Corte di Cassazione, sez. I Civile, Sentenza n.38330 del 03/12/2021

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LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE PRIMA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. CAMPANILE Pietro – Presidente –

Dott. MARULLI Marco – Consigliere –

Dott. LAMORGESE Antonio P. – Consigliere –

Dott. CARADONNA Lunella – rel. Consigliere –

Dott. REGGIANI Eleonora – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso n. 24350/2016 proposto da:

C.G., nato a *****, in qualità di erede di C.G., deceduto il *****, rappresentato e difeso dall’Avv. Francesca Sassano, ed unitamente a lei elettivamente domiciliato presso l’Avv. Giuseppe Lepore in Roma, via Polibio, n. 15 giusta procura alle liti a margine del ricorso per cassazione;

– ricorrente –

contro

Università degli Studi della Basilicata, nella persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentata e difesa dall’Avvocatura generale dello Stato, presso i cui uffici, in Roma, via dei Portoghesi, n. 12, è domiciliata;

– controricorrente –

e C.A. e C.G., nato a Potenza il 12 febbraio 1936, rappresentati e difesi, giusta procura speciale a margine del controricorso e ricorso incidentale, dagli Avv.ti Orazio Abbamonte e Raffaele De Bonis Cristalli, tutti elettivamente domiciliati in Roma, alla via N. Porpora, n. 12 (studio Traisci-Titomanlio).

– controricorrente e ricorrenti incidentali –

e nei confronti di:

Consorzio Basilicata 4, nella persona del liquidatore e legale rappresentante pro tempore;

– intimato –

avverso la sentenza della Corte di appello di POTENZA n. 328/2016 pubblicata il 29 settembre 2016, non notificata;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del 30/09/2021 dal Consigliere CARADONNA Lunella;

udito il P.M., in persona del Sostituto Procuratore Generale VITIELLO Mauro, che ha concluso per il rigetto del ricorso principale e per l’accoglimento del ricorso incidentale, limitatamente al secondo motivo;

udito, per il ricorrente, l’Avv. Emanuele in sostituzione dell’Avv. Francesca Sassano, che ha concluso per l’accoglimento del ricorso.

FATTI DI CAUSA

1. Con sentenza del 29 settembre 2016, la Corte d’appello di Potenza ha accolto l’appello proposto dall’Università degli Studi della Basilicata avverso la sentenza 28 marzo 2013, n. 513 emessa dal Tribunale di Potenza, adito in sede di riassunzione con atto di citazione del 17 dicembre 1999, rigettando la domanda formulata da C.G., C.A. e C.G. di risarcimento danni per l’illegittima occupazione del suolo di loro proprietà, finalizzata alla costruzione della nuova sede dell’Università degli Studi della Basilicata.

2. Questa Corte, infatti, con sentenza 5 maggio 1999, n. 4469, in sede di regolamento di competenza, aveva dichiarato la competenza per materia della Corte di appello di Potenza a conoscere la domanda di opposizione alla stima e la competenza del Tribunale di Potenza a conoscere la domanda di risarcimento danni per occupazione appropriativa, statuendo il seguente principio di diritto: “Qualora il privato sul presupposto della ininfluenza del decreto di esproprio per pregressa perdita della proprietà del fondo illegittimamente occupato a seguito della sua irreversibile acquisizione nell’opera pubblica chieda il risarcimento del danno, la relativa domanda esula dalla cognizione in un unico grado della Corte di Appello prevista dalla L. 22 ottobre 1971, n. 865, art. 19, per l’opposizione alla stima ed è sottoposta alle ordinarie regole di competenza per valore. Tale principio opera anche se sia stata proposta subordinatamente, nello stesso giudizio o separatamente in altro processo, domanda di opposizione alla stima in ipotesi di irritualità della procedura espropriativa, fermo restando per la Corte di Appello competente a decidere sull’opposizione medesima l’obbligo di sospendere il giudizio ai sensi dell’art. 295 c.p.c. in attesa della definizione della causa risarcitoria (con la pregiudiziale questione della rilevanza o meno del provvedimento ablativo)”.

3. Il Tribunale di Potenza, dopo avere disposto due consulenze tecniche d’ufficio, accogliendo la domanda degli attori, ritenuta la natura edificabile del suolo in ragione della vicinanza ad aree edificatorie, ha condannato l’Università degli Studi della Basilicata al pagamento della somma di Euro 3.296.225,51, oltre accessori.

