Corte di Cassazione, sez. II Civile, Ordinanza n.4936 del 15/02/2022

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LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SECONDA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. GIUSTI Alberto – Presidente –

Dott. GIANNACCARI Rossana – Consigliere –

Dott. FORTUNATO Giuseppe – Consigliere –

Dott. OLIVA Stefano – rel. Consigliere –

Dott. MASSAFRA Annachiara – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 16559-2017 proposto da:

Q.F.G., elettivamente domiciliato in ROMA, VIA EMILIO DE’ CAVALIERI n. 11, presso lo studio dell’avvocato ALDO FONTANELLI, che lo rappresenta e difende unitamente all’avvocato MICHELE MICCOLI;

– ricorrente –

contro

P.B., elettivamente domiciliato in ROMA, PIAZZALE DELLE BELLE ARTI n. 8, presso lo studio dell’avvocato ANTONINO PELLICANO’, che lo rappresenta e difende;

– controricorrente e ricorrente incidentale –

Avverso la sentenza n. 140/2017 della CORTE D’APPELLO di REGGIO CALABRIA, depositata il 03/03/2017;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del 20/01/2022 dal Consigliere Dott. STEFANO OLIVA

FATTI DI CAUSA

Con atto di citazione notificato il 3.4.1997 P.B., promissario acquirente di un immobile di proprietà di Q.F.G., evocava in giudizio quest’ultimo innanzi il Tribunale di Reggio Calabria, invocando la declaratoria dell’intervenuta risoluzione del contratto preliminare intercorso tra le parti in data 31.5.1995, in tesi in forza della clausola risolutiva espressa contenuta in detta pattuizione, ed in ipotesi per grave inadempimento del convenuto, promittente venditore. L’attore invocava altresì la condanna del predetto convenuto alla restituzione della caparra confirmatoria a suo tempo ricevuta ed al risarcimento del danno, sulla base dell’assunto che non fosse stato possibile perfezionare il rogito definitivo di compravendita a causa del fatto che il promittente venditore non aveva assicurato la regolarizzazione del cespite, sotto il profilo urbanistico ed edilizio. Chiedeva infine, sempre in base ai medesimi assunti, la condanna del Q. alla restituzione di un diverso immobile che l’attore gli aveva consegnato in permuta parziale.

Si costituiva il convenuto, resistendo alla domanda principale e spiegando riconvenzionale per la refusione delle spese da lui sostenute per il risanamento e la ristrutturazione dell’immobile ricevuto in permuta, nonché per il pagamento di una somma commisurata all’aumento di valore commerciale che detto cespite aveva avuto, per effetto degli interventi da lui eseguiti su di esso.

Con sentenza n. 698/2003 il Tribunale accoglieva parzialmente la domanda principale, dichiarando risolto il contratto preliminare intercorso tra le parti per inadempimento del Q., che condannava alla restituzione della caparra versata dal P. ed al rilascio dell’immobile oggetto di permuta.

Interponeva appello avverso detta decisione il Q. e si costituiva in seconde cure il P., resistendo al gravame e spiegando appello incidentale, con il quale riproponeva la domanda di risoluzione del contratto preliminare di cui è causa per avvenuta scadenza del termine e per violazione della clausola risolutiva espressa in esso contenuta.

Con la sentenza impugnata, n. 140/2017, la Corte di Appello di Reggio Calabria rigettava entrambe le impugnazioni, compensando tra le parti le spese di lite.

Propone ricorso per la cassazione di detta decisione Q.F.G., affidandosi a due motivi.

Resiste con controricorso P.B., spiegando ricorso incidentale, a sua volta affidato a due motivi.

In prossimità dell’adunanza camerale, la parte controricorrente ha depositato memoria.

RAGIONI DELLA DECISIONE

Con il primo motivo, il ricorrente principale lamenta la violazione e falsa applicazione degli artt. 1150 e 1141 c.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, perché la Corte di Appello avrebbe rigettato la sua domanda – volta ad ottenere il riconoscimento di un corrispettivo per le migliorie apportate all’immobile oggetto di permuta, restituito al P. in virtù della risoluzione del contratto preliminare sottoscritto tra le parti – sul presupposto che il Q. sarebbe stato mero detentore, e non possessore, di detto bene. Ad avviso del ricorrente, invece, egli avrebbe esercitato il possesso del bene ricevuto in permuta in modo esplicito e pubblico, piantando 80 alberi da frutto, realizzando un muro di 40 metri lineari, una strada di 120 metri e ristrutturando il fabbricato insistente su detto fondo; il P., invece, non avrebbe fornito la prova, contraria, del fatto che la coltivazione del terreno sarebbe stata eseguita sulla base di un titolo diverso dal possesso.

