LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE SECONDA CIVILE
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. DI VIRGILIO Rosa Maria – Presidente –
Dott. FALASCHI Milena – Consigliere –
Dott. ABETE Luigi – Consigliere –
Dott. SCARPA Antonio – rel. Consigliere –
Dott. CRISCUOLO Mauro – Consigliere –
ha pronunciato la seguente:
ORDINANZA
sul ricorso 2866-2017 proposto da:
*****, elettivamente domiciliato in ROMA, PIAZZA ADRIANA 8, presso lo studio dell’avvocato GIOVANNI FRANCESCO BIASIOTTI MOGLIAZZA, che lo rappresenta e difende unitamente all’avvocato LUCA RANALLI;
– ricorrente –
contro
R.A.M.F., R.V., elettivamente domiciliati in ROMA, PIAZZA DEI RE DI ROMA 57, presso lo studio dell’avvocato ROBERTO PASQUALI, che li rappresenta e difende;
– controricorrenti –
nonché contro R.A.R.;
– intimata –
avverso la sentenza n. 5263/2016 della CORTE D’APPELLO di ROMA, depositata il 07/09/2016;
udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del 09/11/2021 dal Consigliere SCARPA ANTONIO.
FATTI DI CAUSA E RAGIONI DELLA DECISIONE
1. Il ***** ha proposto ricorso articolato in sei motivi avverso la sentenza n. 5263/2016 della Corte d’appello di Roma, pubblicata il 7 settembre 2016.
2. Resistono con controricorso R.V. e R.A.M.F..
L’altra intimata R.A.R. non ha svolto attività difensive.
3. Con citazione del 16 gennaio 2004 C.G. convenne in giudizio il *****, per ottenere il risarcimento dei danni, stimati in Euro 57.387,00, conseguenti alla mancata esecuzione dei lavori ordinati dal Pretore di Roma all’esito di ricorso ex art. 688 c.p.c. (ordinanza cautelare del 7 giugno 1991 e sentenza n. 2569/1993), volti a porre rimedio alle infiltrazioni d’acqua che si verificavano nell’unità immobiliare di proprietà dell’attrice. Dopo la morte di C.G., il processo venne proseguito dagli eredi R.V., R.A.M.F. ed R.A.R.. Il Tribunale di Roma, preso atto della somma di Euro 7.747,00 già ricevuta pilla C. in forza della transazione di cui al verbale dell’assemblea condominiale del 28 gennaio 1994, ed accertati danni all’appartamento pari ad Euro 8.735,00, condannò con sentenza n. 20749/2008 il Condominio di via ***** al pagamento del residuo importo di Euro 989,00, oltre rivalutazione ed interessi, mentre respinse le domande attinenti al mancato utilizzo dell’immobile ed al rimborso delle spese per le perizie tecniche. Propose appello soltanto R.V., quale erede di C.G., ed il gravame è stato accolto dalla Corte di Roma con la sentenza n. 5263/2016, che ha condannato il Condominio di via ***** al pagamento della somma di Euro 42.309,00. La Corte d’appello ha affermato che la pronuncia di primo grado non aveva considerato l’ulteriore degrado dell’appartamento di proprietà C. in conseguenza della incompleta esecuzione dei lavori individuati dal CTU nel procedimento nunciatorio (esecuzione parziale confermata sia dalla lettera 18 marzo 1994 dell’amministratore condominiale, che riferiva della supposta inidoneità delle opere indicate dall’ausiliare del giudice, sia dalla relazione di accertamento tecnico preventivo del 18 giugno 2002). Poiché la mancata esecuzione dei lavori di ripristino ordinati nel procedimento di nunciazione aveva comportato un aggravamento dei danni rispetto a quelli maturati fino all’epoca della transazione di cui al verbale dell’assemblea condominiale del 28 gennaio 1994, non potendo la medesima transazione coprire i danni ad essa successivi comunque imputabili all’inerzia del Condominio, la Corte d’appello ha così determinato, alla stregua della consulenza di parte dell’architetto Cocciolo, in Euro 3.694,00 gli ulteriori costi per lavori di ripristino dell’appartamento, non già indennizzati dalla somma liquidata in via transattiva. La sentenza impugnata ha altresì liquidato Euro 24.000,00 (poi rivalutati e maggiorati di interessi per una cifra finale di Euro 35.816,10) per il “disagio esistenziale nella fruizione dell’appartamento costituente la sua abitazione” patito da C.G., stimando il pregiudizio in quota pari a circa 1/4 del valore dell’immobile, tenuto conto delle dimensioni, dell’ubicazione e della posizione dello stesso e delle stime di mercato; anche tale importo non rimaneva assorbito da quello di Euro 5.165,00 già riconosciuto in sede transattiva per i danni da diminuito godimento dell’immobile maturati sino al 1994/1995. La Corte d’appello ha altresì riconosciuto il “danno per esborsi relativi a compensi e tecnici ed avvocati che hanno supportato la C. nelle varie fasi extragiudiziali della vicenda” (consulenze tecniche di parte e spese legali per “10 lettere circa” inviate dagli avvocati Pasquale e Croce), liquidando l’ulteriore importo di Euro 4.705,00, ovvero di Euro 6.493,00 rivalutato e maggiorato di interessi.