4. La Corte di appello di Potenza, adita dall’Università degli Studi della Basilicata, per quel che rileva in questa sede, ha affermato che:

– la difesa erariale aveva espresso articolate ragioni di doglianza sui punti specifici della sentenza di primo grado, con conseguente ammissibilità dell’appello ai sensi dell’art. 342 c.p.c.;

– già nella relazione a firma del consulente tecnico d’ufficio, ing. B.S., era stato evidenziato che, con decreto del Presidente della Giunta Regionale n. 901 del 27 luglio 1989, era stata approvata la variante generale del Piano regolatore del Comune di Potenza che aveva inserito l’area di *****, in cui era collocato il suolo appartenenti ai C., nella zona contraddistinta dalla sigla F2 prevista per l’insediamento del Polo Universitario;

– anche il consulente tecnico d’ufficio nominato in secondo grado aveva evidenziato che il certificato di destinazione urbanistica aveva individuato il suolo oggetto di causa come interamente ricadente, sia al momento dell’occupazione ed immissione in possesso, sia al momento della irreversibile trasformazione, nell’area F2 “2 Centro direzionale Poli USB/centro Studi”;

– l’art. 13 delle norme tecniche di attuazione del P.R.G. del 1989, rimandavano alla variante urbanistica al P.R.G. del 1971, introdotta a seguito dell’approvazione del progetto di localizzazione del secondo Polo dell’Università degli Studi di Basilicata in località *****, effettuata dalla Regione Basilicata con D.P.G.R. n. 542/1986;

– il momento temporale cui dare rilievo era l’irreversibile trasformazione del suolo, avvenuta nel 1993, e non già il momento della sua occupazione, come affermato dai C. e che, in ogni caso, anche anteriormente all’entrata in vigore del D.L. n. 333 del 1992, art. 5 bis, convertito dalla L. n. 359 del 1992, il criterio preminente per stabilire l’edificabilità di un’area, secondo la giurisprudenza dominante, era quello dell’inquadramento urbanistico che ne attribuiva una destinazione “legale”;

– emergeva dalle risultanze processuali e dallo stesso richiamo alla sentenza del TAR Basilicata n. 517/2011 che le pronunce del giudizio amministrativo avevano avuto ad oggetto le attività prodromiche al decreto di esproprio e lo stesso decreto di esproprio e non avevano, quindi, riguardato il percorso approvativo del piano regolatore, che continuava a disciplinare la destinazione delle aree per cui era causa, con conseguente validità del certificato di destinazione urbanistica rilasciato dal Comune di Potenza;

– peraltro, anche anteriormente alla variante al Piano regolatore generale, nella originaria previsione di piano, risalente al 1971 (P.R.G. approvato con D.M. n. 3159 del 29 ottobre:1071 e pubblicato sulla G.U. n. 301 del 29 novembre 1971) il suolo oggetto di causa aveva destinazione agricola;

– non era condivisibile la tesi dei C. in merito alla circostanza che in sede risarcitoria non era consentito rimettere in discussione la natura edificatoria dei suoli riconosciuta nella precedente fase espropriativa, perché le valutazioni operate e l’offerta di pagamento di indennità effettuata dall’ente pubblico nel procedimento amministrativo di esproprio erano state travolte, al pari del decreto di esproprio, da dichiarazione di illegittimità nel giudizio amministrativo e non potevano produrre effetti analoghi ad un accertamento contenuto in una sentenza passata in giudicato; con l’atto di appello era stata fatta valere proprio l’erroneità della pronuncia del tribunale che aveva liquidato il risarcimento senza tenere conto della inedificabilità del suolo; non sussisteva alcuna violazione dell’art. 345 c.p.c. e o del principio di corrispondenza tra il chiesto e il pronunciato perché i C. avevano chiesto, in primo grado, genericamente che fosse determinato il valore venale del suolo e la difesa erariale, nell’invocare l’applicazione del D.L. n. 333 del 1992, art. 5 bis, aveva chiesto la determinazione del giusto risarcimento dovuto per legge, senza per questo vincolare il giudice ad una pronuncia che tenesse conto della natura edificabile delle aree;

– la questione della natura del bene, in ogni caso, in quanto inserita in un percorso logico volto ad ottenere il risarcimento del danno per la perdita della proprietà ed allegata in funzione della prova di tale ultimo requisito, non era qualificabile come fatto principale, bensì come fatto secondario la cui valutazione doveva ritenersi implicitamente messa in discussione;

– la circostanza che il suolo oggetto di causa fosse inserito in zona inedificabile ad opera del privato era già emersa in primo grado in quanto il consulente tecnico d’ufficio, aveva dettagliatamente descritto le vicende che avevano condotto alla destinazione urbanistica dell’area e l’attività svolta dal consulente tecnico era stata un’attività espressamente delegatagli (con il quesito sub a) in applicazione dell’art. 194 c.p.c., comma 1, ultima parte, rientrante nell’attività di acquisizione di informazioni da terzi e, comunque, attività necessaria per rispondere al quesito.

