LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE SECONDA CIVILE
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. LOMBARDO Luigi Giovanni – Presidente –
Dott. GORJAN Sergio – Consigliere –
Dott. CARRATO Aldo – Consigliere –
Dott. GRASSO Giuseppe – rel. Consigliere –
Dott. CASADONTE Annamaria – Consigliere –
ha pronunciato la seguente:
SENTENZA
sul ricorso 27968-2016 proposto da:
F.G., elettivamente domiciliato in ROMA, VIA G.B. VICO 1, presso lo studio dell’avvocato LORENZO PROSPERI MANGILI, rappresentato e difeso dall’avvocato CARLO PAGANI, giusta procura in atti;
– ricorrente –
contro
CGI S.R.L. COMPAGNIA GENERALE DI INVESTIMENTI, in persona del legale rappresentante pro tempore elettivamente domiciliata in ROMA, VIA FABIO MASSIMO, 45, presso lo studio dell’avvocato LUIGI MATTEO, che la rappresenta e difende unitamente all’avvocato VALERIO BERGAMASCHI, giusta procura in atti;
– controricorrente –
avverso la sentenza n. 902/2016 della CORTE D’APPELLO di BRESCIA, depositata il 30/09/2016;
udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 09/06/2021 dal Consigliere GIUSEPPE GRASSO;
lette le conclusioni del P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale DOTT. MISTRI CORRADO.
FATTI DI CAUSA
1. F.G. esponeva con citazione di avere stipulato con la s.r.l. C.G.I Compagnia Generale Investimenti, in data 6/11/2000, un contratto preliminare di compravendita immobiliare, in qualità di promissario acquirente e, successivamente, in data 13/12/2001, il contratto definitivo di compravendita, avente a oggetto due unità immobiliari, l’una destinata ad abitazione e l’altra a studio notarile, nonché, nella medesima data, un contratto d’appalto, riguardante la ristrutturazione degli immobili acquistati; che l’opera avrebbe dovuto essere completata entro il 30/12/2002, con previsione di una penale di L. 1.000.000 per ogni giorno di ritardo; che la C.G.I. non aveva ultimato l’intervento nel termine convenuto, procurando, perciò danni all’esponente, quantificati in Euro 75.515,25, oltre IVA, per i lavori non eseguiti nell’abitazione, in Euro 116.049,06, oltre IVA, per quelli non eseguiti nello studio professionale, in Euro 12.040,00 per lavori non eseguiti nelle parti comuni, in Euro 5.174,50 per mancato uso della rimessa; che la superficie dell’immobile venduto adibito a studio era inferiore di oltre 1/20 rispetto a quanto dichiarato, con diritto alla restituzione di Euro 248.727.37, quantificato il costo per metro quadrato in L. 5.351.170; che le dimensioni della rimessa erano risultate insufficienti a consentire il parcheggio di due autovetture, a dispetto di quanto promesso; che emergevano ulteriori vizi, quantificati in Euro 15.000; che a titolo di penale per il ritardo era maturato un credito in suo favore per Euro 242.218,28. Ciò premesso, concludeva chiedendo la risoluzione del contratto per inadempimento della società convenuta e la restituzione del corrispettivo versato (Euro 544.165,51), con diritto a non essere tenuto a versare il residuo; nonché la condanna della medesima al pagamento delle somme sopra descritte.
2. Il Tribunale, rigettata ogni altra domanda, condannò la convenuta al pagamento della complessiva somma di Euro 21.400, oltre IVA e interessi, quale rimborso per i costi sostenuti per la demolizione e il rifacimento degli intonaci ammalorati. La Corte d’appello rigettò l’impugnazione del F..
3. Avverso la decisione d’appello l’insoddisfatto appellante propone ricorso corredato da sette motivi.
L’intimata resiste con controricorso.
Fissata pubblica udienza, non essendo pervenuta dalle parti e dal P.G. richiesta di discussione orale, ai sensi del D.L. n. 137 del 2020, art. 23, comma 8bis, convertito nella L. n. 176 del 2000, si è proceduto in camera di consiglio.
