Concorrenza, intese restrittive, nullità, ambito di applicazione

Corte di Cassazione, sez. III Civile, Ordinanza n.34889 del 13/12/2023

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Concorrenza, intese restrittive, nullità, ambito di applicazione

L'art. 2 della Legge n. 287 del 1990 (c.d. legge "antitrust"), allorché dispone che siano nulle ad ogni effetto le intese restrittive della concorrenza fra imprese si riferisce a qualsiasi condotta di mercato (anche realizzantesi in forme che escludono una caratterizzazione negoziale) purché con la consapevole partecipazione di almeno due imprese, nonché anche le fattispecie in cui il meccanismo di "intesa" rappresenti il risultato del ricorso a schemi giuridici meramente "unilaterali". Da ciò consegue che, allorché l'articolo in questione stabilisce la nullità delle intese non abbia inteso dar rilevanza esclusivamente all'eventuale negozio giuridico originario postosi all'origine della successiva sequenza comportamentale, ma a tutta la più complessiva situazione - anche successiva al negozio originario - la quale - in quanto tale - realizzi un ostacolo al gioco della concorrenza.
 

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Cassazione civile, sez. III, ordinanza 13/12/2023 (ud. 12/10/2023) n. 34889

RILEVATO IN FATTO

Che:

il Banco BPM aveva ottenuto il decreto n. 995/14, con il quale veniva ingiunto alla Pacinotti S.R.L. Servizi per Studi professionali e a D.M. di pagare, in solido tra loro, la somma complessiva di Euro 81.149,08, oltre alle spese della procedura per ingiunzione liquidate in complessivi Euro 1.968,00, per canoni insoluti relativi al contratto di leasing finanziario dell'11.10.2006 e al successivo atto di variazione del 26.9.08;

gli ingiunti, rispettivamente, società utilizzatrice e fideiussore della stessa, avevano proposto opposizione, lamentando che: a) per determinare l'insoluto non si fosse tenuto conto della somma di Euro 50.000,00 rinveniente dall'escussione del pegno costituito contestualmente alla stipulazione del contratto originario; b) la concedente non aveva consegnato una copia completa del contratto, incorrendo nella violazione del D.Lgs. n. 385 del 1993, art. 117; c) il documento di sintesi ometteva l'indicazione dei parametri di determinazione del canone; d) il tasso convenzionale rinviava ai parametri dell'Euribor e ad indici frutto di intese vietate dagli artt. 85 e 86 del Trattato CE e della L. n. 287 del 1990, artt. 2 e 3; e) in applicazione dell'art. 1526 c.c., il concedente era tenuto a restituire i canoni riscossi;

nelle more del giudizio la società Pacinotti veniva dichiarata fallita e il giudizio nei suoi confronti veniva separato dalla presente controversia e dichiarato estinto;

la società Pacinotti S.r.l., seppur fallita, aveva impugnato la sentenza di fallimento ed aveva depositato istanza di riassunzione, adducendo la persistenza del suo interesse ad evitare il passaggio in giudicato del decreto ingiuntivo - inopponibile al fallimento ma non alla società eventualmente tornata in bonis - per estinzione dell'opposizione, ai sensi dell'art. 653 c.p.c., per l'ipotesi di accoglimento del ricorso per cassazione proposto avverso la sentenza dichiarativa di fallimento, risultando il relativo giudizio ancora pendente;

con la sentenza n. 7200/2019, il Tribunale di Milano rigettava l'opposizione;

seguiva il giudizio di appello attivato da D.M., dinanzi alla Corte d'Appello di Milano, conclusosi con la pronuncia n. 775/2022 depositata in data 08/03/2022, che ha confermato la decisione di prime cure;

segnatamente:

1) ha ritenuto documentalmente provata la piena conoscenza da parte dell'utilizzatrice delle condizioni particolari del contratto e quindi inverosimile che il contratto sottoscritto (con pagine numerate da n. 1 a n. 7) le fosse stato consegnato privo delle pagine ove erano contenute le condizioni particolari e, in ogni caso, ha dato rilievo al fatto che l'utilizzatrice avesse dato regolare esecuzione al contratto per i primi sei senza formulare eccezione alcuna sulla completezza dei documenti contrattuali in suo possesso ovvero sulla quantificazione delle rate;