4. La trattazione del ricorso è stata fissata in camera di consiglio, a norma degli artt. 375 c.p.c., comma 2, e art. 380 bis.1,. Il ricorrente ha depositato memoria.
5. Il primo motivo del ricorso del *****Montepulciano n. 54***** allega la violazione degli artt. 81 e 345 c.p.c., essendo stato liquidato l’intero credito ereditario in favore della sola coerede appellante R.V., e non anche degli altri coeredi R.A.M.F. ed R.A.R., parimenti costituitisi nel giudizio davanti al Tribunale dopo la morte dell’attrice C.G.. Secondo il ricorrente, a seguito della sentenza di primo grado si era venuta a creare una situazione di solidarietà attiva di un credito indiviso, di talché l’erede appellante avrebbe dovuto agire per l’intero credito non a proprio favore, ma a beneficio della comunione indivisa. R.V., pertanto, non aveva diritto di chiedere la liquidazione di somme già dichiarate dovute in favore degli altri coeredi in solido.
Il secondo motivo di ricorso lamenta la violazione degli artt. 459,727 e 757 c.c., sempre per essere stato liquidato l’intero credito ereditario in favore della sola coerede appellante R.V., stavolta invocando le norme sulla comunione ereditaria.
5.1. I primi due motivi di ricorso devono esaminarsi congiuntamente, in quanto evidentemente connessi, e risultano infondati.
5.2. Secondo consolidato orientamento di questa Corte, in conformità al principio generale per cui ciascun soggetto partecipante alla comunione può esercitare singolarmente le azioni a vantaggio della cosa comune senza necessità di integrare il contraddittorio nei confronti di tutti gli altri partecipanti, perché il diritto di ciascuno di essi investe la cosa comune nella sua interezza, ogni coerede può agire per ottenere la riscossione dell’intero credito del de cuius, non ponendosi la necessità della partecipazione al giudizio di tutti gli eredi del creditore. L’integrazione del contraddittorio nei confronti degli altri coeredi può essere richiesta dal convenuto debitore, se ed in quanto egli abbia interesse ad una pronuncia che faccia stato anche nei confronti di tutti i partecipanti alla comunione. I crediti del de cuius, dunque, non si dividono automaticamente tra i coeredi in ragione delle rispettive quote, ma entrano a far parte della comunione ereditaria; ciascuno dei partecipanti ad essa può agire singolarmente per far valere l’intero credito ereditario comune o anche la sola parte di credito proporzionale alla quota ereditaria (Cass. Sez. 3, 16/04/2013, n. 9158; Cass. Sez. Unite, 28/11/2007, n. 24657; anche Cass. Sez. 3, 21/01/2020, n. 1148).
Va pertanto affermato il seguente principio:
allorché, come nel caso in esame, la sentenza di primo grado, avente ad oggetto un preteso credito risarcitorio del de cuius, sia stata pronunciata, a seguito della morte dell’originario titolare nel corso di giudizio e di riassunzione, nei confronti dei tre coeredi dello stesso, senza prevedere limitazioni pro quota né specificazione di una solidarietà attiva, anche il singolo coerede può proporre appello per l’intero credito ereditario o per la sola parte proporzionale alla quota ereditaria (ferma la necessità del litisconsorzio degli altri eredi per ragioni meramente processuali legate all’avvenuta trasmissione della legittimazione processuale della parte morta) e la pronuncia spiega i propri effetti nei riguardi di tutte le parti interessate, restando peraltro estranei all’ambito della tutela del diritto azionato i rapporti patrimoniali interni tra coeredi, destinati ad essere definiti con la divisione.
