.151,18; regolava per l’effetto le spese di lite.
La Corte d’Appello di Torino, con la sentenza oggetto dell’odierno ricorso, rigettava il gravame proposto dalla società Et Labora, confermando integralmente la pronuncia di prime cure.
CONSIDERATO IN DIRITTO
che:
1. Con il primo motivo la ricorrente deduce la violazione e/o falsa applicazione della L. n. 392 del 1978, artt. 41 e 79 (ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3).
La questione riguarda la debenza delle spese accessorie pretese dalla locatrice, ammontanti ad Euro 38,25, e del contributo alle spese di registrazione del contratto: la Corte d’Appello, secondo quanto prospettato dalla ricorrente, avrebbe confermato la dovutezza di tali somme, invocando la L. n. 392 del 1978, art. 8, senza tener conto che, con l’atto di appello, era stata censurata la statuizione del giudice di prime cure sul punto, sostenendo che la L. n. 392 del 1978, art. 41, non richiama, in merito alle locazioni ad uso diverso da quello abitativo, della L. n. 392 del 1978, art. 8, a mente del quale le spese di registrazione del contratto devono suddividersi tra il locatore ed il conduttore in pari misura, e che l’art. 79 della stessa legge non consente, sanzionando con la nullità la relativa pattuizione, che il contratto locatizio attribuisca al locatore vantaggi in contrasto con le disposizioni di legge.
2. Con il secondo motivo la ricorrente imputa alla sentenza impugnata la violazione e/o falsa applicazione di norme di diritto in relazione agli artt. 345 c.p.c. nonché all’art. 115 c.p.c. e art. 2697 c.c. e artt. 1576 e 1601 c.c..
Le censure della ricorrente sono articolate come segue:
1) la ritenuta debenza di Euro 1,50 mensili per spese di esazione sarebbe stata giustificata dalla Corte d’Appello basandosi su deduzioni nuove, come tali non consentite in appello, le quali imputavano dette somme a quanto la società Capello affermava di avere speso per la stampa e l’invio delle fatture;
2) il credito per le spese di riparazione del citofono sarebbe stato giustificato con una statuizione viziata, per aver ritenuto erroneamente pacifiche circostanze che invece sarebbero state specificamente contestate;
3) sia le spese di esazione sia le spese per la riparazione del citofono avrebbero dovuto basarsi sulla prova, a carico della società Capello, di averle effettivamente sostenute;
4) le spese per la riparazione del citofono, non rientrando in quelle di piccola manutenzione, non avrebbero dovuto essere ricondotte a quelle contrattualmente previste.
3. Con il terzo motivo, in via subordinata rispetto ai precedenti, la ricorrente critica la decisione d’appello per violazione dell’art. 345 c.p.c. e/o dell’art. 115 c.p.c. e/o in relazione all’art. 1182 c.c., comma 3 e art. 1196 c.c. e alla L. n. 392 del 1978, art. 38.
La questione riguarda ancora il debito per le spese di esazione di Euro 1,50 al mese. Secondo la ricorrente le spese per la redazione e l’inoltro delle fatture avrebbero dovuto considerarsi comprese negli obblighi fiscali cui è tenuto il locatore. Di conseguenza, dall’importo eventualmente dovuto avrebbe dovuto detrarsi la somma complessiva di Euro 50,70.
3.1. I primi tre motivi possono essere esaminati congiuntamente perché riguardano la debenza di alcune somme a titolo di spese: quelle di esazione delle fatture, l’addebito di 1/3 di quanto speso per la riparazione del citofono e di 1/2 di quanto anticipato per la registrazione del contratto.
3.2. Si tratta di richieste che la sentenza impugnata, confermando quella di prime cure, ha ritenuto che non potessero essere giustificate richiamando la disciplina delle spese accessorie, non sussistendo i caratteri di queste ultime, pur non escludendo che potessero rientrare nella nozione di spese anticipate dal locatore, con diritto al rimborso.
3.3. Va sottolineato, peraltro, che, all’evidente scopo di suffragare in iure tale conclusione, la sentenza impugnata ha richiamato la L. n. 392 del 1978, art. 8, sottolineando che il riparto tra i due soggetti, locatore e conduttore, dell’importo erogato per la registrazione dell’imposta di registro non è disciplinato dalla L. n. 392 del 1978, art. 9, che si riferisce alle spese accessorie, “così denotando il legislatore di non considerare l’esborso in parola quale onere accessorio in senso proprio”.
