LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE TERZA CIVILE
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. DI FLORIO Antonella – Presidente –
Dott. SCARANO Luigi Alessandro – Consigliere –
Dott. FIECCONI Francesca – Consigliere –
Dott. SCRIMA Antonietta – rel. Consigliere –
Dott. GUIZZI Stefano Giaime – Consigliere –
ha pronunciato la seguente:
ORDINANZA
sul ricorso 7499/2019 proposte da:
C.C., C.F., elettivamente domiciliati in ROMA, VIA F. CONFALONIERI, 5, presso lo studio dell’avvocato GAIA STIVALI, che li rappresenta e difende unitamente all’avvocato MARINA MARIACA LA PIATTI;
– ricorrenti –
contro
V.R.E., e elettivamente domiciliato in ROMA, V. GERMANICO 96, presso lo studio dell’avvocato ATTILIO TAVERNITI, che lo rappresenta e difende unitamente agli avvocati ALBERTO ZANZI, DOMENICO MARASCIULO;
– controricorrente –
e contro
A.M.;
– intimata –
nonché da A.M., elettivamente domiciliata in ROMA, VIA GIUSEPPE AVEZZANA 3, presso lo studio dell’avvocato RAFFAELLA TURINI, che la rappresenta e difende unitamente all’avvocato CARMELA MILELLA;
– ricorrente –
contro
V.R.E., elettivamente domiciliato in ROMA, V. GERMANICO 96, presso lo studio dell’avvocato ATTILIO TAVERNITI, che lo rappresenta e difende unitamente agli avvocati ALBERTO ZANZI, DOMENICO MARASCIULO;
– controricorrente –
e contro
C.C., C.F.;
– intimati –
avverso la sentenza n. 3761/2018 della CORTE D’APPELLO di MILANO, depositata il 2/08/2018;
udita la relazione della causa svolta nella Camera di consiglio del 15/07/2021 dal Consigliere Dott. ANTONIETTA SCRIMA.
FATTI DI CAUSA
Nel 2015 V.R.E. convenne in giudizio C.C., C.F. e A.M., con ricorso ex art. 702-bis c.p.c., proposto innanzi al Tribunale di Varese.
Il V. espose di aver ceduto, con atto pubblico del 6 giugno 2007 a rogito del notaio P. di Varese, la propria quota pari al 50% del capitale sociale della società Ve.Mar. s.a.s. di V.R.E. & C. a A.M. già detentrice di quota pari al 49% del capitale della stessa, al prezzo di Euro 580.000,00. Rappresentò, altresì, il ricorrente in primo grado che, contestualmente, con scrittura privata, lo stesso V. e la A. avevano dato atto che il corrispettivo pattuito per la cessione delle quote sociali non sarebbe stato pagato, dovendo essere piuttosto quantificato e corrisposto solo al momento della vendita a terzi di un esercizio commerciale di “focacceria” sito in *****, per una cifra determinata in percentuale sul prezzo della vendita e, comunque, in misura ridotta rispetto a quanto indicato nell’atto pubblico; per tali ragioni, l’assegno dell’importo di Euro 580.000,00, che la A. aveva consegnato al V. al momento della stipula dell’atto pubblico, non era stato mai incassato ed era stato successivamente annullato.
Dedusse ancora il V. che, a fronte dell’inerzia dell’ A., aveva chiesto ed ottenuto nei suoi confronti il Decreto Ingiuntivo n. 1455 del 2009 dal Tribunale di Varese per l’importo sopra indicato, poi revocato con sentenza n. 123 del 2012 all’esito del giudizio di opposizione introdotto dall’ingiunta.
Riferì il V. che, nelle more dell’opposizione, l’ A., con atto pubblico a rogito notar P. del 29 ottobre 2010, aveva ceduto parte della quota sociale a C.F. e a B.P., al prezzo, rispettivamente di Euro 370.920,00 ed Euro 379.350,00, corrisposto in parte mediante assegni bancari e in parte con il rilascio di effetti cambiari. Il B. aveva ceduto, a sua volta, con atto pubblico del 25 marzo 2013, a rogito notaio G. di Milano, la quota di partecipazione nella società, al prezzo di Euro 379.350,00, a C.C., la quale, in pagamento di parte del corrispettivo, si era accollata il debito di pari importo riporto che il B. aveva nei confronti della A. e derivante dalla Cessione del 29 ottobre 2010.