Il P.G. ha fatto pervenire le sue conclusioni scritte, con le quali ha chiesto “la declaratoria di parziale ammissibilità e, nel resto, (…) il rigetto del ricorso ed in subordine, comunque, (…) l’integrale rigetto del ricorso”.
RAGIONI DELLA DECISIONE
1. Con il primo motivo di doglianza il ricorrente prospetta violazione e/o falsa applicazione degli artt. 194,156,210 e 116 c.p.c., art. 90 disp. att. c.p.c., art. 2697 c.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3, assumendo che la Corte territoriale aveva errato, siccome il primo Giudice, ad affermare che il ricorrente non aveva dato la prova dell’oggetto del contratto d’appalto. Il ctu, esercitando i propri poteri e dando esecuzione al precipuo mandato, aveva acquisito dagli uffici preposti il carteggio dal quale era agevole ricavare il progetto d’intervento, redatto, nelle sue varie versioni, dalla geom. G.P., al quale la convenuta si sarebbe dovuta attenere. Rientra nelle facoltà del consulente del giudice acquisire informazioni “da elementi estranei al materiale prodotto dalle parti”, quando ciò appaia necessario per un conveniente espletamento del mandato. Impertinente doveva reputarsi l’evocazione del citato art. 90, il quale si riferisce esclusivamente agli scritti difensivi. L’attore aveva il solo onere di dimostrare l’esistenza del contratto e dell’inadempimento, mentre per il danno le parti avevano pattuito espressamente la penale. La decisione, infine, aveva disatteso, senza previa declaratoria di nullità, la ctu.
La doglianza è infondata.
Come ben noto la ctu non è un mezzo di prova e non esonera la parte dal provare i propri assunti e, nella specie, l’oggetto del contratto d’appalto. Contratto che risultava privo di planimetrie, disegni e capitolati, né risultava integrato da documenti dai quali fosse possibile trarne l’oggetto specifico.
Al contrario di quanto afferma il ricorrente, qui le improprie acquisizioni del ctu hanno supplito all’onere della prova dell’attore, il quale avrebbe dovuto dimostrare l’oggetto del contratto d’appalto. Oggetto che, peraltro, come precisa la sentenza d’appello, è comunque rimasto nebuloso anche agli occhi del ctu.
Di recente in questa sede (Sez. 2, n. 2671, 5/2/2020, Rv. 657091) si è chiarito che “La giurisprudenza di questa Corte, invero, ha più volte affermato che rientra nel potere del consulente tecnico d’ufficio attingere aliunde notizie e dati non rilevabili dagli atti processuali quando ciò sia indispensabile per espletare convenientemente il compito affidatogli (Cass. n. 13686 del 2001; Cass. n. 3105 del 2004; Cass. n. 13428 del 2007; Cass. n. 1901 del 2010; nel passato, Cass. n. 4644 del 1989), sempre che non si tratti di fatti costituenti materia di onere di allegazione e di prova delle parti poiché, in tal caso, l’attività svolta dal consulente finirebbe per supplire impropriamente al carente espletamento, ad opera delle stesse, dell’onere probatorio, in violazione dell’art. 2697 c.c. (Cass. n. 26893 del 2017, in motiv.; Cass. n. 12921 del 2015, per cui il consulente tecnico di ufficio ha il potere di acquisire ogni elemento necessario per espletare convenientemente il compito affidatogli, anche se risultanti da documenti non prodotti in giudizio, sempre che non si tratti di fatti che, in quanto posti direttamente a fondamento delle domande e delle eccezioni, debbono essere provati dalle parti).
Le indagini così svolte dal consulente tecnico, peraltro, possono concorrere alla formazione del convincimento del giudice, a condizione, però, che ne siano indicate le fonti, in modo che le parti siano messe in grado di effettuarne il controllo, a tutela del principio del contraddittorio (Cass. n. 1901 del 2010)”.