La tesi della Corte territoriale è che la parte che ha anticipato la spesa, una volta effettuato il pagamento, sia legittimata a chiedere all’altra la sua quota. In sintesi, il ragionamento della Corte territoriale è stato il seguente: la L. n. 392 del 1978 non si limita a disciplinare le spese accessorie, ma si basa su un principio generale, di cui costituisce specifica espressione l’art. 8, secondo cui la parte che anticipa le spese ha di norma diritto di chiedere all’altra parte la sua quota. Facendo leva su tale principio, ha ritenuto legittima la pretesa della locatrice alla contribuzione della controparte alle spese di registrazione del contratto ed alle spese per l’installazione del citofono, queste ultime imputate alla conduttrice nella misura di 1/3, sulla scorta di una riferita intesa tra le parti che, secondo la decisione di appello, neppure sarebbe stata contestata. Le spese di esazione della fattura, addebitate per intero alla conduttrice, sono state considerate, anche, legittimamente pretese in virtù dell’art. 1182 c.c., comma 3 e art. 1196 c.c..
3.4. Innanzitutto, va rilevato, in senso critico, il visibile affastellamento delle argomentazioni difensive, le quali sono prospettate in maniera disordinata, ingarbugliata, e senza neppure essere adeguatamente ricondotte a supporto dei singoli motivi: frutto verosimilmente della scelta di redigere il ricorso, formulando più motivi subordinati che ripetono e specificano quelli proposti in via principale, i quali, a loro volta, non risultano autosufficienti, nel senso che non sono ex se tali da prospettare una censura compiutamente formulata nei confronti di ben individuate statuizioni della sentenza.
Al netto della difficoltà di districarsi in tale inutile capziosità, non può farsi a meno di sottolineare che la ricorrente non si è confrontata con la statuizione con cui il giudice di merito ha giustificato la dovutezza delle somme pretese dalla società Capello, sulla scorta del principio generale dell’obbligo di restituzione pro quota della spese che una parte del contratto abbia interamente anticipato.
Il che rende non pertinente parte degli sforzi argomentativi con cui la società Et Labora ha contestato di essere tenuto al pagamento di metà delle spese di registrazione del contratto che, a suo dire, la L. n. 392 del 1978 prevederebbe solo relativamente al contratto di locazione ad uso abitativo: argomentazioni che sono anche errate in iure perché la disciplina delle locazioni commerciali si rinviene negli artt. 7 e 11, in quanto richiamati dall’art. 41, e negli 27-42 della L. 392 del 1978.
3.5. In aggiunta, la società Et Labora, attraverso lo sviluppo di censure che si dipanano, come si è anticipato, attraverso tutti i primi tre motivi del ricorso, ha contestato che l’attrice non avrebbe provato di avere sostenuto per intero le spese di registrazione e quelle per l’installazione dell’impianto citofonico; ha affermato che l’installazione dell’impianto citofonico non rientrerebbe nell’ambito della piccola manutenzione; ha sostenuto che le spese di esazione non sarebbero legittimabili sulla scorta degli artt. 1182 e 1196 c.c. e che esse sarebbero state giustificate sulla base di circostanze di fatto dedotte per la prima volta in appello.