Tanto premesso, ed assumendo di non aver ricevuto alcun corrispettivo dalla A., V.R.E. chiese al Tribunale di Varese di accertare il suo diritto ad una quota del 50% della società Ve.Mar. S.a.S. di A.M. & Co. (già Ve.Mar. s.a.s. di V.R.E. & C.), di condannare A.M. al pagamento, in suo favore, della somma di Euro 356.850,00, pari al 50% del corrispettivo della cessione delle quote a B.P. e C.F., oltre interessi e rivalutazione; di condannare in solido A.M., C.F. e C.C. a corrispondergli tale importo in ragione dell’acquisto delle quote sociali ed in riferimento a C.C., per essersi questa accollata il debito di B.P. nei confronti della A., oltre interessi e rivalutazione; in via subordinata, propose domanda di indennizzo per ingiustificato arricchimento nei confronti di A.M., sempre per l’importo di Euro 356.850,00, oltre interessi e rivalutazione.
I resistenti si costituirono sostenendo l’infondatezza delle domande avversarie e preliminarmente eccependo l’incompetenza territoriale del Tribunale adito, per essere competente il Tribunale di Milano, e la A. anche l’incompetenza del giudice ordinario in ragione della presenza nell’atto pubblico del 6 giugno 2007 di una clausola compromissoria.
Con ordinanza n. 1238 del 2016, il Tribunale di Varese accolse le domande proposte da V.R.E., condannando A.M. al pagamento della somma domandata e accertando il diritto del V. a subentrare nel diritto al corrispettivo dalla predetta vantato nei confronti di C.F. e C.C..
Tale ordinanza venne impugnata con distinti appelli dai C. e dall’ A..
Il V. si costituì resistendo alle impugnazioni.
La Corte di appello di Milano, con sentenza n. 3761 del 2018, rigettò le impugnazioni, confermando integralmente l’ordinanza emessa in prime cure e regolò le spese di quel grado tra le parti.
Avverso detta sentenza hanno proposto ricorso per cassazione C.C. e F. basato su quattro motivi.
Ha proposto ricorso (successivo) anche A.M., basato su quattro motivi e illustrato memoria, notificato e iscritto nelle stesse date dell’altro ricorso.
Ha resistito con distinti controricorsi V.R.E..
RAGIONI DELLA DECISIONE
1. Si osserva anzitutto che il principio dell’unicità del processo di impugnazione contro una stessa sentenza comporta che, una volta avvenuta la notificazione della prima impugnazione, tutte le altre debbono essere proposte in via incidentale nello stesso processo e perciò, nel caso di ricorso per cassazione, con l’atto contenente il controricorso; tuttavia quest’ultima modalità non può considerarsi essenziale, per cui ogni ricorso successivo al primo si converte, come nella specie, indipendentemente dalla forma assunta e ancorché proposto con atto a sé stante, in ricorso incidentale (Cass. 20/03/2015, n. 5695; Cass. 14/01/2020, n. 448).
Ricorso proposto da C.C. e C.F..
2. Con il primo motivo di ricorso si denunzia “violazione e falsa applicazione dell’art. 23 c.p.c., in relazione al disposto dell’art. 360 c.p.c., n. 2”.
3. Con il secondo motivo si prospetta “violazione e falsa applicazione del disposto dell’art. 2909 c.c., in relazione al disposto dell’art. 360 c.p.c., n. 3”.
4. Con il terzo mezzo si deduce “violazione e falsa applicazione degli artt. 2037 e 2038 c.c., in relazione al disposto dell’art. 360 c.p.c., n. 3”.
5. Con il quarto motivo si censura la sentenza della Corte d’appello per “violazione e falsa applicazione del disposto degli artt. 1203,1997,2038 e 2697 c.c., in relazione al disposto dell’art. 360 c.p.c., n. 3”.
Ricorso proposto da A.M..
6. Con il primo mezzo si denuncia “violazione e falsa applicazione dell’art. 819 ter c.p.c., in relazione al disposto dell’art. 360 c.p.c., n. 3”.
7. Il secondo motivo è così rubricato: “violazione e falsa applicazione dell’art. 23 c.p.c., in relazione al disposto dell’art. 360 c.p.c., n. 2”.
8. Il terzo motivo è volto a far valere la “nullità della sentenza ex art. 360 c.p.c., n. 4, in relazione al disposto degli artt. 101,112 e 324 c.p.c., artt. 2697 e 2909 c.c.”.
9. Con il quarto motivo si deduce “violazione e falsa applicazione degli artt. 2037 e 2038 c.c., in relazione al disposto dell’art. 360 c.p.c., n. 3”.
10. I motivi proposti dai ricorrenti principali e dalla ricorrente incidentale sono in gran parte corrispondenti, pertanto si procede al loro esame, se del caso anche congiunto, seguendo l’ordine logico.
11. Preliminare è l’esame del primo mezzo articolato da A.M..
Tale ricorrente censura la decisione impugnata nella parte in cui la Corte territoriale ha confermato la statuizione del Tribunale di rigetto dell’eccezione di arbitrato, badata sulla previsione contenuta nell’art. 14 dell’atto di cessione.