6. Il terzo motivo del ricorso del *****Montepulciano n. 54***** deduce la violazione dell’art. 2697 c.c. nonché degli artt. 115 e 116 c.p.c., relativamente all’accertamento ed alla quantificazione dei danni da ripristino dell’appartamento C.. Per il ricorrente, i danni accertati dal CTU Bartuli erano stati già risarciti con il pagamento della somma di lire 15.000.000 in forza della delibera assembleare del 28 gennaio 1994 ed avrebbe errato la Corte d’appello nel ritenere che, dopo l’accordo transattivo consacrato in tale delibera, sarebbe insorta la necessità di ulteriori lavori di riparazione, non potendosi dire accertata tale circostanza sulla scorta della perizia di parte Cocciolo, la quale aveva il solo scopo di attualizzare i costi dei lavori interni, stimati nell’importo di Lire 5.000.000 nel 1993. Si menzionano nella censura altri documenti posti dall’appellante a fondamento della propria domanda (“perizia Villa e fattura Venanzi”), non esaminati dalla Corte d’appello e comunque anch’essi non comprovanti l’inesatta esecuzione dei lavori. Il ricorrente cita anche la prova testimoniale del Venanzi, che smentiva i documenti da ultimo richiamati.
Il quarto motivo di ricorso denuncia la violazione dell’art. 112 c.p.c., relativamente all’accertamento ed alla quantificazione dei danni da mancato godimento dell’appartamento C.. Il ricorrente lamenta che la Corte d’appello di Roma ha liquidato un risarcimento del danno da diminuito utilizzo dell’immobile in relazione ad un periodo di ventiquattro anni (dal 1991 al 2015), senza tener conto della transazione al 1995 per lire 10.000.000, e senza che fosse stata avanzata domanda in tal senso. Il ricorrente afferma che l’atto di citazione che introdusse il giudizio aveva richiesto il danno da mancato godimento dell’immobile dal gennaio 1994 al dicembre 2003 e che tale domanda non era mai stata modificata nel corso del giudizio.
Il quinto motivo di ricorso denuncia la violazione degli artt. 2043, 2056, 1123 (da intendere: 1223) e art. 1226 c.c., sempre in relazione alla liquidazione dei danni da mancato godimento dell’immobile. Riprendendo quanto già esposto nel quarto motivo, si aggiunge che i giudici di appello avrebbero dovuto calcolare il danno a partire dal 1996 e al più fino al 13 marzo 2006, giorno della morte di C.G., spettando i danni inerenti al periodo successivo solo agli eredi. Si lamenta, inoltre, la liquidazione del danno fatta in base al valore attuale dell’immobile e non secondo il valore rapportato anno per anno.
6.1 Terzo, quarto e quinto motivo di ricorso vanno esaminati congiuntamente, attenendo tutti alla liquidazione dei danni contenuta nella sentenza impugnata. Tali censure sono accomunate da identici profili di inammissibilità, ai sensi dell’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 6, in quando sono fondate su atti e documenti (l’accordo transattivo risultante dal verbale di assemblea del 28 gennaio 1994, la “CTU geom. B.”, la “CTP C.”, “perizia Villa e fattura Venanzi”, testimonianza Venanzi) dei quali non viene specificamente indicato il contenuto saliente, in maniera da consentire una delibazione preliminare dei motivi.
6.2. I tre motivi qui trattati rivelano anche carenza di specifica riferibilità alla “ratio decidendi” della sentenza impugnata (art. 366 c.p.c., comma 1, n. 4), la quale ha in motivazione costantemente considerato l’accordo transattivo “risultante dal verbale di assemblea del 28/1/1994 e dal carteggio degli anni ‘94/’95” e comportante il riconoscimento in favore della C. delle somme di lire cinque milioni per i lavori all’interno dell’appartamento e di lire dieci milioni per il mancato utilizzo del bene. Non di meno, per la Corte d’appello quella transazione non copriva i danni successivi, dovuti all’aggravamento del degrado complessivo e alla necessità di rinnovazione dei lavori.
