La responsabilità del proprietario di un fondo per i danni derivanti da attività di escavazione, ex art. 840 c.c., non opera in senso oggettivo, ma richiede una condotta colposa, sicchè, nell’ipotesi in cui i lavori di escavazione siano affidati in appalto, è l’appaltatore ad essere di regola l’esclusivo responsabile dei danni cagionati a terzi nell’esecuzione dell’opera, salvo che non risulti accertato che il proprietario committente aveva – in forza del contratto di appalto – la possibilità di impartire prescrizioni o di intervenire per richiedere il rispetto delle normative di sicurezza e che se ne sia avvalso per imporre particolari modalità di esecuzione o particolari accorgimenti antinfortunistici che siano stati causa (diretta o indiretta) del sinistro.
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE SECONDA CIVILE
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. GORJAN Sergio – Presidente –
Dott. CARRATO Aldo – Consigliere –
Dott. ABETE Luigi – Consigliere –
Dott. GIANNACCARI Rossana – Consigliere –
Dott. CRISCUOLO Mauro – rel. Consigliere –
ha pronunciato la seguente:
ORDINANZA
sul ricorso 1857/2017 proposto da:
2D SRL, elettivamente domiciliata in ROMA, VIA CAIO MARIO 27, presso lo studio dell’avvocato FRANCESCO ALESSANDRO MAGNI, che la rappresenta e difende unitamente all’avvocato MARIA CARMELA CARBONARO, giusta procura a margine del ricorso;
– ricorrente –
contro
N.E., R.F., elettivamente domiciliate in ROMA, VIA SALVIUCCI N. 2, presso lo studio dell’avvocato MARIA GENTILE RUGGERO, rappresentate e difese dall’avvocato LAMBERTO FERRARA, in virtù di procura in calce al controricorso;
– controricorrenti –
e contro
DI GI EDIL DI G.D.;
– intimata –
avverso la sentenza n. 660/2016 della CORTE D’APPELLO di GENOVA, depositata il 15/06/2016;
udita la relazione della causa svolta nella Camera di consiglio del 26/01/2021 dal Consigliere Dott. MAURO CRISCUOLO;
Lette le memorie depositate dalle parti.
RAGIONI IN FATTO R.F. e N.E. convenivano in giudizio dinanzi al Tribunale di Genova la 2D S.r.l. affermando di essere proprietarie di un fabbricato per civile abitazione sito in *****, confinante tramite strada con un lotto edificabile costituito da un volume per box e soprastanti posti auto scoperti, che era stato interessato da rilevanti interventi di ristrutturazione eseguiti dalla convenuta, al fine di realizzare un edificio residenziale con annessi box e posti auto per un parcheggio pubblico.
Lamentavano che dall’esecuzione di tali lavori erano derivati danni al loro immobile ed evidenziavano altresì che la costruzione della convenuta era collocata a distanza inferiore rispetto a quella prescritta dal D.M. n. 1444 del 1968, ed a quella indicata dal locale PRG.
Chiedevano, quindi, il risarcimento del danno subito e l’arretramento o la demolizione del fabbricato della convenuta, sino ad assicurare il ristoro delle distanze minime di legge.
Si costituiva la società che rilevava che in realtà erano le stesse attrici ad avere posto in essere degli interventi edilizi e che i danni lamentati erano da attribuire alla loro stessa condotta.
Aggiungeva di avere affidato i lavori di cui all’atto di citazione all’impresa appaltatrice DIGI Edil di D.G. nei cui confronti spiegava quindi domanda di garanzia, essendo in ogni caso la stessa unica responsabile dell’accaduto.
In merito alle distanze rilevava che tra i due fabbricati esisteva una strada pubblica, il che escludeva l’applicazione delle disposizioni di cui al D.M. n. 1444 del 1968, nè poteva invocarsi la disciplina del codice della strada che non prevede l’osservanza di una distanza minima dal confine per le strade di tipo F, quale era quella che divideva i due fondi.
In via riconvenzionale chiedeva il risarcimento del danno derivante dall’iniziativa giudiziaria delle attrici, che aveva determinato l’interruzione delle trattative volte a collocare sul mercato gli immobili realizzati.