La Corte di appello ha ritenuto, a tale riguardo, che la clausola contenuta nell’art. 14 dell’atto pubblico del 6 giugno 2007 di cessione delle quote societarie non estendesse la sua portata all’accordo avente ad oggetto la cessione delle quote, sul rilievo che ciò si evince dalla sua collocazione nella parte del negozio relativo alle modifiche dei patti sociali, oltre che dai tenore letterale della stessa clausola. Peraltro, ad avviso della Corte, tale interpretazione, già operata dal Tribunale, è conforme all’orientamento di legittimità che esclude che la clausola compromissoria possa applicarsi a controversie inerenti non a rapporti sociali in senso proprio ma a rapporti concernenti la cessione delle quote sociali ove non sia in discussione la qualità di soci delle parti nell’oggetto del rapporto contrattuale inerente a partecipazioni societarie.
Pertanto, tale clausola è stata – in mancanza di espressa volontà contraria – interpretata dalla Corte di merito nel senso che “rientrano nella competenza arbitrale (tutte) le controversie inerenti al rapporto societario e relative a pretese aventi la loro causa petendi nel medesimo contratto sociale”.
La Corte ha ritenuto di poter desumere argomenti in tal senso anche dal comportamento serbato dalle parti nel giudizio avente ad oggetto il corrispettivo della cessione pattuito con il contratto del 2006, in cui le stesse non hanno mai sollevato eccezione di compromissione della lite in arbitri. Ciò, pur non valendo quale rinuncia ad eccepire in un diverso giudizio l’efficacia di una clausola compromissoria, rappresenta, secondo la Corte, certamente un indizio della effettiva volontà delle parti relativamente all’efficacia del menzionato art. 14 dell’atto di cessione di quote.
Secondo la ricorrente, invece, dal tenore letterale della clausola in questione, e sebbene la stessa sia inserita nella parte dell’atto destinata alla modifica dei patti sociali, risulterebbe chiaramente e in modo esplicito la volontà delle parti di compromettere in arbitri anche le controversie relative all’esecuzione del contratto di cessione, nozione nella quale dovrebbe farsi rientrare la presente causa.
Inoltre, ad avviso dell’ A., sarebbe priva di logica la motivazione della pronuncia impugnata nella parte in cui la Corte di merito ha preteso di trarre indicazioni ermeneutiche dalla condotta processuale dell’odierna ricorrente nel diverso giudizio già richiamato.
11.1. Il motivo è inammissibile.
Secondo il consolidato orientamento della giurisprudenza di legittimità, al quale va data continuità in questa sede, in tema di interpretazione di una clausola arbitrale, l’accertamento della volontà degli stipulanti in relazione al contenuto del negozio si traduce in un’indagine di fatto affidata in via esclusiva al giudice di merito. Ne consegue che detto accertamento è censurabile in sede di legittimità solo nel caso in cui la motivazione sia così inadeguata da non consentire la ricostruzione dell’iter logico seguito da quel giudice per giungere ad attribuire all’atto negoziale un determinato contenuto oppure nel caso di violazione “Il norme ermeneutiche (Cass., ord. n. 23/03/2012, n. 4919; Cass., 19/03/2004, n. 5549).
Nel caso di specie, la sentenza di merito è motivata in modo esaustivo, essendo ricostruibile il percorso logico seguito dal giudice (utilizzo del criterio della “posizione” della clausola all’interno dell’atto; indagine sui comportamenti delle parti successivi alla stipulazione) ed è priva di vizi logici, oltre che fondata sul riferimento alla giurisprudenza di legittimità in materia di clausola compromissoria. Inoltre, la ricorrente piuttosto che indicare i criteri ermeneutici (artt. 1362 c.c. e segg.) che siano stati eventualmente violati dalla Corte territoriale, ha proposto un’interpretazione diversa e alternativa a quella accolta in sentenza, inammissibilmente in sede di legittimità, non essendo consentito alla Suprema Corte procedere direttamente all’interpretazione della clausola compromissoria.
12. Sempre preliminarmente, devono essere esaminati congiuntamente il primo motivo di ricorso dei C., e il secondo motivo del ricorso della A., con i quali è impugnata la sentenza d’appello nella parte in cui la Corte di merito ha rigettato l’eccezione d’incompetenza territoriale del Tribunale di Varese, per essere competente il Tribunale di Milano.