Con il secondo motivo, il ricorrente principale la violazione e falsa applicazione dell’art. 1150 c.c. e l’omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3 e 5, perché la Corte di Appello avrebbe erroneamente escluso la sussistenza del suo possesso sul bene permutato, nonostante le opere da lui eseguite sul medesimo.

I due motivi, suscettibili di trattazione congiunta in vista della loro evidente connessione, sono infondati.

Il primo non tiene conto del principio, più che consolidato, per cui “Nella promessa di vendita, quando viene convenuta la consegna del bene prima della stipula del contratto definitivo, non si verifica un’anticipazione degli effetti traslativi, in quanto la disponibilità conseguita dal promissario acquirente si fonda sull’esistenza di un contratto di comodato funzionalmente collegato al contratto preliminare, produttivo di effetti meramente obbligatori. Pertanto la relazione con la cosa, da parte del promissario acquirente, è qualificabile esclusivamente come detenzione qualificata e non come possesso utile ad usucapionem, salvo la dimostrazione di un’intervenuta interversio possessionis nei modi previsti dall’art. 1141 c.c.” (Cass. Sez. U, Sentenza n. 7930 del 27/03/2008, Rv. 602815; conformi, Cass. Sez. 2, Sentenza n. 1296 del 25/01/2010, Rv. 611222; Cass. Sez. 2, Sentenza n. 9896 del 26/04/2010, Rv. 612577; Cass. Sez. 2, Sentenza n. 5211 del 16/03/2016, Rv. 639209; Cass. Sez. 3, Sentenza n. 24637 del 02/12/2016, Rv. 642328; Cass. Sez. 2, Ordinanza n. 29594 del 22/10/2021, Rv. 662568).

Il secondo, invece, non considera l’ulteriore principio, egualmente consolidato, secondo cui “La previsione di cui all’art. 1150 c.c. – che attribuisce al possessore, all’atto della restituzione della cosa, il diritto al rimborso delle spese fatte per le riparazioni straordinarie ed all’indennità per i miglioramenti recati alla cosa stessa – è di natura eccezionale e non può, dunque, essere applicata in via analogica al detentore qualificato od a qualsiasi diverso soggetto” (Cass. Sez. 2, Sentenza n. 28379 del 28/11/2017, Rv. 646084; conf. Cass. Sez. 2, Sentenza n. 17245 del 22/07/2010, Rv. 614181 e Cass. Sez. 2, Sentenza n. 5211 del 16/03/2016, Rv. 639209).

La Corte di Appello, correttamente applicando i suesposti principi, ha escluso la ricorrenza, in capo al Q., dei presupposti utili per la rifusione delle spese sostenute per le opere e le migliorie apportate al bene ricevuto in consegna anticipata in vista della permuta parziale, sulla base del rilievo che la relazione di fatto dal medesimo costituita con il bene ricevuto in permuta aveva avuto inizio in base ad un contratto preliminare e fosse -di conseguenza-qualificabile come mera detenzione, e non come possesso. Una volta esclusa la sussistenza del possesso, non poteva essere riconosciuta, in favore del ricorrente, l’indennità prevista dall’art. 1150 c.c., che spetta esclusivamente al possessore, e non anche al detentore.

Il ricorso principale va dunque rigettato.

Passando all’esame dei motivi del ricorso incidentale, con il primo di essi il P. lamenta la violazione e falsa applicazione dell’art. 1385 c.c., il difetto assoluto o l’apparenza della motivazione e l’omesso esame di fatto decisivo, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3 e 5, perché la Corte di Appello avrebbe erroneamente rigettato la domanda di restituzione del doppio della caparra, che il ricorrente incidentale, attore in prime cure, aveva proposto innanzi il Tribunale e coltivato, in appello, mediante apposito motivo di impugnazione incidentale. Ad avviso del P., la Corte distrettuale avrebbe errato nell’escludere il suo diritto alla percezione del doppio della caparra a suo tempo versata al Q., sul presupposto che egli avesse proposto domanda di risoluzione, e non di recesso, del contratto preliminare; il giudice di merito, infatti, avrebbe dovuto considerare che il ricorrente incidentale aveva proposto, in prime cure, anche la domanda di recesso, e non solo quella di risoluzione.