Nella contumacia della terza chiamata, il Tribunale, con sentenza non definitiva n. 59 del 2013, condannava la convenuta ad arretrare il proprio manufatto sino alla distanza di cui al D.M. n. 1444 del 1968, art. 9, nonchè al risarcimento dei danni subiti dalle attrici da quantificare in corso di causa; inoltre condannava la terza chiamata a tenere indenne la convenuta dalle conseguenze derivanti dall’accoglimento della domanda attorea.
Avverso tale sentenza proponeva appello la 2D S.r.l. e nella resistenza delle attrici e della terza chiamata, che proponeva appello incidentale quanto all’accoglimento della domanda di garanzia, la Corte d’Appello di Genova, con la sentenza n. 660 del 15/6/2016, rigettava sia l’appello principale che quello incidentale, confermando integralmente la sentenza gravata.
In primo luogo, riteneva irrilevante la circostanza che le opere della convenuta fossero state realizzate in virtù di un titolo edilizio convenzionato, finalizzato alla realizzazione ed alla cessione al Comune di un’area di mq. 824 adibita a parcheggio pubblico, in quanto, anche a voler ammettere che l’approvazione del progetto avesse comportato una variante al PRG, ciò non consentiva di derogare ai parametri di cui al D.M. n. 1444 del 1968, che sono destinati anche a prevalere sulle contrarie previsioni degli strumenti urbanistici locali, come affermato anche dalla giurisprudenza di legittimità.
L’art. 9 del citato D.M., dispone poi che le distanze minime tra fabbricati operano anche nel caso in cui risultino interposte delle strade pubbliche, secondo quanto dettato dal comma 3, così che, avendo la via *****, interposta tra i due edifici, una larghezza inferiore a metri 3, la distanza doveva corrispondere a quella della sede stradale maggiorata di metri 5.
Avendo il Tribunale fatto riferimento a tale prescrizione normativa, alla medesima occorreva fare riferimento al fine di specificare il contenuto del dispositivo.
Inoltre, non poteva escludersi l’applicazione del D.M. n. 1444 del 1968, per il fatto che i due edifici si trovano in zone urbanistiche diverse (e precisamente quello delle attrici in zona B e quello della convenuta in zona B1), atteso che la distanza de qua opera anche se le costruzioni a confine con la strada ricadono in zone territoriali diverse.
Era da reputarsi irrilevante anche la circostanza che la costruzione della convenuta fosse afferente ad un muraglione in pietra che sostiene e delimita la strada, atteso che tale muraglione è un elemento strutturale della stessa strada, emergendo altresì che la nuova costruzione dell’appellante principale supera l’altezza della strada per una misura variabile da 40 a 170 cm.
Del pari privo di rilievo era il richiamo all’art. 28 del regolamento di attuazione al codice della strada, siccome idoneo, per essere sopravvenuto alle previsioni del D.M. n. 1444 del 1968, a determinarne la tacita abrogazione, in quanto trattasi di norme che assicurano la tutela e la salvaguardia di diversi interessi e non interferiscono tra loro concorrendo entrambe a dettare la disciplina delle distanze.
Passando ad esaminare il motivo di appello che investiva la condanna al risarcimento dei danni, la Corte d’Appello osservava che doveva confermarsi la tesi giurisprudenziale secondo cui, anche nel caso in cui il proprietario abbia affidato l’esecuzione dei lavori eseguiti sul suo fondo ad un appaltatore, dei danni provocati a terzi ne risponde direttamente, anche nel caso in cui non si sia materialmente ingerito nell’attività del materiale esecutore dei lavori.
Era altresì rigettato il motivo di appello che investiva l’accertamento del nesso di causalità, atteso che, ben potendosi affidare tale verifica ad un criterio probabilistico, erano del tutto convincenti le conclusioni alle quali era pervenuta la CTU, che aveva valutato l’incidenza sul quadro fessurativo nell’edificio delle attrici dei lavori posti in essere dalla ditta appaltatrice, anche alla luce dei lavori realizzati dalle stesse attrici.
Doveva poi essere disatteso l’appello incidentale della DIGI Edil, che non poteva addurre a propria esimente l’esistenza di errori progettuali o di erronee indicazioni da parte del direttore dei lavori, posto che avrebbe dovuto contrastare le seconde ed avvedersi dei primi rifiutandone l’esecuzione.