2) ha considerato ininfluente la circostanza che la documentazione contenente le condizioni generali di contratto non fosse stata consegnata al fideiussore;

3) ha confermato l'inapplicabilità delle disposizioni di trasparenza bancaria al contratto di leasing, perché esse estendono il metodo di calcolo del TAEG previsto per i rapporti di credito con i consumatori solo ad alcuni rapporti instaurati con soggetti che non abbiano tale natura e non è quindi consentita una interpretazione estensiva a categorie di operazioni diverse da quelle indicate nell'allegato alla delibera del CICR del 4 marzo 2003;

4) ha considerato priva di pregio la tesi della riconducibilità del leasing finanziario alla categoria "altri finanziamenti" prevista nella delibera citata, atteso che il paragrafo I della sezione 2 delle norme sulla trasparenza, nell'individuare l'ambito di applicazione, indica espressamente il leasing finanziario in aggiunta agli "altri finanziamenti": segno che il contratto di leasing non può rientrare nella categoria "altri finanziamenti";

5) ha negato l'applicabilità dell'art. 117 TUB al leasing finanziario, perché esso sanziona con la nullità solo due ipotesi - a) la mancata indicazione del tasso d'interesse e di ogni altro prezzo e condizione praticata, inclusi, gli eventuali maggiori oneri in caso di mora; b) la determinazione del tasso d'interesse tramite rinvio agli usi - nessuna delle quali è tale da giustificare la nullità del contratto per mancata indicazione dell'ISC quando a concluderlo non sia un consumatore;

6) ha escluso che potesse dirsi nullo il contratto a valle stipulato dagli istituti di credito che avevano applicato il tasso Euribor, perché nessun rilievo era stato mosso agli istituti di credito italiani che avevano partecipato al panel per la determinazione del tasso Euribor e perché l'intesa illecita in violazione dell'art. 101 del Trattato UE in materia di concorrenza è solo quella di cui sia parte l'istituto bancario;

7) ha rigettato il quarto motivo di appello con cui l'odierna parte ricorrente lamentava il fatto che il Tribunale avesse ritenuto tardive le contestazioni relative alla sussistenza del credito azionato, sul presupposto che sarebbero state svolte per la prima volta in comparsa conclusionale, perché, oltre alla genericità, la doglianza si riferiva all'incompletezza della documentazione con conseguente assorbimento, dato il rigetto del primo motivo;

8) ha disatteso il motivo di appello relativo alla violazione dell'art. 1526 c.c., per la ragione assorbente che ad agire in giudizio era il fideiussore, non una parte del contratto, con conseguente carenza di legittimazione rispetto alla domanda di restituzione dei canoni versati dall'utilizzatrice in corso di contratto, anche solo a fini compensativi, ed in più perché l'appellante muoveva da un presupposto errato, cioè che il contratto non si fosse risolto;

avverso detta sentenza propongono ricorso per cassazione fondato su sette motivi D.M. e la società Pacinotti S.r.L.;

resiste con controricorso Banco BPM S.p.A.;

nessuna attività difensiva è svolta in questa sede da Release S.p.A., rimasta intimata;

la trattazione del ricorso è fissata ai sensi dell'art. 380-bis c.p.c., comma 1;

D.A.M. ha depositato memoria.

CONSIDERATO IN DIRITTO

Che:

1) in via preliminare deve accogliersi l'eccezione di parte controricorrente in ordine al difetto di legittimazione processuale della società Pacinotti S.r.L. in quanto fallita, in assenza di ratifica da parte del curatore fallimentare;

lo scrutinio che segue, quindi, riguarda il ricorso proposto da D.F.M. in proprio;

2) con il primo motivo alla Corte d'Appello si imputa di aver violato l'art. 117 TUB e di aver falsamente applicato gli artt. 2967 c.c. in materia di riparto dell'onere della prova e gli art. 115 c.p.c., comma 2 e art. 116 c.p.c., in materia di valutazione dei mezzi di prova;

parte ricorrente afferma che un conto è l'obbligo di consegna di copia del contratto sottoscritto al cliente un altro è il rispetto dell'onere di stipulazione del contratto per iscritto;