La censura è infondata.

Lo stesso ricorrente incidentale riporta, a pag. 27 e s. del proprio scritto introduttivo, le conclusioni che egli aveva spiegato in prime cure, dalle quali risulta che era stata proposta domanda: a) di risoluzione del contratto preliminare per applicazione della clausola risolutiva espressa; b) di risoluzione del predetto contratto per grave inadempimento, ex art. 1455 c.c.; c) di condanna del promittente venditore alla restituzione di “quanto indebitamente percepito a titolo di caparra confirmatoria nella misura dovuta per legge, nonché alla restituzione del suolo di proprietà del sig. P., oggetto della permuta, detenuto dal sig. Q.”; d) di risarcimento dei danni, morali e patrimoniali, derivanti dall’inadempimento.

In nessuna parte di dette conclusioni si fa riferimento alla domanda di recesso, ontologicamente diversa e disomogenea rispetto a quella di risoluzione: la prima, infatti, comporta la ritenzione della caparra, che rappresenta un meccanismo di liquidazione anticipata e convenzionale del danno, volto ad evitare l’instaurazione di un giudizio contenzioso; la seconda, invece, implica la manifestazione di volontà, non più rinunciabile, di porre fine al vincolo negoziale esistente tra le parti; il che implica l’irrinunciabilità dell’opzione per la risoluzione, una volta esercitata, e l’impossibilità di proporre la domanda di recesso in appello, ov’essa non sia stata proposta in prime cure, posto che la funzione stessa della caparra risulterebbe frustrata, se alla parte che abbia preferito affrontare gli oneri connessi all’azione risarcitoria per ottenere un ristoro patrimoniale più cospicuo fosse consentito – in contrasto con il principio costituzionale del giusto processo, che vieta qualsiasi forma di abuso processuale – di modificare la propria strategia difensiva, quando i risultati non corrispondano alle sue aspettative (cfr. Cass. Sez. U, Sentenza n. 553 del 14/01/2009, Rv. 606608 e Cass. Sez. 6 – 2, Ordinanza n. 21971 del 12/10/2020, Rv. 69397).

Ne’ può ravvisarsi la volontà di proporre una domanda di recesso del contratto intercorso tra le parti nel semplice fatto che il P. abbia invocato, in prime cure, la restituzione della caparra “nella misura dovuta per legge”. Va infatti ribadito il principio per cui “In tema di caparra confirmatoria la disposizione di cui all’art. 1385 c.c., comma 2 (relativa alla facoltà della parte non inadempiente di recedere dal contratto ritenendo la caparra ricevuta o esigendone il doppio rispetto a quella versata) non è applicabile tutte le volte in cui la detta parte, anziché recedere dal contratto, si avvalga dei rimedi ordinari della richiesta di adempimento ovvero di risoluzione del negozio, perdendo, in tale ipotesi la caparra la sua funzione di liquidazione convenzionale anticipata del danno, così che la sua restituzione è ricollegabile agli effetti restitutori propri della risoluzione negoziale come conseguenza del venir meno della causa della corresponsione” (Cass. Sez. 2, Sentenza n. 8881 del 03/07/2000, Rv. 538191; conformi, Cass. Sez. 3, Sentenza n. 849 del 24/01/2002, Rv. 551825; Cass. Sez. 3, Sentenza n. 18850 del 20/09/2004, Rv. 577186; Cass. Sez. 2, Sentenza n. 9040 del 19/04/2006, Rv. 589547; Cass. Sez. 2, Sentenza n. 17923 del 23/08/2007, Rv. 599362; Cass. Sez. 2, Sentenza n. 10953 del 28/06/2012, Rv. 623124). Dal che deriva che il semplice fatto di aver invocato la restituzione della caparra “nella misura dovuta per legge” non presuppone necessariamente la proposizione di una domanda di recesso.

Con il secondo motivo, il ricorrente incidentale lamenta la violazione e falsa applicazione dell’art. 2697 c.c., il difetto assoluto o l’apparenza della motivazione e l’omesso esame di fatto decisivo, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3 e 5, perché la Corte di Appello avrebbe ingiustamente escluso la domanda risarcitoria, che egli aveva proposto in prime cure e coltivata mediante apposito motivo di appello incidentale, ritenendola non provata. Ad avviso del P., infatti, il danno derivante dalla mancata disponibilità del bene sarebbe in re ipsa.