5. C.G., nato a *****, in qualità di erede di C.G., ricorre in cassazione con atto affidato a quattro motivi.

6. L’Università degli Studi della Basilicata resiste con controricorso.

7. C.A., C.G., nato a *****, hanno depositato controricorso e ricorso incidentale affidato a due motivi.

8. Il Consorzio Basilicata 4 non ha svolto difese.

9. Il ricorrente ha depositato memoria.

RAGIONI DELLA DECISIONE

1. In via preliminare va disattesa l’eccezione di inammissibilità del ricorso per difetto di procura speciale, stante il principio statuito da questa Corte secondo cui, ai fini della specialità della procura, richiesta dall’art. 365 c.p.c. per il ricorso per cassazione, non rileva che la relativa formula faccia specifico riferimento al giudizio di legittimità – in quanto essa, ove apposta in calce o a margine del ricorso, viene a costituire un “corpus” inscindibile con lo stesso, e così non consente dubbi sulla volontà della parte di proporre quel mezzo d’impugnazione – essendo, invece, il requisito della specialità garantito dal tenore delle espressioni usate nella redazione dell’atto, che facciano riferimento al procedimento cui si riferisce il ricorso (Cass., 20 giugno 2006, n. 14281).

2. Con il primo motivo il ricorrente lamenta, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4, la nullità della sentenza e del procedimento e la violazione dell’art. 342 c.p.c., per omesso rilievo dell’inammissibilità dell’appello per carenza dei requisiti prescritti dalla norma, ovvero dell’indicazione delle parti del provvedimento che si intendeva appellare e delle modifiche che erano state richieste alla ricostruzione del fatto compiuta dal giudice di primo grado.

2.1 Il motivo è inammissibile per difetto di autosufficienza.

2.2 In proposito questa Corte ha affermato che “il principio di autosufficienza del ricorso per cassazione – che trova la propria ragion d’essere nella necessità di consentire al giudice di legittimità di valutare la fondatezza del motivo senza dover procedere all’esame dei fascicoli di ufficio o di parte – trova applicazione anche in relazione ai motivi di appello rispetto ai quali siano contestati errori da parte del giudice di merito; ne discende che, ove il ricorrente denunci la violazione e falsa applicazione dell’art. 342 c.p.c., conseguente alla mancata declaratoria di nullità dell’atto di appello per genericità dei motivi, deve riportare nel ricorso, nel loro impianto specifico, i predetti motivi formulati dalla controparte; l’esercizio del potere di diretto esame degli atti del giudizio di merito, riconosciuto al giudice di legittimità ove sia denunciato un “error in procedendo”, presuppone comunque l’ammissibilità del motivo di censura, onde il ricorrente non è dispensato dall’onere di specificare (a pena, appunto, di inammissibilità) il contenuto della critica mossa alla sentenza impugnata, indicando anche specificamente i fatti processuali alla base dell’errore denunciato, e tale specificazione deve essere contenuta nello stesso ricorso per cassazione, proprio per assicurare il rispetto del principio di autosufficienza di esso” (Cass., 23 dicembre 2020, n. 29495).

2.3. Ciò posto, osserva la Corte come il ricorrente non abbia in alcun modo né indicato né riportato, alle pagine 6 – 12 dedicate alla trattazione del motivo, il contenuto dell’atto di appello proposto dalla Università degli Studi della Basilicata, di cui aveva denunciato, già in sede di giudizio di gravame, l’inammissibilità per difetto di specificità, così rendendo la doglianza generica ed irricevibile in questo giudizio di legittimità e ciò a fronte di quanto affermato dalla Corte di appello, a pag. 3 della sentenza impugnata, che ha ritenuto ammissibile l’appello, evidenziando che l’atto di impugnazione dell’Università appellante esprimeva articolate ragioni di doglianza sui punti specifici della sentenza di primo grado ed individuava con chiarezza le statuizioni investite dal gravame e le censure in concreto mosse alla motivazione della sentenza medesima, sicché non residuavano ragionevoli dubbi sui profili della decisione impugnata che l’ente appellante aspirava a vedere riformati.