a supporto di detto assunto invoca la pronuncia n. 898/2018 con cui le Sezioni Unite, pronunciandosi sulla disciplina dei contratti finanziari, hanno affermato la legittimità dei contratti cosiddetti "monofirma" soltanto in quanto la sottoscrizione del delegato della banca o dell'intermediario finanziario rimanga "assorbita" dalla consegna al cliente, che l'abbia sottoscritta, di una copia del contratto;

nel caso di specie - insiste parte ricorrente - la documentazione consegnata era incompleta, giacché risultavano menzionati soltanto il Documento di sintesi, il Foglio Informativo e l'avviso (anche se della effettiva consegna di quest'ultimo non si dà atto);

spettava alla concedente dimostrare di avere consegnato la copia integrale del contratto sottoscritto; tale onere non era stato soddisfatto e la Corte territoriale, anziché prenderne atto e trarne le conseguenze, si è "rifugiata in una valutazione di "verosimiglianza" che, a ben vedere, si è tradotta nel ricorso alla scienza personale del giudice, non essendo stato formulato alcun ragionamento presuntivo né sussistendo i presupposti del fatto notorio"; il ragionamento della Corte - secondo tale tesi - in sostanza, violerebbe apertamente l'art. 116 c.p.c. e l'art. 2697 c.c.;

il motivo è infondato;

e' sufficiente rilevare che la Corte d'Appello non ha affatto presunto che l'odierna parte ricorrente conoscesse le condizioni particolari di contratto, ma lo ha ritenuto inequivocabilmente provato documentalmente;

deve, pertanto, escludersi che sia incorsa nella violazione della distribuzione dell'onere della prova e altresì che ricorrano i presupposti per lamentare la violazione dell'art. 116 c.p.c., non potendosi imputare al giudice di merito l'erronea valutazione delle prove, sulla scorta della quale ha assunto la statuizione impugnata;

Senza sottacersi che del contratto monofirma non ricorre invero nella specie il presupposto, cioè la mancata sottoscrizione del documento contrattuale da parte della banca (cfr. ex plurimis Cass. 30/06/2023, n. 18590);

2) con il secondo motivo parte ricorrente lamenta la falsa applicazione dell'art. 117 TUB e la violazione delle norme integrative in materia di trasparenza dei contatti finanziari contenute nelle Istruzioni di Banca d'Italia sulla Trasparenza del 25 luglio 2003, perché il documento di sintesi prodotto a corredo dell'ingiunzione indicava il c.d. Tasso leasing del 5,02226% ma per le modalità di indicizzazione rinviava al "ricalcolo della rata con arrotondamento dell'indice (per la metodologia completa di calcolo si veda quanto riportato sul Foglio Informativo e sulle condizioni generali di Contratto"); il che dimostrava l'esistenza di un diverso tasso di attualizzazione non esplicitato in misura percentuale nel documento stesso;

la Corte d'Appello però ha ritenuto che l'art. 117 tub non si applicasse ai contratto di leasing finanziario, entrando in contraddizione con il documento - tempestivamente prodotto in giudizio - denominato "Trasparenza delle operazioni e dei Servizi bancari e finanziari - Correttezza delle Relazioni tra intermediari e clienti", con il quale la Banca d'Italia, alla sezione II, rubricata, "Pubblicità e informazione precontrattuale", ha espressamente chiarito, a pag. 12, che "le disposizioni della presente sezione si applicano ai seguenti servizi e operazioni: depositi;

finanziamenti (mutui; aperture di credito; anticipazioni bancarie;

crediti di firma; sconti di portafoglio; leasing finanziario; factoring;

altri finanziamenti) che non configurano operazioni di credito ai consumatori ai sensi della sezione VII; garanzie ricevute";

di conseguenza, per il leasing finanziario, annoverabile nella categoria "altri finanziamenti", l'ISC è calcolato come il TAEG previsto dalla disciplina in materia di credito per i consumatori e il valore economico comunque determinato sulla scorta degli stessi criteri previsti per l'ISC deve essere obbligatoriamente indicato anche nel documento di sintesi;

il motivo è infondato;