Quella Corte ha ritenuto che la domanda introdotta dal V. in primo grado avesse ad oggetto non il rapporto sociale, bensì le obbligazioni sociali nascenti dal contratto di cessione di quote sociali del 6 giugno 2007 e che ciò emergesse dalla lettura delle conclusioni articolate dal V. nel ricorso introduttivo, da cui risultava che questi non intendeva conseguire la titolarità della quota sociale, ma soltanto l’equivalente pecuniario della stessa. Per tale ragione, il foro speciale previsto dall’art. 23 c.p.c., riferendosi esclusivamente alle cause tra soci aventi ad oggetto controversie che abbiano a fondamento una questione attinente al rapporto sociale, non trova applicazione nel caso di specie, anche perché la domanda di condanna al pagamento del prezzo relativo all’avvenuto trasferimento della proprietà delle azioni ha ad oggetto una vicenda negoziale che non trasformala l lite in una controversia riguardante il rapporto sociale.
La Corte territoriale ha aggiunto che l’art. 23 c.p.c., comma 2, delimita l’ambito d’applicazione al biennio successivo alla divisione della società o allo scioglimento del rapporto limitatamente ad un socio, mentre nel caso di specie la cessione della quota sociale del V., avvenuta nel giugno del 2007, è antecedente alla domanda giudiziale di ben più di un biennio.
I C. sostengono che, anche a voler ritenere che le domande azionate dal ricorrente non involvano la struttura societaria della Ve.Mar s.a.s., sarebbe, comunque, incontestabile che il presente giudizio riguardi la qualità del V. di ex socio e che, pertanto, le questioni dibattute attengano al rapporto sociale. La domanda proposta dall’attore, fondandosi sulla nullità dell’atto di cessione stipulato con la A. nel giugno 2007 e sulla conseguente illegittimità delle cessioni stipulate in seguito da quest’ultima, involverebbe anche la struttura del rapporto societario.
Sarebbe poi erroneo il riferimento dell’art. 23 c.p.c., comma 2, contenuto nella sentenza impugnata, poiché lo scioglimento di cui tratta la menzionata disposizione è quello della compagine sociale nel suo complesso, che nel caso di specie non si è mai verificato; inoltre, sarebbe indubbia l’applicabilità dell’art. 23 citato – norma che prevede m criterio di competenza esclusivo anche alle cause tra ex soci o La soci ed ex soci.
Per tutte queste ragioni, sostengono i ricorrenti, la sentenza andrebbe riformata, dovendo dichiararsi l’incompetenza del Tribunale di Varese per essere competente il Tribunale di Milano, città sede della società.
Del tutto analoghe – ed anzi in parte identiche – sono le argomentazioni offerte dall’altra ricorrente, la A., a sostegno del secondo mezzo articolato.
12.1. I motivi all’esame sono infondati.
Le controversie aventi ad oggetto l’accertamento dell’avvenuto trasferimento della proprietà di azioni, e la correlativa domanda di condanna al pagamento del prezzo, riguardano un contratto di compravendita. Il fatto che possa determinarsi il mutamento soggettivo della compagine sociale come effetto del passaggio di proprietà delle azioni medesime non vale a trasformare la lite in una controversia riguardante il rapporto sociale. Pertanto, non si applica ad essa la regola di cui all’art. 23 c.p.c., che prevede, per le controversie inerenti al rapporto sociale, la competenza del giudice del luogo in cui si trova la sede della società (Cass., ord., 22/06/2005, n. 13422; v. anche Cass., ord., 2/02/2006, n. 2318).
La controversia introdotta dal V., come osservato dalla Corte territoriale, attiene infatti unicamente all’accertamento dell’avvenuto trasferimento della proprietà di quote sociali dalla A. ai convenuti, ed alla correlativa domanda di condanna al pagamento del prezzo o di indennizzo ex artt. 2037 e 2033 c.c.. Essa riguarda, in sostanza, un contratto di compravendita: la qualità dell’oggetto trasferito (quota sociale) costituisce cioè un fatto storico indifferente rispetto all’attrazione della domanda nell’ambito di quelle che, ai sensi dell’art. 23 c.p.c., sono devolute alla cognizione del giudice del luogo dove ha sede la società. E’ vero che la torma appena citata trova applicazione anche alle cause tra ex soci o tra soci ed ex soci (Cass., ord. n. 15/05/2019, n. 13049; Cass., 23/03/2001, n. 4233), ma deve trattarsi di controversie pur sempre coinvolgenti il rapporto sociale, consistendo la ratio giustificatrice del foro speciale contemplato nell’art. 23 c.p.c., nella considerazione che il giudice del luogo in cui si trova la sede della società (e, quindi, del luogo in cui si trova la documentazione dell’attività sociale) è quello più idoneo a conoscere della relativa controversia.
Per queste ragioni, quindi, non trova applicazione nella specie l’art. 23 c.p.c., e tanto assorbe ogni ulteriore questione proposta al riguardo.