2. Con il secondo e il terzo motivo, tra loro correlati, il F. deduce violazione e/o falsa applicazione degli artt. 1382,2697,2723 e 2730 c.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3; nonché degli artt. 1387,1393,1398 e 1399 c.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3; nonché, infine, nullità della sentenza, ai sensi dell’art. 132 c.p.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 4, per assenza di motivazione.
Assume il ricorrente che la Corte di Brescia era incorsa in errore nell’affermare che i ritardi nell’esecuzione dei lavori erano da attribuirsi al notaio F., il quale aveva richiesto diverse varianti. L’asserto scaturiva dal convincimento espresso dal ctu, a sua volta fondato sul “sentito dire” di taluni soggetti interpellati dal medesimo. Inoltre, prosegue il F., la parte che invochi la rilevanza di varianti sopraggiunte deve darne la prova, nei limiti, peraltro ristretti di cui all’art. 2723 c.c.. Nessuna prova vi era in tal senso e tale non avrebbero potuto considerarsi i disegni di tale ing. P., che era “davvero ardito ritenere integranti richieste di varianti”. Ne’ vi era prova dell’accettazione delle modifiche dalla controparte e, ancor più, non vi era prova del fatto che l’ing. P. fosse dotato dei poteri di rappresentanza necessari per incidere sull’appalto. In definitiva l’ing. P. era privo di potere di rappresentanza e il F. non aveva tenuto alcuna colpevole condotta tale da indurre la CGI all’opposto convincimento. Infine, la sentenza doveva valutarsi nulla, poiché le gravi lacune riscontrate erano tali da far reputare inesistente la motivazione.
La sentenza impugnata non poteva condividersi laddove afferma che “al committente incombe l’onere di fornire la dimostrazione del colpevole ritardo addebitabile all’appaltatore per ottenere il risarcimento dei danni da ritardata consegna dell’opera (…) prova che nel caso di specie non è stata fornita”, poiché, precisa il ricorrente, la clausola penale ha lo scopo di “predeterminare l’ammontare del danno, esonerando così il creditore dall’onere di fornire la relativa dimostrazione”.
Infine, invertendo la logica e il significato dell’interrogatorio formale, la decisione aveva attribuito valore di prova a favore alle dichiarazioni di C.P., rappresentante legale dell’appaltatrice, in palese violazione dell’art. 1730 c.c..
Il complesso censuratorio è infondato.
La critica, nella sostanza, al di là delle formule evocate, mira a un improprio riesame di merito e, in ispecie della motivata conclusione, secondo la quale l’ing. P. avesse rappresentato il committente.
A voler reputare che si fosse in presenza di una mera apparenza, la Corte locale spende completa motivazione sul punto e fa corretta applicazione del principio di diritto più volte affermato da questa Corte (cfr., da ultimo, Sez. 3, 18519 del 13/07/2018). A tutto concedere, non era logicamente ipotizzabile un’intrusione del P., in assenza di poteri, nonostante la diligente cura del committente; intrusione che, proprio perciò, per l’appropriatezza dell’intervento, per la conoscenza dei termini dell’opera da effettuare, non poteva non apparire pienamente legittima agli occhi dell’appaltatrice.
La clausola penale, è appena il caso di dire, non opera se il ritardo risulta provatamente incolpevole, come nel caso.
Le conclusioni tratte dalle dichiarazioni del rappresentante legale della convenuta non hanno assunto valore di apprezzabile rilievo nella complessiva economia della sentenza impugnata.
La protesta d’inesistenza della motivazione è destituita di giuridico fondamento. L’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, riformulato dal D.L. 22 giugno 2012, n. 83, art. 54 conv. in L. 7 agosto 2012, n. 134, introduce nell’ordinamento un vizio specifico denunciabile per cassazione, relativo all’omesso esame di un fatto storico, principale o secondario, la cui esistenza risulti dal testo della sentenza o dagli atti processuali, che abbia costituito oggetto di discussione tra le parti e abbia carattere decisivo (si rimanda alla sentenza delle S.U. n. 8053/2014); non residuano spazi per ulteriori ipotesi di censure che investano il percorso motivazionale, salvo, appunto, l’ipotesi, che qui non ricorre, del difetto assoluto di motivazione.