3.6. L’ultima affermazione non trova riscontro nella sentenza de qua, la quale (p. VII) ha rilevato che l’originaria comparsa giustificava le spese di esazione rinviando alla consuetudine contabile della Provincia di Torino e che nella comparsa in appello si faceva riferimento al D.M. 30 dicembre 2002, n. 59; il diritto della società Capello di percepire le suddette spese, in quanto affrontate per la redazione e l’inoltro delle fatture, è stato nondimeno giustificato, ai sensi dell’art. 1182, comma 3 e art. 1196 c.c.. E la censure mosse alla sentenza impugnata per aver utilizzato gli artt. 1182 e 1196 c.c., fondate sul fatto che le spese pretese avrebbero dovuto imputarsi alla locatrice, tenuta all’emissione delle fattura, si rivelano infondate. La emissione della fattura è cosa diversa dalla spedizione della stessa che è attività meramente eventuale. Questa Corte ha già avuto occasione di statuire che la L. n. 633 del 1972, art. 21, comma 8, il quale dispone che “Le spese di emissione della fattura e dei conseguenti adempimenti e formalità non possono formare oggetto di addebito a qualsiasi titolo”, ha lo scopo di segnare la distinzione tra ciò che fa capo all’operazione commerciale ed è valutabile come sua base imponibile per l’applicazione dell’imposta e della rivalsa e ciò che pertiene alla fatturazione dell’operazione, che il legislatore ha voluto restasse estraneo sia all’applicazione dell’imposta sia alla rivalsa (Cass. 13/02/2009, n. 3532). Ciò posto, al fine di stabilire se le spese di spedizione della fattura debbano essere a carico di chi cede il bene o presta il servizio, secondo la sentenza citata, va tenuto conto che il legislatore tributario non se n’e’ interessato, ma ha lasciato al diritto civile ed alla volontà delle parti la disciplina della sopportazione del relativo onere e che consegna o spedizione della fattura non costituiscono un segmento della fatturazione, ma il momento fino al quale e prima del quale non si può considerare compiuta la medesima. Nessuna censura, dunque, merita la sentenza impugnata per aver ritenuto che la somma di 1,50 al mese per la stampa e la spedizione della fattura rientrasse tra “quelle di pagamento” e che quindi fossero a carico del debitore, in virtù del combinato disposto degli artt. 1182 e 1196 c.c..
3.7. Quanto alla ritenuta contestazione dell’an debeatur, si deve rilevare che al fine di dimostrare di aver contestato specificamente l’avvenuto pagamento delle spese da parte della società Capello sarebbe stato necessario focalizzare il passo della motivazione in cui si fa riferimento alla non contestazione, individuare esattamente l’atto ove era avvenuta la contestazione e riportare puntualmente il contenuto della contestazione, dare dimostrazione di aver ottemperato all’onere processuale di compiere una puntuale allegazione dei fatti di causa, in merito ai quali l’altra parte era tenuta a prendere posizione (così Cass. 13/10/2016, n. 20637; Cass. 17/02/2016, n. 3023).
4) Con il quarto motivo la ricorrente imputa alla sentenza gravata la violazione e falsa applicazione dell’art. 2696 c.c. e/o della L. n. 311 del 2004, art. 1 comma 346, artt. 1418,2033,2037 e 2041 c.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3.
Era insorta controversia tra le parti in ordine alla qualificazione del titolo sulla scorta del quale, dopo l’originario contratto di locazione dell’immobile uso ufficio, la odierna ricorrente aveva conseguito la detenzione di un altro locale uso archivio, assumendo l’obbligo di corrispondere mensilmente Euro 130,00.
La sentenza di prime cure aveva ritenuto ricorrente un contratto di locazione nullo, perché non registrato, ma aveva liquidato a favore della società Capello la somma di Euro 5.527,60 a titolo di occupazione dell’immobile. L’odierna ricorrente aveva dedotto la ricorrenza di un contratto di comodato, che la società Capello aveva contrastato con la deduzione che si sarebbe trattato tutt’al più di un comodato oneroso.
In sede di appellò, l’odierna ricorrente aveva censurato la qualificazione del contratto come di comodato oneroso, stante l’essenziale gratuità del comodato che non ammette altro che il rimborso di specifiche spese, ed aveva invocato la soluti retentio, correlandola all’adempimento da parte della locatrice di un’obbligazione naturale.
La Corte d’Appello ha riqualificato il credito della locatrice attribuendogli natura restitutoria anziché indennitaria o risarcito-ria, in quanto volto a ripristinare lo status quo ante e più in generale le posizioni economiche delle parti in causa, rimettendole nella situazione anteriore alla conclusione ed esecuzione del contratto rivelatosi nullo. Per l’effetto, ha ricondotto l’azione alla disciplina dell’art. 2033 c.c., relativa alla ripetizione dell’indebito oggettivo, e ha ritenuto che la le somme spettanti alla locatrice si dovessero sostanziare nell’equivalente pecuniario della prestazione economica comunque resa dalla società Cappello, consistente nell’aver immesso la conduttrice nel godimento dell’immobile per tutto il tempo in cui il contratto aveva avuto esecuzione, parametrata al corrispettivo di Euro 130,00 mensili previsto dal contratto nullo.