13. Con il secondo motivo del ricorso dei C. e con il terzo motivo del ricorso della A. viene censurata la pronuncia della Corte di merito laddove ha disatteso le doglianze proposte avverso l’ordinanza del 2016 emessa dal Tribunale di Varese nella parte in cui il primo Giudice ha ritenute che fosse coperta da giudicato, promanante dalla sentenza del Tribunale di Varese n. 123 del 2012, la questione della nullità del contratto di cessione delle quote sociali tra il V. e la A. del 6 giugno 2007 per indeterminatezza e indeterminabilità dell’oggetto del contratto ex art. 1346 c.c..
La Corte di appello ha ritenuto che nella menzionata sentenza il Tribunale di Varese abbia accertato, “seppure incidentalmente”, la nullità di tale atto, e che l’ordinanza di prime cure resa nel presente giudizio (Trib. Varese n. 1238 del 2016) abbia fatto corretta applicazione dei principi enunciati dalle S.U. di questa Corte con la sentenza 12712/2014, n. 26242. La Corte di merito ha pure evidenziato che il giudicato di forma non soltanto sulle questioni oggetto di puntuale pronuncia nel dispositivo, bensì su tutto ciò che ha costituito oggetto della decisione, compresi gli accertamenti che rappresentano le premesse necessarie ed il fondamento logico giuridico della pronuncia, spiegando quindi la sua autorità anche agli accertamenti che si ricollegano in modo inscindibile con la decisione.
La A., in particolare, denuncia in questa sede la violazione degli artt. 101,112 e 324 c.p.c. e artt. 2909 e 2697 c.c., sostenendo che nella pronuncia n. 123 del 2012 il Tribunale di Varese non abbia dichiarato alcuna nullità, né avrebbe potuto emettere una tale statuizione in assenza di domanda di parte ma avrebbe verificato l’esistenza di profili di nullità dell’accordo del 2007 al solo fine di accertare la sussistenza delle condizioni dell’azione spiegata dal V. in quel giudizio; rileva, inoltre, che nel dispositivo della sentenza n. 123 del 2012 non vi sarebbe la declaratoria di tale nullità negoziale.
Per tutti questi motivi non potrebbe mai dirsi formato un giudicato, neppure implicito, su tale questione.
Deduce ancora la ricorrente che il V. non avrebbe provato, così sottraendosi all’onere su di lui gravante ex art. 2697 c.c., l’avvenuto passaggio in giudicato della sentenza n. 123 del 2012; ciò in quanto la parte che eccepisce il giudicato esterno ha l’onere di provarlo non solo producendo la sentenza resa in altro giudizio, ma anche corredandola di idonea (edificazione ex art. 124 disp. att. c.p.c., non potendosi neppure ritenere che la mancata contestazione di controparte circa l’avvenuto passaggio in giudicato comporti l’ammissione della circostanza.
C.C. e C.F., a loro volta, con il secondo motivo d’impugnazione, deducono che la sentenza impugnata avrebbe del tutto omesso di esaminare il motivo di gravame in quella sede proposto, con cui avevano fatto valere l’eccezione di res inter alios iudicata, essendo la più volte citata sentenza n. 123 del 2012 stata resa in un giudizio del quote essi non erano parti.
13.1. I motivi in scrutinio sono complessivamente infondati.
Osserva il Collegio che le, S.U. di questa Corte hanno già avuto modo di affermare che la rilevazione ex officio delle nullità negoziali (sotto qualsiasi profilo, anche diverso da quello allegato dalla parte, ed altresì per le ipotesi di nullità speciali o “di protezione”) è sempre obbligatoria, purché la pretesa azionata non venga rigettata in base ad una individuata “ragione più liquida”, e va intesa come indicazione alle parti di tale vizio; la loro “dichiarazione”, invece, ove sia mancata un’espressa domanda della parte pure all’esito della suddetta indicazione officiosa, costituisce statuizione facoltativa (salvo per le nullità speciali, che presuppongono una manifestazione di interesse della parte) del medesimo vizio, previo suo accertamento, nella motivazione e/o nel dispositivo della pronuncia, con efficacia, peraltro, di giudicato in assenza di sua impugnazione (Cass., Sez. Un., 12/12/2014, nn. 26242 e 26243; v. anche Cass., 5/02/2019, n. 3308).