La censura è infondata, poiché quando la parte sceglie di agire per la risoluzione, essa ha diritto alla restituzione della caparra perché viene meno la causa giustificativa della sua prestazione, ma deve provare il danno del quale invoca il risarcimento nelle forme ordinarie. Sul punto, va ribadito il principio per cui “Qualora, anziché recedere dal contratto, la parte non inadempiente si avvalga dei rimedi ordinari della richiesta di adempimento ovvero di risoluzione del negozio, la restituzione della caparra è ricollegabile agli effetti restitutori propri della risoluzione negoziale, come conseguenza del venire meno della causa della corresponsione, giacché, in tale ipotesi, essa perde la suindicata funzione di limitazione forfettaria e predeterminata della pretesa risarcitoria all’importo convenzionalmente stabilito in contratto e la parte che allega di avere subito il danno, oltre che alla restituzione di quanto prestato in relazione al contratto od in esecuzione del medesimo, ha diritto anche al risarcimento dell’integrale danno subito, se e nei limiti in cui riesce a provarne l’esistenza e l’ammontare in base alla disciplina generale degli artt. 1453 c.c. e ss. ” (Cass. Sez. 2, Sentenza n. 8571 del 27/03/2019, Rv. 653635 – 02). In senso conforme, cfr. anche Cass. Sez. 2, Sentenza n. 9040 del 19/04/2006, Rv. 589547, secondo cui “La caparra confirmatoria ai sensi dell’art. 1385 c.c. assume la funzione di liquidazione convenzionale del danno da inadempimento qualora la parte non inadempiente abbia esercitato il potere di recesso conferitole dalla legge che, in tal caso, è legittimata a ritenere la caparra ricevuta o ad esigere il doppio di quella versata. Qualora, invece, detta parte abbia preferito domandare la risoluzione o l’esecuzione del contratto, il diritto al risarcimento del danno rimane regolato dalle norme generali, onde il pregiudizio subito dovrà in tal caso essere provato nell’an e nel quantum, giacché la caparra conserva solo la funzione di garanzia dell’obbligazione risarcitoria”.

Sulle caratteristiche della caparra confirmatoria, inoltre, è illuminante – e merita di essere ribadito – il principio espresso da Cass. Sez. 3, Sentenza n. 11356 del 16/05/2006, Rv. 591350, secondo cui “La caparra confirmatoria ha natura composita – consistendo in una somma di denaro o in una quantità di cose fungibili – e funzione eclettica – in quanto è volta a garantire l’esecuzione del contratto, venendo incamerata in caso di inadempimento della controparte (sotto tale profilo avvicinandosi alla cauzione); consente, in via di autotutela, di recedere dal contratto senza la necessità di adire il giudice; indica la preventiva e forfettaria liquidazione del danno derivante dal recesso cui la parte è stata costretta a causa dell’inadempimento della controparte. Va invece escluso che abbia anche funzione probatoria e sanzionatoria, così distinguendosi sia rispetto alla caparra penitenziale, che costituisce il corrispettivo del diritto di recesso, sia dalla clausola penale, diversamente dalla quale non pone un limite al danno risarcibile, sicché la parte non inadempiente ben può recedere senza dover proporre domanda giudiziale o intimare la diffida ad adempiere, e trattenere la caparra ricevuta o esigere il doppio di quella prestata senza dover dimostrare di aver subito un danno effettivo. La parte non inadempiente può anche non esercitare il recesso, e chiedere la risoluzione del contratto e l’integrale risarcimento del danno sofferto in base alle regole generali (art. 1385 c.c., comma 3), e cioè sul presupposto di un inadempimento imputabile e di non scarsa importanza, nel qual caso non può incamerare la caparra, essendole invece consentito trattenerla a garanzia della pretesa risarcitoria o in acconto su quanto spettantele a titolo di anticipo dei danni che saranno in seguito accertati e liquidati. Qualora, anziché recedere dal contratto, la parte non inadempiente si avvalga dei rimedi ordinari della richiesta di adempimento ovvero di risoluzione del negozio, la restituzione della caparra è ricollegabile agli effetti restitutori propri della risoluzione negoziale, come conseguenza del venir meno della causa della corresponsione, giacché in tale ipotesi essa perde la suindicata funzione di limitazione forfettaria e predeterminata della pretesa risarcitoria all’importo convenzionalmente stabilito in contratto, e la parte che allega di aver subito il danno, oltre che alla restituzione di quanto prestato in relazione o in esecuzione del contratto, ha diritto anche al risarcimento dell’integrale danno subito, se e nei limiti in cui riesce a provarne l’esistenza e l’ammontare in base alla disciplina generale di cui agli artt. 1453 c.c. e ss.”.