La ricorrente, per un verso, deduce che non era stata raggiunta la prova che le parti avessero stipulato un contratto di locazione, benché nullo, per altro, che la nullità del contratto in forza del quale aveva conseguito la detenzione del bene non potesse giustificare il pagamento di una somma pari a quella che la locatrice avrebbe conseguito se il contratto fosse stato valido. Peraltro, l’art. 2033 c.c., prevede la restituzione di cose determinate, ma non consente di concedere un indennizzo per equivalente per l’esecuzione di prestazioni aventi ad oggetto un facere. A fronte di una locazione nulla perché non registrata, secondo la giurisprudenza di questa Corte (Cass. 13/12/2016, n. 25503), richiamata dalla ricorrente, la locatrice, ricorrendone i presupposti, avrebbe potuto vantare un diritto al risarcimento del danno o all’ingiustificato arricchimento, ma non già quello di ricevere la stessa somma che avrebbe percepito attraverso la riscossione dei canoni di locazione.
E soggiunge che se la Corte territoriale, quando ha parlato di irripetibilità della prestazione eseguita dal locatore, avesse voluto dire che la società Capello aveva diritto ad un compenso per l’ingiustificato arricchimento, avrebbe dovuto tener conto che l’azione di ingiustificato arricchimento deve essere espressamente formulata e dalla sentenza non emerge che lo fosse stata. La conclusione invocata dalla ricorrente e’, pertanto, la cassazione della sentenza e la detrazione, dall’importo complessivo dovuto, della somma di Euro 5527,60.
Il motivo merita accoglimento.
La Corte territoriale, infatti, si è posta in contrasto con la giurisprudenza di questa Corte, giacché nella sostanza ha ragionato come se il contratto di locazione, pur nullo, avesse prodotto i suoi effetti. Nondimeno, questa Corte, con la sentenza n. 25503/2016, la cui applicazione e’, con ragione, invocata dalla ricorrente, ha ritenuto inconcepibile che un contratto di locazione nullo produca i suoi effetti “perché il rapporto si è svolto “di fatto”: infatti le ipotesi in cui il legislatore attribuisce rilievo giuridico allo svolgersi d’un rapporto contrattuale nullo (come nel caso del lavoro dipendente di fatto) sono eccezionali. Da un lato, pertanto, da esse non può ricavarsi in via interpretativa l’esistenza d’un generale principio secondo cui i rapporti contrattuali di fatto sarebbero equiparati a quelli di diritto; dall’altro lato proprio l’esistenza di quelle ipotesi rende evidente che solo l’esistenza d’una norma espressa consente di attribuire rilievo ad un rapporto di fatto, norma che in tema di locazione manca”.
Ciò non significa che il locatore non abbia diritto ad alcunché o che non abbia diritto alla restituzione della res locata, ma ciò cui ha diritto non può parametrarsi a quanto dovutogli per il canone pattuito; allo scopo di non far venir meno la finalità repressiva della nullità imperativamente prevista, quanto dovuto dal conduttore non potrà essere commisurato al canone convenuto dalle parti con l’accordo accertato nullo o anche solo a quello commerciale, dovendosi tener conto del fatto che nessun canone è dovuto, bensì un’indennità di occupazione per aver detenuto l’immobile sine titulo, sebbene per causa a lui non imputabile. Del resto la Corte costituzionale (sent. 10/11/2017, n. 238) ha ribadito il diritto del locatore a un equo indennizzo in ragione dell’occupazione illegittima del bene locato, stante la nullità del contratto per omessa registrazione e dunque l’assenza di suoi effetti ab origine. E con la decisione n. 87 del 13/04/2017 ha salvato dalla scure dell’illegittimità costituzionale, con un’interpretazione costituzionalmente orientata, la L. n. 431 del 1998, art. 13, comma 5, ritenendo che esso si occupasse solo degli effetti non contrattuali del rapporto di fatto, predeterminando forfettariamente il danno patito dal locatore e/o la misura dell’indennizzo dovuto dal conduttore, in ragione della occupazione illegittima del bene locato, provocata dalla nullità del contratto e, dunque, dall’assenza di suoi effetti ab origine. In altri termini, ha concluso che la norma si occupa solo delle conseguenze indennitarie derivanti dal contratto nullo, ritenendo che il canone determinato ex lege dal legislatore con corrispondesse all’indennità dovuta dal conduttore in ragione dell’occupazione di fatto dell’immobile. Ciò trova conferma secondo il giudice delle leggi nel tenore letterale della L. 9 dicembre 1998, n. 431, art. 13, comma 5, che parla di “conduttori” e si riferisce all’importo “del canone di locazione ovvero dell’indennità di occupazione”: la congiunzione disgiuntiva “ovvero” avrebbe un significato specificativo e non alternativo.