Nel caso di specie, risulta dalla parte della sentenza riportata nel ricorso che il giudice del Tribunale di Varese aveva rilevato la nullità del contratto in motivazione,(e non anche in dispositivo). Ciò non impedisce il passaggio in giudicato dell’accertamento della nullità. Infatti, secondo quanto evidenziato dalle S.U. di questa Corte con le pronunce richiamate, “l’accertamento-dichiarazione della nullità è idoneo alla formazione del giudicato, in sostanziale applicazione (peraltro estensiva) della teorie, di matrice tedesca, del c.d. vincolo al motivo portante. (…) Il vincolo del motivo portante, peraltro, se si ammette che, in motivazione il giudice possa, in modo non equivoco, affrontare e risolvere, dichiarandola, la tematica della validità/nullità del negozio, non si limiterà ai soli segmenti del rapporto sostanziale dedotti in giudizio in tempi diversi, ma si estenderà a tutti i successivi processi in cui si discuta di diritti scaturenti dal contratto dichiarato nullo (onde la necessità di discorrere di oggetto del processo non soltanto in termini di rapporto, ma anche di negozio fatto storico/fattispecie programmatica). Si evita così il (non agevole) riferimento ai “diritti ed effetti strettamente collegati al giudicato di rigetto da nessi funzionali di senso giuridico”, che renderebbe assai arduo il compito del giudice di merito. La sostanziale differenza dell’ipotesi in esame rispetto ad un accertamento pieno iure della nullità negoziale si coglie sotto (il già indagato) aspetto della trascrizione e della (in)opponibilità ai terzi dell’effetto di giudicato: l’attore che voglia munirsi di un titolo utile a tali fini dovrà, difatti, formulare, in quello stesso processo, una domanda di accertamento, in via principale o incidentale, della nullità come rilevata dal giudice”.
Alla luce dei principi sopra richiamati, che vanno ribaditi in questa sede, può concludersi che, nei confronti di A.M., che era parte del diverso giudizio già richiamato, indubbiamente l’accertamento della nullità negoziale ha efficacia di giudicato, dovendosi peraltro ritenere inammissibile l’ulteriore censura sollevata con il motivo in esame dalla predetta, e cioè che il giudicato esterno non può ritenersi adeguatamente provato perché non è stato prodotto in giudizio l’attestato di cancelleria di cui all’art. 124 disp. att. c.c..
E’ noto che, secondo l’orientamento prevalente, affinché il giudicato esterno possa fare stato nel processo è necessaria la certezza della sua formazione, che deve essere provata, pur in assenza di contestazioni, attraverso la produzione della sentenza munita del relativo attestato di cancelleria (Cass., ord., 23/08/2018, n. 20974; Cass. 9/03/2017, n. 6024; v. anche Cass., ord., 1/03/2018, n. 4803, relativa all’ipotesi di ammissione del passaggio in giudicato della pronuncia ad opera della controparte, da tenere distinta dalla mera non contestazione). Tuttavia, va evidenziato che in ogni caso, non risulta che tale eccezione sia stata già proposta nei precedenti gradi di giudizio, sicché, configurandosi come nuova, la stessa è inammissibile (Cass., ord., 13/06/2018, n. 15430).
Quanto poi all’efficacia che la sentenza del Tribunale di Varese n. 123 del 2012 spiega nei confronti di C.F. e C., che non furono parte del giudizio in cui venne emessa, si osserva quanto segue. Tale sentenza è stata pronunciata all’esito del giudizio di opposizione al Decreto Ingiuntivo n. 1455 del 2009 del Tribunale di Varese, emesso in favore del V. nei confronti della A. per il pagamento del prezzo della cessione delle quote sociali in forza dell’atto pubblico del 6 giugno 2007, e nell’ambito di tale giudizio di opposizione il giudice ha rilevato la nullità del predetto atto pubblico.
E’ necessario premettere ancora che C.F. è titolare delle quote sociali in quanto avente causa di A.M. a seguito dell’atto del 29 ottobre 2010. C.C. è titolare delle quote sociali in quanto avente causa di B.P., a sua volta acquirente delle stesse da A.M. in data 29 ottobre 2010. Il ricorso per decreto ingiuntivo è stato proposto (almeno) nel 2009, prima che la A. alienasse le quote sociali a C.F. e B.P.. Tali elementi sono indicati in atti e non risultano contestati.
Pertanto, C.C. e F. sono soggetti all’efficacia della sentenza pronunciata nei confronti di A.M., loro comune dante causa.
Norme regolatrici della fattispecie sono l’art. 2909 c.c., il quale stabilisce che la sentenza fa stato tra le parti, gli eredi e gli aventi causa, nonché l’art. 111 .p.c., u.c., secondo cui il successore nel diritto controverso (colui che abbia acquistato il diritto lite pendente), è soggetto all’efficacia della sentenza pronunciata nei confronti del dante causa, anche se non ha partecipato al giudizio.
Neppure occorre, quindi, fare riferimento al principio della c.d. efficacia riflessa – pure invocato dal V. – per il quale il giudicato, oltre ad avere una sua efficacia diretta nei confronti delle parti, loro eredi e aventi causa, è dotato anche di un’efficacia riflessa, nel senso che la sentenza, come affermazione oggettiva di verità, produce conseguenze giuridiche nei confronti di soggetti rimasti estranei al processo in cui è stata emessa, allorquando questi siano titolari di un diritto dipendente dalla situazione definita in quel processo o comunque di un diritto subordinato a tale situazione, con la conseguenza reciproca che l’efficacia del giudicato non si estende a quanti siano titolari di un diritto autonomo rispetto al rapporto giuridico definito con la prima sentenza (Cass., ord., 29/03/2019, n. 8766; Cass., ord., 28/08/2018, n. 21240; Cass. 31/01/2014, n. 2137).