3. Con il quarto motivo il ricorrente prospetta violazione e falsa applicazione degli artt. 194 e 115 c.p.c., art. 90 disp. att. c.p.c., art. 2697 c.c..
A parere del F. la Corte locale aveva ingiustamente reputato provato che l’ing. P. fosse rappresentante del committente sulla base di quanto riferito dal ctu e del pari ingiustamente rigettato l’eccezione di nullità della consulenza, nella parte in cui questa aveva apprezzato l’incidenza di variazioni contrattuali sulla durata dei lavori. Per contro, non vi era prova che il “quarto progetto G.” fosse stato depositato su richiesta del F.. L’opinione espressa dal ctu era frutto di colloqui avuti da costui con i terzi (geom. G. e ing. B.). Trattavasi d’informazioni indebitamente acquisite, esulanti dalla ctu, utilizzate in violazione del principio del contraddittorio. Di conseguenza la nullità era rilevabile in ogni tempo, al di fuori del termine di cui all’art. 157 c.p.c..
La doglianza e’, per un verso, diretta a censurare inammissibilmente valutazioni di merito e per altro verso, infondata.
Vale sul punto il principio di diritto enunciato da questa Corte, secondo il quale la nullità della consulenza tecnica d’ufficio, derivante dalla mancata comunicazione alle parti della data di inizio delle operazioni peritali o attinente alla loro partecipazione alla prosecuzione delle operazioni stesse, avendo carattere relativo, resta sanata se non eccepita nella prima istanza o difesa successiva al deposito, per tale intendendosi anche l’udienza di mero rinvio della causa disposto dal giudice per consentire ai difensori l’esame della relazione, poiché la denuncia di detto inadempimento formale non richiede la conoscenza del contenuto dell’elaborato del consulente (Sez. 2, 1744, 24/01/2013, Rv. 624965; conf., ex multis, Sez. L., n. 8347/2010; Sez. 2, n. 22843/2006; Sez. L. n. 23493, 9/10/2017; Sez. 6, n. 21984, 11/9/2018). Risulta, quindi, evidente che l’eccezione di nullità per violazione del contraddittorio, avendo natura relativa, avrebbe dovuto essere dedotta nei termini di legge.
Nel resto, essendosi già chiarito in seno alla disamina del secondo e del terzo motivo il ruolo dell’ing. P., il motivo anela a un’alternativa ricostruzione del fatto.
4. Con il quinto motivo il ricorrente lamenta violazione e/o falsa applicazione dell’art. 1668 c.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3.
La Corte locale, afferma il ricorrente, aveva sostenuto che la risoluzione del contratto d’appalto potesse pronunziarsi solo nell’ipotesi della ricorrenza dei gravi i vizi di cui all’art. 1668 c.c.. Una tale tesi non era condivisibile, dovendo trovare pur sempre applicazione i principi in materia di risoluzione per colpa di cui all’art. 1453 e segg. c.c. e nel caso di specie la risoluzione era stata richiesta, non già per i vizi, ma per il ritardo nell’esecuzione dei lavori.
La doglianza è inammissibile, non avendo il ricorrente colto e, quindi, puntualmente censurato, la ratio decidendi. Invero, la Corte locale ha escluso che il ritardo fosse da reputare colpevole e, applicato l’art. 1668 c.c., quanto ai vizi, ne ha escluso la gravità.
Di conseguenza, la questione posta (dover trovare applicazione sempre e comunque la risoluzione ai sensi dell’art. 1453 c.c.) non è rilevante.
5. Con il sesto motivo il F. si duole della violazione e/o falsa applicazione degli artt. 1351 e 1538 c.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3.
Sostiene il ricorrente che il preliminare di compravendita “conteneva, oltre all’obbligazione di concludere il definitivo, anche altre obbligazioni autonome e ulteriori rispetto alla prima, quale quella di ultimare le parti comuni entro il 30 giugno 2002”. Inoltre, col medesimo contratto la promittente alienante si era impegnata “ad esitare all’esponente un ufficio della superficie di “…mq. 299,85 + sup. comune mq. 97,32…””. La sentenza aveva errato nel reputare che le predette statuizioni fossero state superate dal contratto definitivo, in mancanza di pattuizione contraria delle parti. L’asserto non era condivisibile, in quanto non predicabile per le disposizioni del preliminare dotate di piena autonomia e come tali non incise dal contratto definitivo.