La Corte Costituzionale ha concluso che il novellato della L. n. 431 del 1998, art. 13, comma 5, non ha ripristinato né ridefinito la durata dei contratti locativi non registrati, ma si è occupato degli effetti non contrattuali del rapporto di fatto, predeterminando forfettariamente il danno patito dal locatore e/o la misura dell’indennizzo dovuto dal conduttore, in ragione della occupazione illegittima del bene locato, provocata dalla nullità del contratto e, dunque, dall’assenza di suoi effetti ab origine e che “una volta che il legislatore del 2015 si è disinteressato del ripristino dei rapporti giuridici di locazione sorti in base a contratti non registrati tempestivamente, la disciplina inerente al pagamento dell’importo annuo “pari al triplo della rendita catastale dell’immobile, nel periodo considerato”, non può altrimenti collegarsi che alla pregressa situazione di fatto della illegittima detenzione del bene immobile “in forza di titolo nullo e privo di effetti”; ed essere, dunque, propriamente “attinente al profilo dell’arricchimento indebito del conduttore, cui è coerente il pagamento di una indennità di occupazione e non di un canone di locazione, non affatto dovuto” (si vedano sul punto anche Cass. 02/03/2018, n. 4921; Cass. n. 24/09/2019, n. 23637).
Pur non essendo la disposizione applicabile al contratto di locazione commerciale per cui è causa – la L. n. 431/1998 riguarda solo le locazioni abitative – non può non tenersi conto che da essa si ricava la conferma, ribadita dal giudice delle leggi, che, nel caso di contratto di locazione nullo per mancata registrazione, ai sensi della L. n. 311 del 2004, art. 1, comma 346, il locatore ha diritto ad una indennità di occupazione che non può coincidere con quanto il locatore avrebbe diritto di pretendere ove il contratto non fosse stato colpito dalla sanzione della nullità.
5. Con il quinto motivo la ricorrente censura la sentenza impugnata per avere rigettato la domanda riconvenzionale e/o eccezione riconvenzionale di compensazione relativa alle spese fatte per le migliorie ed addizioni apportate all’immobile per la somma di Euro 37.476,53, lamentando l’omesso esame di un fatto decisivo ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5.
La Corte territoriale non avrebbe tenuto conto dell’accordo transattivo intercorso tra la locatrice e la società Motus, stipulato il 30 settembre 2010, che dava atto che la conduttrice, prima della stipulazione del contratto per cui è causa, aveva realizzato l’impianto di riscaldamento con il consenso della locatrice.
Secondo la odierna ricorrente, i lavori per cui è causa erano stati realizzati sull’immobile locato, prima della stipulazione del contratto di locazione, dalla società Motus, precedente locataria, su suo specifico incarico, in vista della stipulazione di un successivo contratto locatizio, volto ad ottenere la disponibilità dell’intero immobile.
La Corte d’Appello ha ritenuto che, quand’anche quanto rappresentato corrispondesse al vero, il precedente contratto intercorreva tra la locatrice e la Motus, che ad esso era estranea la società Et Labora, che esso poneva a carico della conduttrice la realizzazione di dette opere senza diritto alla riduzione del canone né alla risoluzione del contratto di locazione: quindi, l’unico soggetto locatario doveva considerarsi la Motus che aveva rinunciato contrattualmente al diritto di conseguire la prestazione indennitaria. La odierna ricorrente aveva dedotto che la mandataria era stata ristorata delle anticipazioni fatte ai sensi dell’art. 1720 c.c., producendo una fattura formata dalla Motus nei confronti della mandante riferita ad addebiti vari come da allegato, menzionante un impianto di allarme-antifurto, cartongesso, rasature e tinteggiature e professionista.
6) Con il sesto motivo la ricorrente deduce la violazione dell’art. 111 Cost., per motivazione inesistente o meramente apparente, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 4, e/violazione dell’art. 112 c.p.c., ex art. 360 c.p.c., n. 3, e/o art. 360 n. 4 c.p.c., e/o la violazione e/o falsa applicazione dell’art. 1720 c.c., ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 3.