Si tratta di questione di interpretazione della volontà delle parti con riferimento, nella specie, ad una transazione intervenuta a seguito di un procedimento di nunciazione e per prevenire un giudizio di risarcimento del danno. La sentenza impugnata ha ritenuto che la danneggiata C., e quindi i suoi eredi, pur avendo transatto la lite nel 1994, ben potessero chiedere il risarcimento dei danni all’immobile per aggravamenti manifestatisi successivamente e non accertabili né prevedibili al momento della transazione, giacché causalmente conseguenti alla mancata integrale esecuzione delle condanne pronunciate nell’iniziale procedimento nunciatorio. In tal modo, la Corte d’appello di Roma ha individuato l’ambito dell’accordo e ha ricostruito la comune intenzione dei contraenti in base al testo da esse sottoscritto, e il ricorso non pone al riguardo censure per violazione dei criteri di ermeneutica contrattuale né per omesso esame ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5.
6.3 Il primo motivo di ricorso denuncia la violazione dell’art. 2697 c.c. e degli artt. 115 e 116 c.p.c..
Tuttavia:
a) La violazione del precetto di cui all’art. 2697 c.c. si configura soltanto nell’ipotesi che il giudice abbia attribuito l’onere della prova ad una parte diversa da quella che ne è gravata secondo le regole dettate da quella norma, non anche quando, come lamenta il ricorrente, a seguito di una incongrua valutazione delle acquisizioni istruttorie, il giudice abbia errato nel ritenere che la parte onerata (nella specie, di dimostrare i danni subiti) abbia assolto tale onere, poiché in questo caso vi è soltanto un erroneo apprezzamento sull’esito della prova;
b) la violazione dell’art. 115 c.p.c. può essere dedotta come vizio di legittimità solo denunciando che il giudice ha dichiarato espressamente di non dover osservare la regola contenuta nella norma, ovvero ha giudicato sulla base di prove non introdotte dalle parti, ma disposte di sua iniziativa fuori dei poteri officiosi riconosciutigli, e non anche che il medesimo, nel valutare le prove proposte dalle parti, ha attribuito maggior forza di convincimento ad alcune piuttosto che ad altre;
c) la violazione dell’art. 116 c.p.c. (norma che sancisce il principio della libera valutazione delle prove, salva diversa previsione legale) è idonea ad integrare il vizio di cui all’art. 360 c.p.c., n. 4 quando il giudice di merito abbia disatteso tale principio in assenza di una deroga normativamente prevista, ovvero, all’opposto, abbia valutato secondo prudente apprezzamento una prova o risultanza probatoria soggetta ad un diverso regime (ex multis, Cass. Sez. 3, 10/06/2016, n. 11892).
La stessa invocazione del vizio di cui all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, come riformulato dal D.L. 22 giugno 2012, n. 83, art. 54, conv. in L. 7 agosto 2012, n. 134, non si adatta ad una censura di omesso o erroneo esame di elementi istruttori qualora il fatto storico, rilevante in causa, sia stato comunque preso in considerazione dal giudice, ancorché la sentenza non abbia dato conto di tutte le risultanze probatorie (Cass. Sez. Unite, 07/04/2014, n. 8053).
Nel riconoscere il diritto al risarcimento danni conseguenti alla inosservanza delle statuizioni adottate nell’ordinanza nunciatoria e nella successiva sentenza, consistenti nella somma di denaro occorrente per l’esecuzione delle riparazioni dell’appartamento e nella mancata utilità ritraibile dalla cosa, la Corte d’appello ha proceduto ad un accertamento di fatto quanto al nesso di causalità che legava l’evento alle conseguenze dannose risarcibili e quanto all’effettiva lesione del patrimonio dell’attrice, insindacabile in sede di legittimità sub specie della violazione di norme di diritto ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3.
6.4. Il terzo motivo del ricorso del ***** non consiste, a ben vedere, nella denuncia di una violazione o falsa applicazione di norme di legge, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, per errore nel giudizio di diritto (e cioè per la negazione o il fraintendimento di una norma astratta di legge esistente o per l’affermazione di una norma astratta di legge non esistente), né rappresentano un errore nel giudizio su un determinato fatto contemplato dalle norme di diritto positivo applicabili al caso specifico. Con la censura, il ricorrente auspica, piuttosto, che la Corte di cassazione proceda motu proprio ad un complessivo riesame delle risultanze istruttorie costituite dai documenti, dalle prove per testimoni e dalle risultanze degli elaborati peritali, in maniera da far desumere alla medesima Corte in via inferenziale, mediante un diretto e rinnovato studio del materiale di causa, una diversa conclusione circa la sussistenza di un pregiudizio correlato al ripristino dell’appartamento.