Il motivo è infondato.
Pur vero che la pattuizione sul ritardo nei lavori era autonoma rispetto all’obbligo di far luogo al contratto definitivo, ma il ritardo, come si è visto, è stato correttamente giudicato dalla sentenza incolpevole.
Per contro la pattuizione sulla metratura di cui al preliminare, priva di autonomia, in quanto intimamente pertinente all’obbligo assunto con esso, risulta essere stata superata dal definitivo, che non contemplandola più, ha, perciò stesso, previsto la vendita a corpo. Ciò in conformità del consolidato orientamento maturato in sede di legittimità, secondo il quale qualora le parti, dopo aver stipulato un contratto preliminare, concludano in seguito il contratto definitivo, quest’ultimo costituisce l’unica fonte dei diritti e delle obbligazioni inerenti al particolare negozio voluto e non mera ripetizione del primo, in quanto il contratto preliminare resta superato da questo, la cui disciplina può anche non conformarsi a quella del preliminare, salvo che i contraenti non abbiano espressamente previsto che essa sopravviva. La presunzione di conformità del nuovo accordo alla volontà delle parti può, nel silenzio del contratto definitivo, essere vinta soltanto dalla prova – la quale deve risultare da atto scritto, ove il contratto abbia ad oggetto beni immobili – di un accordo posto in essere dalle stesse parti contemporaneamente alla stipula del definitivo, dal quale risulti che altri obblighi o prestazioni, contenute nel preliminare, sopravvivono, dovendo tale prova essere data da chi chieda l’adempimento di detto distinto accordo (Sez. 2, n. 9063, 5/6/2012, Rv. 622654).
6. Con il settimo motivo il ricorso ipotizza violazione e/o falsa applicazione dell’art. 246 c.p.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., assumendo che il Tribunale, prima e la Corte d’appello poi, avevano giudicato B.G. capace di rendere testimonianza, poiché al momento dell’assunzione non ricopriva più la carica di rappresentante legale della convenuta. Lo stesso, invece, avrebbe dovuto essere dichiarato incapace, poiché portatore d’interesse proprio nella causa, per due ordini di ragioni: avrebbe potuto essere chiamato in responsabilità proprio per la qualità all’epoca rivestita; al tempo della deposizione era ancora responsabile tecnico dell’impresa.
Il motivo è infondato.
L’interesse che procura l’incapacità a testimoniare deve essere, non solo giuridicamente apprezzabile, ma anche attuale e concreto, tale da giustificare un eventuale intervento in giudizio del terzo (cfr. ex multis, Sez. L, n. 21418 del 21/10/2015, Rv. 637578). Requisiti che qui risultano sicuramente assenti, senza contare che anche l’ipotizzato “interesse” di fatto appare frutto di astratta congettura.
7. Il ricorrente va condannato a rimborsare le spese in favore della e tenuto conto del valore, della qualità della causa e delle attività svolte, siccome in dispositivo.
8. Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1-quater (inserito dalla L. n. 228 del 2012, art. 1, comma 17) applicabile ratione temporis (essendo stato il ricorso proposto successivamente al 30 gennaio 2013), si dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento da parte del ricorrente di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso principale, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis se dovuto.
PQM
rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di legittimità in favore della controricorrente, che liquida in Euro 10.000,00 per compensi, oltre alle spese forfettarie nella misura del 15 per cento, agli esborsi, liquidati in Euro 200,00, e agli accessori di legge;
ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1-quater (inserito dalla L. n. 228 del 2012, art. 1, comma 17), si dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento da parte del ricorrente, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso principale, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis se dovuto.
Così deciso in Roma, nella camera di consiglio, il 9 giugno 2021.
Depositato in Cancelleria il 24 novembre 2021
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