Et Labora ipotizza che la Corte territoriale, rigettando la domanda riconvenzionale avente ad oggetto le migliorie, perché non suffragata da prove, in quanto era stata prodotta solo una fattura formata dalla mandante nei confronti della mandataria, poi conduttrice, che non permetteva di ricondurre le somme spese a quest’ultima, ed un estratto delle scritture contabili, a sua volta, giudicato inidoneo perché privo di attestazione notarile in ordine alla conformità alle scritture contabili ed alla loro tenuta, indipendentemente dall’assenza di contestazioni da parte della società Capello, sarebbe incorsa in plurimi errori: non avrebbe tenuto conto che: i) la società Motus che aveva eseguito le opere per conto della odierna ricorrente aveva acquistato un credito nei confronti di quest’ultima ex art. 1720 c.c. e che in conseguenza di ciò aveva messo fattura; ii) che la realizzazione di dette opere spettava all’odierna ricorrente in ragione delle clausole del contratto di locazione intercorso con la società Capello; iii) che là società Capello non aveva contestato né che le opere erano state realizzate né il relativo importo. Per concludere, la Corte d’Appello avrebbe adottato una statuizione meramente apparente ovvero avrebbe violato il principio di corrispondenza tra chiesto e pronunciato ed avrebbe erroneamente applicato l’art. 1720 c.c., il quale prevede l’obbligo del rimborso da parte della mandante delle spese sostenute dal mandatario.
7. Con il settimo motivo è dedotta la violazione e/o falsa applicazione dell’art. 2710 c.c., art. 115 c.p.c. e art. 1720 c.c., ex art. 360 c.p.c., n. 3, per avere la sentenza d’appello ritenuto che la fattura e l’estratto conto informale delle scritture contabili non costituissero valida prova dell’assunzione da parte della ricorrente del debito verso la Motus e per avere negato rilevanza alla mancata contestazione da parte della società Capello.
8. Con l’ottavo motivo viene lamentato l’omesso esame di un fatto decisivo della controversia ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, rappresentato dall’ordine di bonifico del 7 marzo 2017 che nella causale faceva riferimento alla fattura per le opere eseguite dalla Motus.
9. Con il nono motivo viene imputato alla sentenza gravata di aver violato e/o falsamente applicato gli artt. 1592 e 1593 c.c. anche in relazione all’art. 12 preleggi, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 3, per avere ritenuto necessario, ai fini dell’insorgenza del credito indennitario ex artt. 1592 e 1593 c.c., l’effettivo esborso dei costi. L’errore consisterebbe nel non aver tenuto conto che i crediti di indennizzi per miglioramenti ed addizioni sono di valore, stante la loro funzione indennitaria/risarcitoria e di reintegrazione di perdite patrimoniali, a differenza dei c.d. rimborsi di spese sostenute. Sia il tenore letterale degli artt. 1592 e 1593 c.c. sia il significato logico-sistematico degli stessi avrebbe dovuto indurre la Corte a ritenere sufficiente, ai fini del sorgere dell’indennizzo, la prova dell’assunzione, da parte del conduttore, del debito relativo al costo delle migliorie e delle addizioni.
10. Con il decimo ed ultimo motivo la ricorrente, in via gradata rispetto al motivo precedente, denuncia la “violazione e/o falsa applicazione dell’art. 1188 c.c., e/o dell’art. 115 c.p.c., art. 360 c.p.c. n. 3, la violazione dell’art. 102 c.p.c., comma 2 e dell’art. 111 Cost., ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1 n. 4, la violazione degli artt. 2288 e 2312 c.c., ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3.”, per avere la sentenza impugnata ritenuto che il beneficiario dell’ordine di bonifico non fosse la società Motus, omettendo di considerare che il soggetto legittimato a ricevere il pagamento può essere anche il rappresentante legale del creditore: nel caso di specie il beneficiario era M.E., socio accomandatario e rappresentante legale della Motus, per avere ipotizzato che la Motus non fosse più esistente, senza che ciò risultasse in alcun modo, e senza che la società Capello contestasse alcunché in ordine alla disposizione di bonifico, e comunque senza provocare il contraddittorio delle parti sulla questione, e senza tener conto che quand’anche la Motus si fosse estinta ciò non avrebbe determinato l’estinzione del suo credito, ma la successione dei soci, tra cui M.E., accomandatario.