3. Con il secondo motivo il ricorrente lamenta, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4, la nullità della sentenza e del procedimento e la violazione di proporre domande nuove in appello, così come sancito dall’art. 345 c.p.c. e del principio di corrispondenza tra chiesto e pronunciato, previsto dall’art. 112 c.p.c., in quanto l’appellante aveva introdotto con il gravame domande non proposte in primo grado, rimettendo in discussione questioni sulle quali si era già formato il giudicato con conseguente violazione dell’art. 2909 c.c..

3.1 Il motivo è infondato.

3.2 Non sussiste la violazione dell’art. 345 c.p.c., atteso che, come già affermato da questa Corte, solo l’attore o, al più, l’attore in riconvenzione, qualità che, in ogni caso, fanno difetto entrambe in capo all’Università degli Studi della Basilicata, che riveste pacificamente nel giudizio di primo grado il ruolo della convenuta, possono essere promotori di una domanda, intendendosi come tale ogni richiesta delle parti diretta ad ottenere l’attuazione in concreto di una volontà di legge che garantisca un bene all’attore o al convenuto e, in genere, ogni istanza che abbia un contenuto concreto formulato in conclusione specifica, sulla quale deve essere emessa pronuncia di accoglimento o di rigetto (cfr. fra le tante Cass., 13 luglio 2018, n. 18771).

3.3 Non sussiste nemmeno la violazione dell’art. 112 c.p.c. perché come precisato da questa Corte, nella sentenza richiamata n. 18771 del 2018, sebbene il principio di corrispondenza tra il chiesto ed il pronunciato riguarda il petitum, che va determinato con riferimento a quello che viene domandato sia in via principale che in via subordinata, in relazione al bene della vita che l’attore intende conseguire, ed alle eccezioni che in proposito siano state sollevate dal convenuto, nondimeno il limite che ne discende per il giudice, che non può perciò andare ultra petita et alligata, non è disgiungibile dal dovere che pure compete ad esso di decidere la domanda, in applicazione del principio iura novit curia, di talché il principio di corrispondenza tra il chiesto e il pronunciato “non osta a che il giudice renda la pronuncia richiesta in base ad una ricostruzione dei fatti autonoma rispetto a quella prospettata dalle parti” né al potere che pur sempre gli compete “di assegnare una diversa qualificazione giuridica ai fatti e ai rapporti dedotti in lite, nonché all’azione esercitata in causa, ricercando le norme giuridiche applicabili alla concreta fattispecie sottoposta al suo esame, e ponendo a fondamento della sua decisione principi di diritto diversi da quelli erroneamente richiamati dalle parti”.

3.4 La Corte d’appello, nel caso in esame, dando atto che con l’impugnativa proposta l’Università degli Studi della Basilicata aveva inteso far valere “proprio Perroneità della pronuncia con cui il primo giudice ha liquidato il risarcimento senza tenere conto della inedificabiltà del suolo”, ha fatto corretta applicazione del principio statuito da questa Corte secondo cui “in tema di liquidazione del danno da occupazione appropriativa, è necessario il preventivo accertamento della natura dell’area occupata, se edificabile o agricola, da condurre in base alla classificazione urbanistica” (Cass., 28 maggio 2004, n. 10820), essendo ricompresa la relativa questione nell’oggetto del processo nel quale l’Amministrazione aveva contestato l’entità della pretesa creditoria; né la Corte era condizionata, nell’esame della domanda, dalla qualificazione giuridica dedotta dalle parti, per cui nessuna valenza può assumere la circostanza che nel costituirsi in giudizio l’Amministrazione convenuta, richiamando la L. 23 dicembre 1996, n. 662, art. 3, comma 65, avesse preso posizione al riguardo in senso favorevole alla tesi della natura edificabile dei suoli oggetto di occupazione.

3.5 Mette conto rilevare, in ultimo, come è stato già affermato da questa Corte, che la questione della natura del bene, in quanto inserita in un percorso logico volto in ogni caso ad ottenere il risarcimento del danno per la perdita della proprietà ed allegata esclusivamente in funzione di prova di quest’ultimo requisito, non può essere qualificata come fatto principale, la cui mancata contestazione da parte dell’appellato comporti la formazione di un giudicato interno, impedendo al giudice di secondo grado di riformularne la valutazione, ma come fatto secondario, la cui valutazione, rientrante nel procedimento logico seguito per giungere all’accertamento del fatto costitutivo, deve ritenersi implicitamente rimessa in discussione proprio per effetto della domanda propostà dagli appellanti (cfr. Cass., 16 marzo 2016, n. 5247).