Sotto quest’ultimo profilo, peraltro, va osservato che il giudice di merito ha, nel caso specifico, rigettato la domanda risarcitoria in quanto il P. non aveva neppure assolto l’onere di allegazione circa il danno del quale invocava il risarcimento (sul punto, cfr. pag. 7 della sentenza impugnata e pag. 14 della memoria ex art. 378 c.p.c. depositata dal ricorrente incidentale). Il P. non attinge con la necessaria specificità tale passaggio della motivazione, poiché non dimostra di aver – contrariamente a quanto ritenuto dalla Corte distrettuale – rispettato almeno l’onere di allegazione del danno richiesto. Sul punto, va dato atto della sussistenza di una divergenza interpretativa in tema di danno derivante occupazione abusiva di immobili, potendosi individuare un primo orientamento che considera tale pregiudizio in re ipsa (da ultimo, Cass. Sez. 2, Ordinanza n. 20545 del 06/08/2018, Rv. 649998), ed un secondo filone interpretativo, secondo cui esso deve comunque essere oggetto di dimostrazione da parte del danneggiato, il quale è tenuto a provare l’effettiva lesione derivante dall’abusiva occupazione (da ultimo, Cass. Sez. 3, Sentenza n. 13071 del 25/05/2018, Rv. 648709). E va, del pari, dato atto che la più recente elaborazione giurisprudenziale di questa Corte ritiene che, nello specifico caso di occupazione illegittima di un immobile, il danno subito dal proprietario sia oggetto di una presunzione correlata alla normale fruttuosità del bene; presunzione che, tuttavia, essendo basata sull’id quod plerumque accidit, ha carattere relativo, iuris tantum, e quindi ammette la prova contraria. Non si configura, quindi, un danno la cui sussistenza sia irrefutabile, e di conseguenza la locuzione “danno in re ipsa” va tradotta come “danno normale” o “danno presunto”, per tale intendendosi il pregiudizio normalmente collegato all’indisponibilità del bene fruttifero (cfr. Cass. Sez. 6 – 2, Ordinanza n. 39 del 07/01/2021, Rv. 660183 e Cass. Sez. 3, Ordinanza n. 14268 del 25/05/2021, Rv. 661551). Pertanto, al fine di poter ipotizzare, in favore del danneggiato, l’alleggerimento probatorio derivante dalla presunzione, occorre che il predetto alleghi in modo specifico il danno del quale invoca il ristoro, indicando le circostanze dalle quali far discendere, appunto in via presuntiva, l’esistenza del pregiudizio lamentato. Nel caso di specie, la Corte distrettuale esclude che, in concreto, il P. abbia soddisfatto tale prerequisito, e la censura non indica alcun elemento concreto che il ricorrente incidentale avrebbe – al contrario – fornito in sede di merito e che sarebbe stato pretermesso, o erroneamente interpretato, dal giudice di seconda istanza. Dal che discende il rigetto della doglianza, che si risolve nella mera riproposizione di un automatismo tra mancata disponibilità del bene e danno, senza neppure la deduzione dell’effettiva intenzione del P. di mettere l’immobile a frutto (Cass. Sez. 3, Sentenza n. 13071 del 25/05/2018, Rv. 648709, cit.).

Anche il ricorso incidentale, in definitiva, va rigettato.

Alla luce della reciproca soccombenza, le spese del presente giudizio di legittimità vanno compensate integralmente tra le parti.

Stante il tenore della pronuncia, va dato atto – ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater – della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento di un ulteriore importo a titolo contributo unificato, pari a quello previsto per la proposizione dell’impugnazione, se dovuto.

PQM

la Corte rigetta tanto il ricorso principale che quello incidentale compensando per intero tra le parti le spese del presente giudizio di legittimità.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente principale e di quello incidentale, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis se dovuto.

Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della sezione seconda civile, il 20 gennaio 2022.

Depositato in Cancelleria il 15 febbraio 2022

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