11. I motivi dal quinto al decimo possono essere esaminati unitariamente, perché riguardano la stessa questione, cioè la de-benza, da parte della società locatrice, delle indennità di cui agli artt. 1592 e 1593 c.c..
In primo luogo, è opportuno richiamare le ragioni poste a fondamento della reiezione della domanda. La Corte territoriale ha ritenuto: i) che il contratto di mandato asseritamente intercorso tra la società Motus e la odierna ricorrente, per effetto del quale la prima avrebbe dovuto eseguire degli interventi sull’immobile che poi la seconda avrebbe preso in locazione, era una res inter alios acta rispetto alla società Capello; ii) che l’unico contratto vincolante la società Capello era quello con cui la Motus, originaria conduttrice, si era obbligata a realizzare le opere di manutenzione e quelle necessarie per il migliore sfruttamento dell’immobile o per adeguarlo normativamente, rinunciando al diritto alla riduzione del canone; iii) che la ricorrente aveva allegato di avere ristorato la Motus, che aveva eseguito le opere, delle anticipazioni fatte ai sensi dell’art. 1720 c.c., ma non era stata in grado di fornire una prova efficace in tal senso, come era suo onere fare, trattandosi di onere della prova riguardante il fatto costitutivo del diritto, rappresentato dall’avere effettivamente eseguito le opere e di averle eseguite attingendo a proprie risorse economiche.
Ebbene, le censure della ricorrente non sono idonee a confutarle:
– quelle di cui alle lettere i e ii), perché la ricorrente è incorsa nella preclusione processuale di cui all’art. 345 ter c.p.c., u.c., avendo dedotto il vizio di cui all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5 in presenza di una doppia conforme, cioè di una sentenza di appello che ha confermato quella di prime cure basandosi sulle stesse ragioni di fatto; senza contare: a) che non ha soddisfatto gli oneri di allegazione che gravano, secondo ius receptum, a carico di chi invochi il vizio in argomento (quanto al dato extratestuale dal quale evincere la esistenza del fatto omesso nonché al come e al quando tale fatto fosse stato oggetto di discussione tra le parti), non consentendo di attribuire al fatto omesso i caratteri del tassello mancante alla plausibilità cui è giunta la sentenza rispetto a premesse date nel quadro del sillogismo giudiziario (così Cass., sez. un., 07/04/2014, n. 8053); b) che non ha adeguatamente adempiuto alle prescrizioni di cui all’art. 366 c.p.c., n. 6, quanto agli accordi intercorsi tra la Motus e la società Capello e tra la Motus e se stessa, che il vizio motivazionale per essere apprezzato e condurre alla cassazione della sentenza impugnata deve emergere dalla sentenza in sé e per sé considerata, a prescindere dal confronto con le risultanze processuali (Cass., Sez. Un., 07/04/2014, n. 8053 e 8054); c) che, contrariamente a quanto dedotto, la Corte territoriale ha preso in considerazione il fatto asseritamente omesso, giungendo evidentemente a conclusioni diverse rispetto a quelle auspicate dalla ricorrente, che lo stesso fatto non può essere oggetto di censure tra di loro così dissonanti – omesso esame e violazione di norme di legge -; d) che molte delle norme indicate nella epigrafe del motivo sono state indicate come violate, ma senza svolgere alcuna argomentazione a riguardo.
– quella di cui alla lett. iii), perché: la ricorrente imputa alla sentenza gravata di avere deciso sulla base di censure non formutate, sostenendo di non avere mai affermato di avere provveduto al pagamento delle opere di cui chiedeva l’indennizzo, ma solo che Motus aveva un credito nei suoi confronti per rimborso delle spese sostenute; ha in concreto riconosciuto di non avere fornito la prova di avere sostenuto le spese per apportare le migliorie di cui chiedeva l’indennizzo. Il che sarebbe contrario al suo interesse, posto che la Corte territoriale ha affermato, a p. XIII, che il conduttore che asserisce di essere creditore delle indennità di cui agli artt. 1592 e 1593 c.c. è “onerato della prova in ordine all’effettività… dell’esborso affrontato con riferimento alle migliorie ed alle addizioni de quibus ed attingendo a risorse economiche sue proprie” e a p. XIV ha rilevato che la conduttrice, resasi conto delle lacune che infirmavano la sua presa indennitaria, due mesi dopo la proposizione dell’appello, aveva ordinato un bonifico dell’importo di Euro 47.476,53, indicando come beneficiario M.E., soggetto esponenziale dell’ordinante nonché accomandatario della Motus.