4. Con il terzo motivo il ricorrente lamenta, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4, la nullità della sentenza e del procedimento e la violazione del principio dispositivo e dell’onere della prova, così come sanciti dall’art. 115 c.p.c. e art. 2697 c.c. in quanto la Corte territoriale aveva deciso sulla base di prove non prodotte in giudizio dalla parte appellante, ma acquisite dal consulente tecnico d’ufficio, su specifico incarico conferito dalla stessa, avuto riguardo in particolare al certificato di destinazione urbanistica.

4.1 Il motivo è inammissibile.

4.2 E’ utile ricordare che questa Corte ha statuito che nel caso in cui venga impugnata con ricorso per cassazione una decisione che si fondi su più ragioni, tutte autonomamente idonee a sorreggerla, è necessario, per giungere alla cassazione della pronuncia, non solo che ciascuna di esse abbia formato oggetto di specifica censura, ma anche che il ricorso abbia esito positivo nella sua interezza con l’accoglimento di tutte le censure, affinché si realizzi lo scopo proprio di tale mezzo di impugnazione, il quale deve mirare alla cassazione del provvedimento, per tutte le ragioni che autonomamente lo sorreggano (Cass., 12 ottobre 2007, n. 21431).

Ne consegue che è sufficiente che anche una sola delle dette ragioni non abbia formato oggetto di censura, ovvero, che pur essendo stata impugnata, sia stata rigettata, perché il ricorso debba essere respinto nella sua interezza, divenendo inammissibili, per difetto di interesse, le censure avverso le altre ragioni poste a base del provvedimento impugnato” (Cass., Sez. U., 8 agosto 2005, n. 16602).

4.3 Così nel caso in esame, la Corte territoriale, oltre ad affermare che la circostanza che il suolo oggetto di causa fosse stato inserito in zona inedificabile era già emersa in primo grado e che la destinazione urbanistica era stata già evidenziata dal consulente di parte dell’Amministrazione convenuta (ragione del decidere specificamente censurata a pag. 13 del ricorso per cassazione), ha pure affermato con un duplice iter argomentativo, che non è stato minimamente censurato dal ricorrente, che l’attività svolta dal consulente tecnico era stata un’attività espressamente delegatagli, in sede di formulazione del quesito “sub a” in applicazione dell’art. 194 c.p.c., comma 1, ultima parte,, rientrante nell’attività di acquisizione di informazioni da terzi e, specificamente, dal Comune di Potenza e che il consulente tecnico d’ufficio, in ogni caso, poteva svolgere detta attività, anche se questa non era stata espressamente prevista nel provvedimento di nomina, trattandosi di accertamento necessario per rispondere al quesito.

4.4 Peraltro, di recente, questa Corte ha affermato, nell’ottica di leggere l’art. 194 c.p.c., in connessione con le norme che disciplinano i poteri delle parti ed il principio dispositivo (artt. 112 e 115 c.p.c.) e con le norme che disciplinano l’istruttoria e l’assunzione dei mezzi di prova da parte del giudice (artt. 202 e ss. c.p.c.), che le informazioni che il consulente può domandare a terzi possono riguardare solo i fatti secondari e strettamente tecnici e non i fatti costitutivi della domanda o dell’eccezione (Cass., 6 dicembre 2019, n. 31886, in motivazione) e già si è detto della qualificazione come fatto secondario e non principale della questione della natura del bene, in quanto inserita in un percorso logico volto in ogni caso ad ottenere il risarcimento del danno per la perdita della proprietà ed allegata esclusivamente in funzione di prova di quest’ultimo requisito (Cass., 16 marzo 2016, n. 5247, citata).

5. Con il quarto motivo il ricorrente lamenta, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, la violazione della L. n. 2359 del 1865, art. 39, applicabile ratione temporis, che stabiliva quale criterio di liquidazione per l’espropriazione delle aree edificabili quello del giusto prezzo in una libera contrattazione di compravendita, avendo la Corte di appello fatto proprie le conclusioni del consulente tecnico d’ufficio al quale aveva affidato l’incarico di attenersi, per la determinazione dell’indennità, ai criteri di cui al D.P.R. n. 327 del 2001, art. 40, laddove fosse stato accertato che si trattasse di area agricola, mentre l’area era edificabile e doveva essere applicata la L. n. 2359 del 1865.