Infine, l’eccezione di decadenza dall’azione di garanzia era tardiva, in quanto avanzata per la prima volta in appello (essendo la terza chiamata rimasta contumace in primo grado) e non essendo applicabile nel caso di comuni azioni contrattuali come quella di regresso contro le azioni di terzi, per le quali opera invece l’ordinaria prescrizione decennale.
Per la cassazione di tale sentenza propone ricorso la 2D S.r.l. sulla base di cinque motivi.
R.F. e N.E. resistono con controricorso.
La Digi Edil di D.G. non ha svolto difese in questa fase.
Con ordinanza interlocutoria n. 18296 del 3/9/2020, la Corte, dato atto che nelle more era intervenuta la previsione di cui al D.L. n. 32 del 2019, art. 5 comma 1, lett. b-bis), conv. nella L. n. 55 del 2019, potenzialmente idonea, atteso il suo carattere interpretativo, ad incidere sulla vicenda in esame, invitava le parti ad interloquire sulla questione.
Entrambe le parti hanno depositato memorie nel termine loro assegnato.
RAGIONI IN DIRITTO 1. Il primo motivo di ricorso denuncia la violazione e falsa applicazione del D.M. n. 1444 del 1968, art. 9.
Infatti, è stata ritenuta irrilevante la presenza di un muraglione in pietra che la sentenza reputa essere un elemento strutturale della strada, rispetto al quale la costruzione della ricorrente è totalmente sottoposta, non avendo la sentenza d’appello correttamente rilevato quanto emergeva dalla CTU.
Si aggiunge poi che, attese le caratteristiche di tale muraglione, allo stesso deve essere attribuita la qualifica di vera e propria costruzione, il che fa sì che il fabbricato delle attrici e quello della ricorrente non possano essere considerati come frontistanti, essendo tale manufatto collocato tra le stesse.
Inoltre, ha errato la Corte distrettuale nel ritenere applicabile l’art. 9 del citato D.M., in quanto, avendo la ricorrente conseguito un titolo di edilizia convenzionata con il Comune, con lo stesso era possibile derogare al parametro della distanza dalle strade, essendo per converso inderogabile solo il parametro afferente alla distanza tra fabbricati.
Il motivo è fondato, ancorchè per ragioni in parte diverse da quelle specificamente addotte a fondamento del ricorso.
Rileva a tal fine la novella normativa che ha toccato proprio del D.M. n. 1444 del 1968, art. 9, che così recita:
“Le distanze minime tra fabbricati per le diverse zone territoriali omogenee sono stabilite come segue:
1) Zone A): per le operazioni di risanamento conservativo e per le eventuali ristrutturazioni, le distanze tra gli edifici non possono essere inferiori a quelle intercorrenti tra i volumi edificati preesistenti, computati senza tener conto di costruzioni aggiuntive di epoca recente e prive di valore storico, artistico o ambientale;
2) Nuovi edifici ricadenti in altre zone: è prescritta in tutti i casi la distanza minima assoluta di m. 10 tra pareti finestrate e pareti di edifici antistanti;
3) Zone C): è altresì prescritta, tra pareti finestrate di edifici antistanti, la distanza minima pari all’altezza del fabbricato più alto; la norma si applica anche quando una sola parete sia finestrata, qualora gli edifici si fronteggino per uno sviluppo superiore a ml. 12.
Le distanze minime tra fabbricati – tra i quali siano interposte strade destinate al traffico dei veicoli (con esclusione della viabilità a fondo cieco al servizio di singoli edifici o di insediamenti) – debbono corrispondere alla larghezza della sede stradale maggiorata di:
ml. 5 per lato, per strade di larghezza inferiore a ml. 7;
ml. 7,50 per lato, per strade di larghezza compresa tra ml. 7 e ml. 15;
ml. 10 per lato, per strade di larghezza superiore a ml. 15.
Qualora le distanze tra fabbricati, come sopra computate, risultino inferiori all’altezza del fabbricato più alto, le distanze stesse sono maggiorate fino a raggiungere la misura corrispondente all’altezza stessa. Sono ammesse distanze inferiori a quelle indicate nei precedenti commi, nel caso di gruppi di edifici che formino oggetto di piani particolareggiati o lottizzazioni convenzionate con previsioni planovolumetriche.” Tuttavia a norma del D.L. 18 aprile 2019, n. 32, art. 5, comma 1, lettera b-bis), convertito con modificazioni dalla L. 14 giugno 2019, n. 55, le disposizioni di cui al comma 2, si interpretano nel senso che i limiti di distanza tra i fabbricati ivi previsti si considerano riferiti esclusivamente alle zone di cui al comma 1, n. 3), del presente articolo.