14. Il terzo motivo di ricorso articolato da C.C. e F. e il quarto motivo proposto dalla A. censurano la sentenza impugnata in questa sede nella parte in cui la Corte di appello ha ritenuto che la quota della società di persone possa essere qualificata come “cosa” ai fini dell’applicazione dell’art. 2038 c.c..
La Corte territoriale ha ritenuto, confermando la sentenza di prime cure, che nei casi di alienazione di quote sociali anche di società di persone trovino applicazione gli artt. 2037 e 2038 c.c., poiché esse rientrano nella nozione di bene fornita dall’art. 810 c.c., in quanto suscettibili di formare oggetto di diritti e sono ascrivibili alla categoria dei beni mobili, in via residuale, ai sensi dell’art. 812 c.c., comma 3.
I ricorrenti sostengono una tale interpretazione contrasti con il principio dell’intuitus personae che informa la partecipazione alla compagine sociale delle società di persone, essendo preponderante l’apporto personale del socio su quello capitalistico della partecipazione. Anche dall’atto di cessione delle quote sociali da A.M. a C.F. e B.P. del 29 ottobre 2010 e in quello successivo da B. a C.C. del 25 marzo 2013, si evincerebbe l’intento delle parti di riaffermare l’elemento personalistico del rapporto sociale, essendo stato previsto che le quote potessero essere trasferite solo con il consenso di tutti i soci.
Per tali ragioni, dovrebbe escludersi che la partecipazione sociale configuri una “cosa” ai sensi degli artt. 2037 e 2038 c.c..
Analoghe se non identiche le argomentazioni esposte a suffragio del motivo proposto da A.M..
14.1. I motivi all’esame sono infondati.
Gli argomenti proposti dagli odierni ricorrenti non sono idonei a mutare l’orientamento giurisprudenziale consolidato secondo il quale la quota di partecipazione in una società a responsabilità limitata esprime una posizione contrattuale obiettivata che va considerata come bene immateriale equiparabile al bene mobile non iscritto in pubblico registro ai sensi dell’art. 812 c.c., onde ad essa possono applicarsi, a norma dell’art. 813 c.c., le disposizioni concernenti i beni mobili e, in particolare, disciplina delle situazioni soggettive reali e dei conflitti tra di esse sul medesimo bene, giacché la quota, pur non configurandosi come bene materiale al pari dell’azione, ha tuttavia un valore patrimoniale: oggettivo, costituito dalla frazione del patrimonio che rappresenta, e va perciò configurata come oggetto unitario di diritti e non corre un mero diritto di credito (Cass. 21/10/2009, n. 22361, in relazione al pignoramento; Cass. 26/05/2000, n. 6957, in relazione alla possibilità di compiere il sequestro giudiziario; Cass. 30/01/1997, n. 934; Cass. 12/12/1986, n. 7409).
Dei principi sopra richiamati risulta aver fatto corretta applicazione la Corte di merito.
15. Con il quarto motivo del loro ricorso i C., denunciando la violazione e falsa applicazione degli artt. 1203,1997,2038 e 2697 c.c., impugnano la sentenza di appello per non aver la Corte territoriale ritenuto estinto l’obbligo di pagamento dei C. nei confronti di A.M. e pec aver quindi, confermato la sentenza di prime cure nella parte in cui dispone la surroga del V. nel credito vantato della A. nei confronti dei C..
Va ricordato che il V. aveva convenuto i C. per ottenerne la condanna in solido con la A. al pagamento di una somma del valore delle quote sociali indebitamente cedute e i predetti attuali ricorrenti avevano eccepito di aver già corrisposto il prezzo delle quote pattuito alla venditrice A., in parte con assegni e in parte tramite emissione di effetti cambiari tratti in favore della stessa e consegnati a lei al momento della cessione delle quote. L’eccezione è stata rigettata, sia in prime cure sia in grado d’appello. Ha osservato la Corte territoriale che gli appellanti, per provare il pagamento effettuato a mezzo assegni e a mezzo cambiali avevano richiamato il contenuto degli (atti con cui era stata realizzata la cessione delle quote (atti pubblici del 29 ottobre 2010 e 25 marzo 2013), ma ha ritenuto quella medesima Corte che la lettura dei contratti “non costituisce prova dell’effettivo esborso da parte degli appellanti in favore di A. degli importi indicati negli accordi”; inoltre, il Giudice di appello ha escluso che il documento indicato come “estratto conto cambiali C.C. e C.F.” consenta di desumere che gli importi ritirati siano stati corrisposti alla A..