5.1 Il motivo è inammissibile.

5.2 Ed invero, senza prescindere dalla circostanza che con la presente doglianza si sovrappongono profili di censura già esposti riguardanti la natura edificatoria del suolo, il ricorrente ancora una volta ribadisce che l’occupazione è avvenuta nel 1991 e che la normativa di riferimento non poteva che essere quella dettata dalla L. n. 2359 del 1865, omettendo del tutto di censurare, anche qui il duplice iter argomentativo della Corte di appello, laddove ha affermato che il momento temporale cui dare rilievo era l’irreversibile trasformazione del suolo, avvenuta nel 1993, e non già il momento della sua occupazione e che, in ogni caso, anche anteriormente all’entrata in vigore del D.L. n. 333 del 1992, art. 5 bis, convertito dalla L. n. 359 del 1992, il criterio preminente per stabilire l’edificabilità di un’area, secondo la giurisprudenza dominante, era quello dell’inquadramento urbanistico che ne attribuiva una destinazione “legale”; inoltre, l’applicabilità della disciplina normativa dettata dalla legge fondamentale del 1865 non escludeva l’operatività dei principi giurisprudenziali in materia di criteri per il riconoscimento della edificabilità dell’area su cui insisteva l’immobile attinto dalla vicenda ablativa, che, sia al momento dell’occupazione ed immissione in possesso, sia al momento della irreversibile trasformazione del fondo, era interamente ricadente nell’area vincolata, con la variante generale del Piano regolatore del Comune di Potenza, approvata con decreto del Presidente della Giunta Regionale n. 901 del 27 luglio 1989, all’insediamento del Polo Universitario.

La Corte, inoltre, ha evidenziato che il consulente tecnico d’ufficio, prescindendo dal valore agricolo medio, come espressamente richiesto dai giudici di secondo grado, aveva effettuato una stima comparativa esaminando dapprima numerosi atti di trasferimento di suoli con analoghe caratteristiche, siti nel raggio di tre chilometri dal centro storico cittadino, effettuati negli anni 1990 -1992 e aveva, poi, ristretto l’esame agli atti di trasferimento di suoli entro il raggio di due chilometri dal centro; aveva, poi, considerato una serie di coefficienti di correzione determinati dalle concrete caratteristiche estrinseche (ubicazione, presenza di urbanizzazione) ed intrinseche (colture in atto, accessibilità, giacitura, esposizione, geometria del loro, sua integrità e presenza di fabbricati e/o di opere accessorie all’attività agricola) del fondo ed aveva così determinato il valore unitario di mercato in Euro 5.56 con riferimento all’anno 1991 e in Euro 6,56 con riferimento all’anno 1993.