E’ vero che la conduttrice censura anche tale ultima statuizione, ma le censure non colgono nel segno. Le norme indicate gli artt. 1592 e 1593 c.c., – fanno riferimento alla minor somma tra speso e migliorato e nel concetto di spesa è implicato ovviamente l’esborso economicamente valutabile finalizzato ad uno scopo. La ricorrente introduce una distinzione tra debito di valuta e debito di valore che risulta eccentrica rispetto alla questione evocata o comunque non adeguatamente valorizzata al fine di contestare la statuizione della Cotte territoriale, la quale null’altro intendeva dire se non che a carico di chi chiede l’indennità di cui agli artt. 1592 e 1593 c.c., grava l’onere della prova di avere effettuato degli esborsi al fine di realizzare le opere per cui chiede l’indennità. Non solo: sovrappone erroneamente il concetto di indennità a quello di risarcimento, posto che quest’ultimo presuppone un fatto illecito, mentre l’indennità serve a reintegrare patrimonialmente un soggetto che abbia subito una perdita.
Il nocciolo della confutazioni, una volta sgombrato il campo dalle censure non pertinenti (alle già segnalate, va aggiunta quella relativa alla non avvenuta cancellazione dal registro delle imprese della Motus) ovvero non efficaci, si sostanzia in una contestazione delle risultanze probatorie che hanno portato la Corte territoriale a ritenere non provata l’effettuazione delle spese per le opere oggetto delle richieste indennitarie da parte dell’odierna ricorrente. Esclusa, da parte della Corte territoriale, la opponibilità alla società locatrice dell’eventuale accordo tra la Motus e l’odierna ricorrente, avente ad oggetto l’esecuzione delle opere, e negato da parte della società Et Labora di avere mai sostenuto di avere provveduto al pagamento delle opere di cui chiedeva l’indennizzo, ma solo che Motus aveva un credito nei suoi confronti per il rimborso delle spese sostenute cui corrispondeva un suo debito di pari importo, la ricorrente, come, peraltro, rilevato dalla sentenza impugnata ha ritenuto di poter provare di avere provveduto a soddisfare il credito della Motus con l’ordine di bonifico eseguito due mesi dopo la proposizione dell’appello: bonifico, però, che il giudice a quo, ad abundantiam, ha ritenuto inefficace a soddisfare l’onere della prova a suo carico, perché esso non aveva come beneficiaria la Motus, ma il rappresentante legale dell’odierna ricorrente nonché accomandatario della Motus, indicata quest’ultima solo nella causale del pagamento. Le censure della ricorrente a tale ultimo riguardo, anche senza considerare che si sostanziano in una richiesta di rivalutazione del merito della controversa, sono prive di interesse, perché non aggrediscono una ratio decidendi della sentenza impugnata, ma un’affermazione meramente rafforzativa del concetto precedente, secondo cui non esisterebbe prova dell’avvenuta realizzazione delle opere per cui è causa da parte della ricorrente attingendo a sue risorse economiche. L’affermazione circa la irriferibilità dell’ordine di bonifico alla Motus, probabilmente finanche estintasi, non ha spiegato alcuna influenza sul dispositivo della sentenza, essendo improduttiva di effetti giuridici non può essere oggetto di ricorso per cassazione, per difetto di interesse.
12. In definitiva, merita accoglimento il quarto motivo.
13. La sentenza è cassata in relazione al motivo accolto con rinvio alla Corte d’Appello di Torino in diversa composizione che provvederà anche a liquidare le spese del presene giudizio di legittimità.
PQM
La Corte accoglie il quarto motivo di ricorso, cassa in relazione al motivo accolto e rinvia la controversia alla Corte d’Appello di Torino, in diversa composizione, anche per la liquidazione delle spese del giudizio di legittimità.
Così deciso in Roma, nella Camera di Consiglio dalla Terza Sezione civile della Corte di cassazione, il 23 giugno 2021.
Depositato in Cancelleria il 23 novembre 2021
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