Sostengono i ricorrenti C. che la decisione della Corte si fonda su un’erronea valutazione dei documenti prodotti in giudizio e sull’errata applicazione dell’art. 2697 c.c., e che gli atti di cessione sopramenzionati ben possano costituire la prova del pagamento integrale del prezzo pattuito alla A..
I medesimi ricorrenti C. assumono di essere onerati esclusivamente di fornire la prova di aver consegnato gli assegni e gli effetti cambiari, restando irrilevante l’effettiva riscossione delle somme da parte della A.; inoltre, ad avviso dei predetti, non sarebbe ipotizzabile accertare il diritto di surroga del V. nei confronti della A. nel diritto alla riscossione del prezzo delle quote societarie, poiché si verrebbe così a creare una duplicazione di titoli esecutivi nei confronti dei C. e si violerebbe il principio di incorporazione del diritto nel titolo.
Con il medesimo motivo di ricorso C.C. e F. impugnano la sentenza nella parte in cui ha rigettato la domanda di manleva dagli stessi proposta avverso A.M.. La Corte territoriale ha ritenuto che, non essendo stato provato l’avvenuto pagamento del prezzo spettante alla A., non può essere accolta la domanda di manleva, non verificandosene il presupposto. Ha osservato altresì che gli appellanti non subiscono alcun danno dall’accertato diritto in capo al V. – statuito dal primo Giudice – di subentrare ex art. 2038 c.c., nel diritto al corrispettivo ancora dovuto all’ A., in quanto essi restano titolari delle quote a loro cedute ed in forza della cessione sono tenuti a pagare quanto pattuito.
Gli odierni ricorrenti sostegono che la Corte, se avesse applicato correttamente le norme indicate in rubrica, avrebbe dichiarato l’inesistenza del diritto di surroga affermato dal V. o, in subordine, avrebbe quantomeno dovuto accogliere la domanda di manleva da loro articolata nei confronti degli A..
La prima parte della censura, relativa alla prova dell’intervenuto pagamento del corrispettivo dai C. alla A., è inammissibile. Benché proposta quale violazione di legge (dell’art. 2697 c.c.), essa in realtà è volta a con seguire una diversa valutazione delle risultanze istruttorie, attività, questa istituzionalmente riservata al giudice del merito e inammissibile in sede di legittimità.
Ed invero quanto all’emissione di effetti cambiali e di assegni in favore dell’ A. e alla consegna degli stessi contestualmente agli atti di cessione di quote, la Corte territoriale ha osservato, con valutazione di fatto che non può essere in questa sede sindacata, se non nei limiti del “minimo costituzionale” della motivazione – minimo costituzionale in questa circostanza certamente rispettato – che esse non costituiscono prova della effettiva “riscossione” del credito da parte dell’ A. né al riguardo può valere la “copia estratto conto cambiali C.C. e C.F.”.
Infine, anche la seconda parte della censura è inammissibile, per difetto di specificità, manca infatti dell’esposizione delle ragioni che illustrino le dedotte violazioni di legge (artt. 1203, 1997 e 2038), limitandosi il motivo piuttosto a denunciare genericamente l’erroneità della sentenza.
16. In conclusione, vanno rigettati entrambi i ricorsi proposti.
17. Le spese del giudizio di cassazione tra la parte ricorrente principale e quella incidentale vanno compensate per intero; le medesime spese, liquidate come da dispositivo, tra tutti i ricorrenti, in solido, e il controricorrente seguono la soccombenza.
18. Va dato atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, se dovuto, da parte dei ricorrenti principali e della ricorrente incidentale, ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1-quater, nel testo introdotto dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello dovuto per i rispettivi ricorsi, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis (Cass., sez. un., 20/02/2020, n. 4315).
PQM
La Corte rigetta entrambi i ricorsi; compensa per intero le spese del presente giudizio di legittimità tra i ricorrenti principali e la ricorrente incidentale; condanna i ricorrenti principali e la ricorrente incidentale al pagamento, in solido, delle spese del presente giudizio di legittimità, che liquida, in favore del controricorrente, in Euro 8.000,00 per compensi, oltre alle spese forfetarie nella misura del 15%, agli esborsi liquidati in Euro 200,00 e agli accessori di legge; ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater, nel testo introdotto dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, se dovuto, da parte dei ricorrenti principali e della ricorrente incidentale, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello dovuto per i rispettivi ricorsi, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis.
Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Sezione Terza Civile della Corte Suprema di Cassazione, il 15 luglio 2021.
Depositato in Cancelleria il 13 dicembre 2021
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