Come chiaramente denota il senso letterale delle espressioni utilizzate dal legislatore, trattasi di norma interpretativa, che recepisce le indicazioni provenienti sia dalla dottrina che dalla giurisprudenza amministrativa (cfr. T.A.R. Genova sez. I, 28/11/2018, n. 933, secondo cui il comma 2 ed il primo periodo del comma 3 del D.M. n. 1444 del 1968, art. 9, sono applicabili ai soli edifici ubicati in zona urbanistica “C”, posto che detta interpretazione, oltre che basata sul tenore letterale della normativa richiamata, trae fondamento da una lettura logico-sistematica della disciplina, che regola in modo differenziato la pianificazione urbanistica a seconda del diverso stato di urbanizzazione delle aree, differenziando le prescrizioni a seconda che l’edificazione venga effettuata in aree in gran parte già edificate e urbanizzate, in zone di espansione o di nuova edificazione).
Rileva il Collegio che il dubbio di costituzionalità della novella normativa, come prospettato dalla difesa della controricorrente, non possa avere seguito.
Si deduce, infatti, che il legislatore avrebbe attribuito alla previsione in esame carattere interpretativo, e quindi una portata retroattiva, in assenza dei presupposti legittimanti, in quanto assolutamente carenti i requisiti di ragionevolezza.
Si deduce che è pur vero che la norma interpretativa possa essere emanata anche in carenza di una situazione di contrasto interpretativo, ma è pur sempre necessario che l’opzione prescelta dal legislatore trovi un proprio fondamento nella cornice della norma interpretata.
Nella specie, la disciplina, sulla quale le parti sono state chiamate ad interloquire, inciderebbe sui principi della certezza del diritto e sul legittimo affidamento dei cittadini, posto che nessun dubbio interpretativo era mai sorto sulla pacifica applicazione della norma in tema di distanze di cui dell’art. 9, comma 3, a tutte le zone urbanistiche di cui al comma 1, avendo quindi il legislatore attributo, in sede di interpretazione autentica, un significato alla norma del tutto estraneo rispetto a quelli che potevano legittimamente essere tratti dal testo originario.
Rileva il Collegio che, al contrario di quanto dedotto, la corretta individuazione della portata applicativa del D.M. n. 1444 del 1968, art. 9, era ampiamente dibattuta, soprattutto nella giurisprudenza amministrativa, che nel corso degli anni aveva conosciuto un contrasto in merito proprio alla possibilità di estendere la disciplina in tema di distanze tra costruzioni posta dai comma 2 e 3 a tutte le zone individuate dal comma 1.
Da una pur sommaria ricognizione, emerge infatti, che la soluzione, alla quale è poi approdato il legislatore con il D.L. n. 32 del 2019, erano pervenute, tra gli altri, TAR Liguria, sez. I, 17 settembre 2015, n. 743; TAR Veneto, sez. II, 20 marzo 2014, n. 364; TAR Trentino Alto Adige, Bolzano, 7 marzo 2018, n. 78; T.A.R. Veneto, sez. II, 20 marzo 2014, n. 364, T.A.R. Piemonte, sez. I, 12 gennaio 2012, n. 17; C.d.S., sentenza n. 1096/16, e sentenze nn. 280/16 e 275/17; T.A.R. Veneto, sentenza n. 464/2014, confermata dal C.d.S., n. 851/16, tanto da potersi affermare che fosse appunto prevalente l’orientamento per il quale le previsioni contenute nel secondo e nel comma 3 del citato art. 9 si riferiscono esclusivamente alle zone urbanistiche contrassegnate come zone C) (per la contraria opzione interpretativa si veda, invece, TAR Lombardia – Milano, n. 527/1994, dep. il 21.7.1994, per cui il precetto costituisce una “disposizione di chiusura, valida per tutte le zone, nelle quali viene comunque imposto un distacco minimo di tipo relativo, pari all’altezza del fabbricato più alto…”).