Ciò peraltro, in applicazione dei principi affermati da questa Corte secondo cui “il sistema indennitario è ormai svincolato dalla disciplina delle formule mediane (dichiarata incostituzionale con sentenza n. 348 del 2007) e dei parametri tabellari, di cui alla L. n. 359 del 1992, art. 5 bis, commi 1 e 2, e della L. n. 865 del 1971, art. 16, commi 5 e 6, e risulta, invece, agganciato al valore venale del bene, e che, quindi, il serio ristoro che l’art. 42 Cost., comma 3, riconosce al sacrificio della proprietà per motivi d’interesse generale, si identifica con il giusto prezzo nella libera contrattazione di compravendita, id est col valore venale del bene, posto che la dichiarazione d’incostituzionalità dei menzionati criteri riduttivi ha fatto rivivere detto criterio base di indennizzo, posto dalla L. n. 2359 del 1865, art. 39 riconosciuto applicabile ai casi già soggetti al pregresso regime riduttivo (Cass. n. 11480 del 2008; n. 14939 del 2010; n. 6798 del 2013; n. 17906 del 2014), ed ora sancito dal del D.P.R. n. 327 del 2001, art. 37, comma 1, come modificato dalla L. n. 244 del 2007, art. 2, comma 90; tanto non comporta, tuttavia, che sia venuta meno, ai fini indennitari, la distinzione tra suoli edificabili e non edificabili, che è imposta dalla disciplina urbanistica in funzione della razionale programmazione del territorio – anche ai fini della conservazione di spazi a beneficio della collettività e della realizzazione di servizi pubblici – e che le regole di mercato non possono travalicare, l’inclusione dei suoli nell’uno o nell’altro ambito va effettuata in ragione di un unico criterio discretivo, fondato sulla edificabilità legale, posto dalla L. n. 359 del 1992, art. 5 bis, comma 3, tuttora vigente, e recepito nel T.U. espropriazioni di cui al D.P.R. n. 327 del 2001, artt. 32 e 37; in base a tale criterio, un’area va ritenuta edificabile solo quando la stessa risulti tale classificata al momento della vicenda ablativa dagli strumenti urbanistici (Cass., n. 7987/2011; Cass., n. 9891/2007; Cass., n. 3838/2004; Cass., n. 10570/2003; Cass., Sez. un., nn. 172 e 173/2001), e, per converso, le possibilità legali di edificazione vanno escluse tutte le volte in cui, per lo strumento urbanistico vigente all’epoca in cui deve compiersi la ricognizione legale, la zona sia stata concretamente vincolata ad un utilizzo meramente pubblicistico (verde pubblico, attrezzature pubbliche, viabilità ecc.) in quanto dette classificazioni apportano un vincolo di destinazione che preclude ai privati tutte quelle forme di trasformazione del suolo che sono riconducibili alla nozione tecnica di edificazione, da intendere come estrinsecazione dello ius aedificandi connesso al diritto di proprietà, ovvero con l’edilizia privata esprimibile dal proprietario dell’area (Cass. 14840/2013; Cass., n. 2605/2010; Cass. nn. 21095 e 16537/2009)” (Cass., 25 ottobre 2017, n. 25314).

6. C.A. e C.G. (nato il 12 dicembre 1936) hanno proposto ricorso incidentale affidato a due motivi.

7. Con il primo motivo si lamenta, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 4 e 5, la violazione degli artt. 88,99 e 112,115 e 345 c.p.c. e l’omessa motivazione di un punto decisivo della controversia oggetto di specifica contestazione, avendo la Corte d’appello violato il principio di corrispondenza fra il chiesto e il pronunciato, poiché la difesa erariale, costituendosi in giudizio, aveva preso posizione univocamente nel senso che venisse determinato il valore venale dell’immobile, tenendo conto della destinazione edificabile che ad esso era stato riconosciuto; la Corte d’appello, inoltre, aveva omesso di considerare la circostanza, segnalata nella comparsa conclusionale di replica, che l’Università, costituendosi davanti il Tribunale, aveva richiamato specificamente la modifica di cui al comma 7 bis, ovvero la speciale disciplina per il risarcimento del danno da occupazione illegittima di aree edificabili.

7.1 II motivo è sia infondato, che inammissibile.

7.2 Già si è detto che: non sussiste la violazione dell’art. 345 c.p.c., atteso che solo l’attore o l’attore in riconvenzione possono essere promotori di una domanda e tale non era la qualità rivestita dall’Università degli Studi della Basilicata; non sussiste nemmeno la violazione dell’art. 112 c.p.c., perché la Corte d’appello, che non era condizionata, nell’esame della domanda, dalla qualificazione giuridica dedotta dalle parti, ha fatto corretta applicazione del principio statuito da questa Corte secondo cui “in terna di liquidazione del danno da occupazione appropriativa, è necessario il preventivo accertamento della natura dell’area occupata, se edificabile o agricola, da condurre in base alla classificazione urbanistica” (Cass., 28 maggio 2004, n. 10820).

7.3 Il motivo, tuttavia, è pure inammissibile, sotto il profilo del dedotto omesso esame, atteso che il denunciato vizio di cui all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5 concerne esclusivamente l’omesso esame di un fatto storico, principale o secondario, la cui esistenza risulti dal testo della sentenza o dagli atti processuali, che abbia costituito oggetto di discussione tra le parti e che abbia carattere decisivo per il giudizio (Cass., Sez. U., sentenza 7 aprile 2014, n. 8053), nel cui paradigma non è inquadrabile la censura concernente l’omessa valutazione di deduzioni difensive (Cass., 18 ottobre 2018, n. 26305; Cass., 14 giugno 2017, n. 14802).