6.5. Il quarto motivo di ricorso, poi, non considera che il risarcimento dei danni sofferti dopo la sentenza di primo grado è consentito dall’art. 345 c.p.c., comma 1, se inteso come pronuncia su domanda che dipende strettamente da quella iniziale, ove gli ulteriori danni trovino, quindi, la loro fonte nella stessa causa e siano della medesima natura di quelli già accertati in primo grado, atteso che la “ratio” della norma è quella di evitare il frazionamento dei giudizi; e nella liquidazione di detti danni, trattandosi di debito di valore, il giudice deve tener conto anche d’ufficio – salvo il caso di rinuncia espressa o tacita dell’interessato – della svalutazione monetaria verificatasi sino alla data della decisione (Cass. Sez. 3, 24/08/1998, n. 8364; Cass. Sez. 6 – 3, 04/09/2020, n. 18526).
6.6. A proposito del quinto motivo, certamente la compressione o la limitazione del diritto di proprietà, che siano causate dall’altrui fatto dannoso (nella specie, infiltrazione di acqua proveniente dalla mancata esecuzione di opere su parti condominiali) sono suscettibili di valutazione economica non soltanto se ne derivi la necessità di una spesa ripristinatoria (cosiddetto danno emergente) o di perdite dei frutti della cosa (lucro cessante), ma anche se la compressione e la limitazione del godimento sia sopportata dal titolare con suo personale disagio o sacrificio. In ordine alla sussistenza e quantificazione di tale danno, mentre resta a carico del proprietario il relativo onere probatorio, che può essere assolto anche mediante presunzioni semplici, il giudice può fare ricorso anche ai parametri del cosiddetto danno figurativo, trattandosi di casa di abitazione, come quello del valore locativo della parte dell’immobile del cui godimento il proprietario è stato privato (cfr. ad esempio Cass. Sez. 2, 27/07/1988, n. 4779). La Corte d’appello di Roma ha accordato il risarcimento per il mancato godimento dell’immobile, avendo rinvenuto la prova, anche presuntiva, circa la sua reale esistenza, necessariamente correlata allo stato di indisponibilità del bene, così applicando il corretto principio secondo cui la liquidazione equitativa del danno, ai sensi degli artt. 2056 e 1226 c.c., richiede che dagli atti risultino elementi oggettivi di carattere lesivo, la cui proiezione futura nella sfera patrimoniale del soggetto sia certa, e che si traducano in un pregiudizio economicamente valutabile ed apprezzabile, che non sia meramente potenziale o possibile, ma che appaia invece connesso all’illecito in termini di certezza o, almeno, con un grado di elevata probabilità. La valutazione del fatto produttivo del danno-conseguenza consistente nella impossibilità di utilizzare in tutto o in parte l’appartamento a causa dell’illecito attribuito al *****, ai sensi degli artt. 1223 e 2056 c.c., spettava certamente al giudice del merito, e non è qui sindacabile contrapponendo soluzioni logico-deduttive alternative rispetto a quella adottata nella sentenza impugnata.
La liquidazione del danno è stata correttamente operata nelle pagine 12 e 13 della sentenza impugnata calcolando gli interessi compensativi applicati sull’intero capitale, rivalutato anno per anno, per il periodo di permanenza dell’illecito fino alla decisione, in quanto, per rendere effettiva la reintegrazione patrimoniale del danneggiato, l’espressione monetaria di esso deve essere adeguata al mutato valore del denaro nel momento in cui è emanata la pronuncia giudiziale finale. Il ricorrente adduce al riguardo alcune circostanze di fatto, legate alle date di riferimento del periodo di mancato godimento dell’immobile ed alla morte della C., le quali appaiono nuove rispetto a quelle esaminate in sentenza, e che non possono essere verificate per la prima volta nel giudizio di legittimità senza neppure denunciare al riguardo un’omessa pronuncia o un omesso esame circa un fatto storico, né specificare, nel rispetto delle previsioni dell’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 6, e art. 369 c.p.c., comma 2, n. 4, “come” e il “quando” tali circostanze fossero state oggetto di discussione processuale tra le parti nei pregressi gradi di merito.