L’orientamento definibile invece come maggioritario ha fatto leva, oltre che sul tenore testuale della disposizione normativa che si assume violata, in quanto “il citato art. 9, infatti, riferisce letteralmente il limite corrispondente all’altezza dell’edificio più alto ai soli edifici ricadenti nelle zone C”, anche sul rilievo che, sebbene la seconda parte della prescrizione de qua, relativa all’ammissione di distanze inferiori da quelle imposte, si riferisce, certamente, a tutte le zone (in quanto la disposizione richiama i “precedenti commi”), ciò, tuttavia, non può portare alla conclusione che anche la prima parte della norma sia riferibile a tutte le zone, in quanto la sua concreta applicazione alla zona A) sarebbe di fatto impossibile, trattandosi di centri storici, con la conseguenza che il richiamo a tutti i “precedenti commi”, non può esplicare efficacia su tutti questi.
Trattasi quindi di esito interpretativo che secondo i suoi sostenitori, è basato oltre che sul tenore letterale della normativa richiamata, altresì su di una lettura logico sistematica della disciplina, che regola in modo differenziato la pianificazione urbanistica a seconda del diverso stato di urbanizzazione delle aree, differenziando le prescrizioni a seconda che l’edificazione venga effettuata in aree in gran parte già edificate e urbanizzate, in zone di espansione o di nuova edificazione.
Il richiamo al contrasto interpretativo generato dalla norma di cui all’art. 9, che aveva visto peraltro prevalente, quanto meno dal punto di vista numerico, la soluzione poi avallata dalla norma di interpretazione autentica, con il riferimento altresì alle considerazioni sia di carattere letterale che logico sistematico che giustificavano la lettura riduttiva della previsione, rendono evidente come l’intervento del legislatore del 2019 non possa essere tacciato di irragionevolezza, essendo volto a dirimere un contrasto che si era ormai manifestato nella giustizia amministrativa (non risultando specifici precedenti sulla questione da parte di questa Corte), attribuendo alla norma un significato che appunto rientrava in potenza tra quelli ricavabili dalla lettera stessa della norma originaria, risultando quindi sconfessate le censure mosse dalla controricorrente nella sua memoria difensiva, non potendosi per l’appunto ritenere esistente una consolidata interpretazione idonea ad ingenerare un affidamento della collettività su di una diversa esegesi.
Il carattere interpretativo della norma ne impone quindi l’applicazione anche alla fattispecie in esame, non già quale disciplina normativa favorevole sopravvenuta, ma perchè corrispondente alla disciplina applicabile ab origine al rapporto, a seguito della volontà legislativa di fornire l’interpretazione autentica delle norme vigenti.
Nè vale addurre al fine di escludere l’invocabilità della puntualizzazione legislativa la circostanza che la questione non fosse stata specificamente dedotta dalla ricorrente.
Infatti, con il motivo di ricorso, sebbene per diversi profili, è stata contestata la corretta applicazione della previsione di cui del D.M. n. 1444 del 1968, art. 9, comma 2, il che impone di tenere conto del reale contenuto della norma di cui la Corte è chiamata a verificare la corretta applicazione.
In tal senso depone la costante giurisprudenza di questa stessa Corte a mente della quale (cfr. Cass. n. 9977/2014) fin quando il diritto non si sia prescritto ovvero sia coperto da giudicato negativo (come appare evidente non sia accaduto nella fattispecie, atteso che la proposizione del ricorso mira appunto a ribadire l’inapplicabilità del comma 2 in esame), occorra tenere conto della dichiarazione di incostituzionalità nelle more intervenuta ovvero dello ius superveniens, non potendo il giudice applicare norme dichiarate illegittime, o non più esistenti, ovvero, a seguito dell’intervento di una norma di interpretazione autentica, mai vigenti nel significato erroneo invece attribuitole dal giudice di merito, trattandosi in ogni caso di situazioni la cui efficacia retroattiva incontra il solo limite delle situazioni consolidate per essersi il relativo rapporto definitivamente esaurito (in senso conforme Cass. n. 15809/2005; Cass. n. 8761/2002; Cass. n. 14859/2001; Cass. n. 14632/2001).
Trattasi di principio che mira ad assicurare l’adeguamento della soluzione alle modifiche sopravvenute del quadro normativo, in questo caso per effetto della norma di interpretazione autentica, che trova poi conforto anche nella giurisprudenza in tema di ius superveniens (Cass. S.U. n. 21691/2016) che appunto ribadisce che l’unico limite è costituito dal formarsi del giudicato (per l’applicazione della norma di interpretazione autentica anche in sede di rinvio, si veda Cass. n. 14022/2002).