8. Con il secondo motivo si lamenta, in relazione all’art. 360, comma 1, nn. 3 e 4, la violazione ed erronea applicazione degli artt. 91 e 92, avendo la Corte d’appello condannato i ricorrenti al pagamento della metà delle spese processuali in favore del Consorzio Basilicata 4, pur avendo evidenziato che i C. non avevano impugnato la sentenza di primo grado nel rapporto processuale con il Consorzio Basilicata 4, né il Consorzio aveva impugnato la compensazione delle spese effettuata in primo grado nel rapporto processuale con gli attori; si lamenta, inoltre, la violazione degli artt. 10 e 132 c.p.c., avendo la Corte d’appello arbitrariamente determinato il valore della controversia, ai fini della liquidazione delle spese dei giudizi, in violazione del disposto del D.M. 10 marzo 2014, n. 55, art. 5 e art. 21, comma 1.

8.1 Il motivo è fondato nei limiti di cui in motivazione.

8.2 Ed invero, la Corte d’appello, dopo avere correttamente affermato, a pag. 21 della sentenza impugnata, che i C. non avevano impugnato la sentenza resa dal Tribunale di Potenza nel rapporto processuale con il Consorzio Basilicata 4, ha errato nel condannare C.G., C.A. e C.G. al pagamento, in favore del Consorzio Basilicata 4, delle spese processuali, nella misura di metà del loro importo complessivo (liquidato nella somma di Euro 42.095,00, oltre accessori), tenuto conto che gli appellati non aveva formulato alcuna richiesta nei confronti del Consorzio Basilicata 4 e che anche il Consorzio non aveva impugnato la decisione di primo grado; l’appello, infatti, era stato proposto dall’Università degli Studi della Basilicata nei confronti dei C. e del Consorzio Basilicata 4.

8.3 E’ infondato, tuttavia, il profilo di censura relativa al valore effettivo della controversia da ricondursi secondo i ricorrenti in via incidentale a quello che prevede come valore della causa il valore indeterminabile da ricondursi allo scaglione non superiore a Euro 260.000,00 e non a quello dello scaglione 2.000.000,01 ad Euro 4.000.000,00), effettivamente applicato dalla Corte di appello.

Questa Corte, anche di recente, ha affermato che la norma che dispone che nei giudizi civili per pagamento di somme di denaro, la liquidazione degli onorari a carico del soccombente deve effettuarsi avendo riguardo alla somma attribuita alla parte vincitrice piuttosto che a quella domandata, si riferisce all’accoglimento, anche parziale, della domanda medesima, mentre nel caso di rigetto della domanda il suddetto valore è pari alla somma infondatamente richiesta dall’attore (Cass., 12 giugno 2019, n. 15857).

In applicazione dei criteri richiamati, il valore da tenere in considerazione, ai fini della regolamentazione delle spese processuali, è la somma di Euro 3.296.225,51, oltre accessori, come correttamente ritenuto dai giudici di merito.

9. In conclusione, il ricorso principale va rigettato; va rigettato il primo motivo del ricorso incidentale ed accolto il secondo motivo nei sensi di cui in motivazione; la sentenza impugnata va cassata, in relazione al motivo accolto e, la causa, sul punto, può essere decisa anche nel merito, ex art. 384 c.p.c., non essendo necessari altri accertamenti in fatto.

Il ricorrente va condannato al pagamento delle spese processuali, sostenute dalla Università degli Studi della Basilicata e liquidate come in dispositivo, nonché al pagamento dell’ulteriore importo, previsto per legge e pure indicato in dispositivo; le spese processuali del giudizio di legittimità tra i ricorrenti in via incidentale e l’Università degli Studi della Basilicata, in ragione della reciproca soccombenza, vanno interamente compensate.

PQM

La Corte rigetta il ricorso principale; rigetta il primo motivo del ricorso incidentale, con accoglimento del secondo motivo, nei sensi di cui in motivazione; cassa la sentenza impugnata, in relazione al motivo accolto e, decidendo la causa nel merito, elimina la statuizione sulle spese processuali disposta a carico di C.G., C.A. e C.G., in favore del Consorzio Basilicata 4; condanna il ricorrente principale al pagamento delle spese processuali, in favore della controricorrente Università degli Studi della Basilicata, delle spese del giudizio di legittimità, che liquida in Euro 20.000,00, per compensi, oltre alle spese prenotate a debito; compensa interamente le spese processuali del presente giudizio tra i ricorrenti in via incidentale e la controricorrente Università degli Studi della Basilicata.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, inserito dalla L. n. 228 del 2012, art. 1, comma 17, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente in via principale, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso principale, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio, il 30 settembre 2021.

Depositato in Cancelleria il 3 dicembre 2021

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