6.7. Quanto, infine, alla deduzione, anch’essa non emergente nella sentenza impugnata, che R.V. non avrebbe potuto agire per i danni successivi al 13 marzo 2006, allorché morì C.G., essa neppure tiene conto che il comproprietario di un immobile pro indiviso può esperire l’azione risarcitoria per il minor godimento del bene al fine di ottenere la liquidazione del danno nella misura necessaria a compensare tutte le disutilità derivanti dalla compromissione delle facoltà dominicali, dovendosi presumere che l’attore abbia agito nell’interesse degli altri comunisti rimasti inerti in virtù del principio della “rappresentanza reciproca”, fondata sulla comunione di interessi ed attributiva a ciascuno d’una “legittimazione sostitutiva” (così, tra le tante, Cass. Sez. 3, 14/11/2019, n. 29506).
7. Il sesto motivo di ricorso denuncia la violazione degli artt. 2043, 2056, 1123 (da intendersi 1223) e 1226 c.c., in relazione alla tabella n. 2 del D.M. n. 585 del 1994 materia stragiudiziale con riguardo alla “liquidazione dei danni per spese lega ragiudiziali”. Il ricorrente censura la sentenza della Corte i Roma nella parte in cui ha liquidato “al valore attuale” in favore dell’appellante la somma relativa all’esborso sopportato per dieci lettere “circa” inviate dagli avvocati Pasquale e Croce. La censura afferma che erano state prodotte soltanto otto lettere e lamenta, inoltre, che, in applicazione della tariffa allora vigente per le prestazioni stragiudiziali (D.M. n. 585 del 1994), avrebbe potuto essere liquidata una somma ammontante nel massimo ad “Euro 10,33 quale diritto fisso per ciascuno dei due avvocati e non più di Euro 12,91 per ogni lettera (somma massima indicata in tabella), oltre massimo Euro 18,08 per ciascun avvocato quale studio della pratica: totale Euro 160,10 oltre 10% per spese generali ex art. 11, quindi Euro 176,11”.
7.1. Il motivo è fondato nei termini di seguito indicati.
La Corte d’appello di Roma ha liquidato per “n. 10 lettere circa” inviate nel corso degli anni dagli avvocati Pasquale e Croce al *****, “al valore attuale l’importo di Euro 200,00 per ciascuna, e così la somma complessiva di Euro 2.000,00, non comprese nelle spese processuali”.
La liquidazione operata contravviene al principio enunciato da Cass. Sez. Unite, 10/07/2017, n. 16990. Il rimborso delle spese di assistenza stragiudiziale ha natura di danno emergente, nella specie consistente nel costo sostenuto per l’attività svolta da un legale in detta fase precontenziosa. L’utilità di tale esborso, ai fini della possibilità di porlo a carico del danneggiante, deve essere valutata ex ante, cioè in vista di quello che poteva ragionevolmente presumersi essere l’esito futuro del giudizio. Da ciò consegue il rilievo che, seppure l’attività stragiudiziale, per quanto svolta da un avvocato, è comunque qualcosa d’intrinsecamente diverso rispetto alle spese processuali vere e proprie,)0 non è perciò oggetto della nota di cui all’art. 75 disp. att. c.p.c., la liquidazione di tale voce di danno deve avvenire necessariamente secondo le tariffe forensi e resta soggetta ai normali oneri di domanda, allegazione e prova.
8. Vanno, quindi, rigettati i primi cinque motivi ricorso, mentre va accolto il sesto motivo. La sentenza impugnata deve essere cassata in relazione al solo motivo accolto, con rinvio, anche per provvedere sulle spese del giudizio di cassazione, alla Corte d’appello di Roma in diversa composizione.
P.Q.M.
La Corte accoglie il sesto motivo di ricorso, rigetta i restanti motivi, cassa la sentenza impugnata in relazione al motivo accolto, con rinvio, anche per provvedere sulle spese del giudizio di cassazione, alla Corte di appello di Roma in diversa composizione.
Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Seconda sezione civile della Corte Suprema di Cassazione, il 9 novembre 2021.
Depositato in Cancelleria il 10 dicembre 2021
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