Avuto riguardo quindi alla fattispecie in esame, dalla sentenza impugnata emerge che l’immobile delle attrici è ubicato in zona territoriale B, mentre quello della convenuta in zona territoriale B1, sicchè, tenuto conto della limitazione quanto all’applicazione del citato art. 9, comma 2, in ordine alla distanza da rispettare anche per edifici tra cui si interpone una strada, ai soli edifici siti in zona C, l’accoglimento della domanda motivato per la necessità di rispettare lo standard urbanistico de quo si palesa illegittima.
La sentenza impugnata deve quindi essere cassata in relazione a tale motivo.
2. Il secondo motivo denuncia la violazione e falsa applicazione dell’art. 112 c.p.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., nn. 3 e 4, nonchè la violazione ed errata applicazione del D.M. n. 1444 del 1968, art. 9.
Si reitera la deduzione già mossa in appello, secondo cui il dispositivo di condanna all’arretramento del fabbricato della ricorrente sarebbe del tutto indeterminato, riproponendosi nuovamente la deduzione circa l’impossibilità di ritenere i due fabbricati divisi solo da una strada pubblica.
Il terzo motivo denuncia la nullità della sentenza per la violazione dell’art. 112 c.p.c., reiterandosi l’eccezione di assoluta indeterminatezza del dispositivo della sentenza di primo grado, quanto alle modalità per assicurare l’arretramento del fabbricato, e si lamenta che il Tribunale aveva omesso di pronunciarsi, come appunto denunciato con uno specifico motivo di appello, quanto alla responsabilità delle attrici per i danni subiti dalla ricorrente che aveva visto naufragare, a seguito dell’iniziativa giudiziaria della controparte, le avanzate trattative per la vendita a terzi degli immobili oggetto di costruzione.
L’accoglimento del primo motivo determina l’assorbimento dei motivi in esame, dovendo il giudice del rinvio, atteso che la cassazione della sentenza d’appello ha travolto la condanna all’arretramento del fabbricato, verificare ex novo l’eventuale fondatezza della domanda risarcitoria.
3. Il quarto motivo di ricorso denuncia la violazione e falsa applicazione degli artt. 1655,840 e 2043 c.c., nella parte in cui la Corte d’Appello, pur riscontrando che la ricorrente aveva affidato l’esecuzione dei lavori ad un’impresa appaltatrice, ha ritenuto che residuasse in ogni caso la responsabilità del proprietario, potendosi al più aggiungere alla stessa quella dell’impresa appaltatrice (fatta salva in ogni caso l’esperibilità della domanda di garanzia da parte del primo nei confronti della seconda).
Il motivo è fondato.
I giudici di appello, pur mostrando consapevolezza di un più recente orientamento di questa Corte, del quale è espressione Cass. n. 6296/2013, a mente della quale la responsabilità del proprietario di un fondo per i danni derivanti da attività di escavazione, ex art. 840 c.c., non opera in senso oggettivo, ma richiede una condotta colposa, sicchè, nell’ipotesi in cui i lavori di escavazione siano affidati in appalto, è l’appaltatore ad essere di regola l’esclusivo responsabile dei danni cagionati a terzi nell’esecuzione dell’opera, salvo che non risulti accertato che il proprietario committente aveva – in forza del contratto di appalto – la possibilità di impartire prescrizioni o di intervenire per richiedere il rispetto delle normative di sicurezza e che se ne sia avvalso per imporre particolari modalità di esecuzione o particolari accorgimenti antinfortunistici che siano stati causa (diretta o indiretta) del sinistro, hanno sposato il più risalente orientamento di legittimità secondo cui (cfr. Cass. n. 2988/1989) il proprietario che fa eseguire sul suo fondo opere od escavazioni risponde direttamente, a termini degli artt. 840 e 2043 c.c., del danno che a causa di esse sia derivato al fondo confinante, anche se l’esecuzione dei lavori sia stata data in appalto, giacchè la colpa dell’appaltatore dà luogo ad una responsabilità dello stesso appaltatore verso i terzi, che si aggiunge, ma non elimina o diminuisce quella del proprietario (conf. Cass. n. 6473/1997; Cass. n. 4577/1998; Cass. n. 6104/2006; Cass. n. 5273/2008, citata nella sentenza gravata).
Ritiene il Collegio che debba invece darsi continuità al più recente orientamento della Corte, che a sua volta è stato più volte confermato nel corso degli ultimi anni, denotando quindi il superamento della tesi in precedenza sostenuta.
In tal senso militano le condivise argomentazioni di Cass. n. 6231/2016, secondo cui (cfr., ex plurimis, Cass., Sez. 3, Sentenza n. 11371 del 16 maggio 2006; Sez. 3, Sentenza n. 13131 del 1 giugno 2006; Sez. 3, Sentenza n. 7356 del 26 marzo 2009; Sez. 3, Sentenza n. 7755 del 29 marzo 2007; Sez. 3, Sentenza n. 10588 del 23 aprile 2008; Sez. 3, Sentenza n. 24320 del 30 settembre 2008; Sez. 3, Sentenza n. 23947 del 12 novembre 2009), di regola, l’appaltatore deve ritenersi unico responsabile dei danni derivati a terzi dall’esecuzione dell’opera, atteso che egli esplica l’attività contrattualmente prevista in piena autonomia, con propria organizzazione ed a proprio rischio, apprestando i mezzi adatti e curando le modalità esecutive per il raggiungimento del risultato. Secondo tale giurisprudenza una corresponsabilità del committente può eccezionalmente configurarsi in caso di specifica violazione di regole di cautela nascenti dall’art. 2043 c.c., ovvero in caso di riferibilità dell’evento al committente stesso per culpa in eligendo, per essere stata affidata l’opera ad un’impresa assolutamente inidonea, ovvero ancora quando l’appaltatore, in base a patti contrattuali o nel concreto svolgimento del contratto, sia stato un semplice esecutore di ordine del committente e privato della sua autonomia a tal punto da aver agito come nudus minister di questi, o infine quando il committente si sia di fatto ingerito con singole e specifiche direttive nella esecuzione del contratto o abbia concordato con l’appaltatore singole fasi o modalità esecutive dell’appalto. In particolare, un dovere di controllo di origine non contrattuale gravante sul committente al fine di evitare che dall’opera derivino lesioni del principio del neminem laedere può essere configurato solo con riferimento alla finalità di evitare specifiche violazioni di regole di cautela (cfr. ad es., oltre a quelle sopra citate: Cass., Sez. 3, Sentenza n. 11478 del 21 giugno 2004; Sez. 2, Sentenza n. 7273 del 12 maggio 2003) e non anche al fine di realizzare una generale supervisione da parte del committente sulla conformità del comportamento dell’appaltatore al principio base della responsabilità civile.
Quanto al preteso riconoscimento della responsabilità della convenuta quale mera proprietaria del fondo, ai sensi dell’art. 840 c.c., va ribadito il principio affermato da questa Corte, per cui “la responsabilità del proprietario di un fondo per i danni derivanti da attività di escavazione, ex art. 840 c.c., non opera in senso oggettivo, ma richiede una condotta colposa, sicchè, nell’ipotesi in cui i lavori di escavazione siano affidati in appalto, è l’appaltatore ad essere di regola l’esclusivo responsabile dei danni cagionati a terzi nell’esecuzione dell’opera, salvo che non risulti accertato che il proprietario committente aveva – in forza del contratto di appalto – la possibilità di impartire prescrizioni o di intervenire per richiedere il rispetto delle normative di sicurezza e che se ne sia avvalso per imporre particolari modalità di esecuzione o particolari accorgimenti antinfortunistici che siano stati causa (diretta o indiretta) del sinistro” (Cass. n. 538 del 17 gennaio 2012; Cass. n. 16254 del 25 settembre 2012), in quanto la suddetta responsabilità postula che il committente venga chiamato in giudizio quale proprietario del fondo nel quale siano state fatte escavazioni e che proprio queste escavazioni siano state causa dei danni lamentati, con l’ulteriore deduzione di un comportamento dello stesso proprietario colposo (o doloso) tale da determinarne la responsabilità (ai sensi delle norme sull’illecito civile: artt. 2043,2050,2053 c.c.), posto che questa non sussiste per effetto della sola titolarità del diritto di proprietà (cfr. Cass. n. 26002 del 5 dicembre 2011, in motivazione).
Ancorare la responsabilità del committente in ragione della sua qualità di proprietario ex art. 840 c.c., comma 1 (Cass. n. 5273 del 28 febbraio 2008), con la precisazione che l’esistenza del rapporto di appalto può valere per consentire al committente una eventuale rivalsa nei confronti dell’appaltatore inadempiente o in colpa, o se del caso, a far sorgere una responsabilità dell’appaltatore verso il terzo danneggiato che può aggiungersi a quella del proprietario, ma non sostituirla o eliminarla, non soddisfa però l’esigenza di dover leggere l’art. 840 c.c., in combinato disposto con l’art. 2043 c.c. (cfr. Cass. n. 2988 del 23 giugno 1989) o con l’art. 2053 c.c. (cfr. Cass. n. 22226 del 17 ottobre 2006) o, ancora, con l’art. 2050 c.c. (cfr. Cass. n. 6104 del 20 marzo 2006), per come si evince anche dalle motivazioni delle sentenze che si sono occupate della questione (cfr., tra le altre, Cass. n. 6473 del 15 luglio 1997, Cass. n. 4577 del 6 maggio 1998, nonchè da ultimo, la citata Cass. n. 5273 del 2008).
In altri termini la responsabilità del proprietario ex art. 840 c.c., non opera in senso oggettivo, ma richiede una condotta colposa, con la conseguenza che, nell’ipotesi in cui lavori di escavazione siano affidati dal proprietario in appalto, la suindicata disciplina va interpretata alla stregua del principio sopra richiamato secondo cui l’appaltatore è di regola esclusivo responsabile dei danni cagionati a terzi nella esecuzione dell’opera. Ne consegue che non sussiste responsabilità del proprietario committente ove non risulti accertato che questi, avendo in forza del contratto di appalto la possibilità di impartire prescrizioni nell’esecuzione dei lavori o di intervenire per chiedere il rispetto della normativa di sicurezza, se ne sia avvalso per imporre particolari modalità di esecuzione dei lavori o particolari accorgimenti antinfortunistici che siano stati causa (diretta o indiretta) del sinistro (cfr. Cass. n. 19132 del 20 settembre 2011; Cass. n. 15782 del 12 luglio 2006, oltre alle già richiamate sentenze n. 6296 del 2013, n. 538 del 2012 e n. 16254 del 2012).
E nella specie (dovendo peraltro escludersi che sia stata proposta azione ai sensi dell’art. 2051 c.c. e dunque che possa affermarsi la oggettiva responsabilità dei proprietari del fondo oggetto dell’attività di scavo, quali custodi di esso) la mancanza di elementi valutabili in tale ultimo senso risulta assorbente (cfr. Cass. n. 11194/2019 che ha ribadito che in tema di danni cagionati a terzi dall’esecuzione di opere appaltate, la regola per la quale risponde il solo appaltatore, ove abbia operato in autonomia con propria organizzazione e apprestando i mezzi a ciò necessari, e il solo committente, nel caso in cui si sia ingerito nei lavori con direttive vincolanti, che abbiano ridotto l’appaltatore al rango di “nudus minister”).
La sentenza impugnata non risulta essersi conformata ai suddetti principi di diritto, pervenendo ad affermare la responsabilità della ricorrente per la semplice qualità di proprietaria del fondo interessato dalle attività di scavo, con la conseguenza che la sentenza deve essere cassata anche in relazione a tale motivo.
4. Il quinto motivo che denuncia la violazione e falsa applicazione degli artt. 2043 e 1227 c.c., quanto all’erronea attribuzione della responsabilità dei danni subiti dal fabbricato delle attrici sulla base di un nesso di causalità erroneo, frutto di travisamento delle risultanze della CTU, è assorbito a seguito dell’accoglimento del quarto motivo.
5. Il giudice del rinvio, che si designa in una diversa sezione della Corte d’Appello di Genova, provvederà anche sulle spese del presente giudizio.
P.Q.M.
La Corte accoglie il primo ed il quarto motivo di ricorso nei termini di cui in motivazione, ed assorbiti gli altri motivi, cassa la sentenza impugnata in relazione ai motivi accolti, con rinvio, anche per le spese del presente giudizio, ad una diversa sezione della Corte d’Appello di Genova.
Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Sezione Seconda Civile, il 26 gennaio 2021.
Depositato in Cancelleria il 12 marzo 2021
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