non può che ribadirsi che l'indicazione dell'ISC è obbligatoria solo per le operazioni di credito al consumo; il fatto che talune tipologie di leasing rientrino nel novero delle operazioni di credito al consumo non significa che in ogni contratto di leasing debba essere espresso l'ISC; la giurisprudenza di questa Corte è ferma nel ritenere che al di fuori dei casi di contratti stipulati con un consumatore, ai sensi dell'art. 125 bis T.U.B., la omessa previsione del Taeg non determina la nullità del contratto, in quanto "l'indice sintetico di costo (ISC), altrimenti detto tasso annuo effettivo globale (TAEG), è solo un indicatore sintetico del costo complessivo dell'operazione di finanziamento, che comprende anche gli oneri amministrativi di gestione e, come tale, non rientra nel novero dei tassi, prezzi ed altre condizioni, la cui mancata indicazione nella forma scritta è sanzionata con la nullità, seguita dalla sostituzione automatica D.Lgs. n. 385 del 1993, ex art. 117, tenuto conto che essa, di per sé, non determina una maggiore onerosità del finanziamento, ma solo l'erronea rappresentazione del suo costo globale, pur sempre ricavabile dalla sommatoria degli oneri e delle singole voci di costo elencati in contratto" (Cass. 15/06/2023, n. 17187; Cass. 14/12/2022, n. 4597);

3) con il terzo motivo si denuncia la violazione della L. n. 287 del 1990, art. 2, comma 2;

attinta da censura è la statuizione con cui la Corte d'Appello ha escluso la nullità dei contratti invocata da parte ricorrente, per aver determinato il compenso facendo riferimento al tasso Euribor, in quanto accordo a valle di un cartello tra otto delle principali banche Europee finalizzato alla manipolazione dei tassi sulla scorta dei quali viene determinato l'Euribor;

il motivo è fondato;

nel caso di specie, la Corte d'Appello ha ritenuto genericamente enunciata la censura dell'allora appellante perché la mera partecipazione di più istituti di credito al panel per la determinazione del tasso Euribor non implica la sussistenza di un'intesa vietata dalla L. n. 287 del 1990, art. 2 e perché il Banco BPM non aveva partecipato ad un'intesa manipolativa della concorrenza;

nella pronuncia delle sezioni unite di questa Corte n. 2207 del 4/2/2005 è stato precisato che "la legge "antitrust" 10 ottobre 1990, n. 287 detta norme a tutela della libertà di concorrenza aventi come destinatari chiunque abbia interesse, processualmente rilevante, alla conservazione del suo carattere competitivo al punto da poter allegare uno specifico pregiudizio conseguente alla rottura o alla diminuzione di tale carattere per effetto di un'intesa vietata... siccome la violazione di interessi riconosciuti rilevanti dall'ordinamento giuridico integra, almeno potenzialmente, il danno ingiusto "ex" art. 2043 c.c., chi subisce danno da una contrattazione che non ammette alternative per l'effetto di una collusione "a monte", ha a propria disposizione... l'azione di accertamento della nullità dell'intesa e di risarcimento del danno di cui alla L. n. 287 del 1990, art. 33... la cui cognizione è rimessa... alla competenza esclusiva, in unico grado di merito, della corte d'appello";

questa Corte (cfr. Cass. 1/2/1999, n. 827) aveva già affermato che la L. n. 287 del 1990, art. 2, (la cosiddetta legge "antitrust"), "allorché dispone che siano nulle ad ogni effetto le "intese" fra imprese che abbiano ad oggetto o per effetto di impedire, restringere o falsare in modo consistente il gioco della concorrenza all'interno del mercato nazionale o in una sua parte rilevante, non ha inteso riferirsi solo alle "intese" in quanto contratti in senso tecnico ovvero negozi giuridici consistenti in manifestazioni di volontà' tendenti a realizzare una funzione specifica attraverso un particolare "voluto". Il legislatore - infatti - con la suddetta disposizione normativa ha inteso - in realtà ed in senso più ampio - proibire il fatto della distorsione della concorrenza, in quanto si renda conseguenza di un perseguito obiettivo di coordinare, verso un comune interesse, le attività economiche; il che può essere il frutto anche di comportamenti "non contrattuali" o "non negoziali". Si rendono - così - rilevanti qualsiasi condotta di mercato (anche realizzantesi in forme che escludono una caratterizzazione negoziale) purché con la consapevole partecipazione di almeno due imprese, nonché anche le fattispecie in cui il meccanismo di "intesa" rappresenti il risultato del ricorso a schemi giuridici meramente "unilaterali". Da ciò consegue che, allorché l'articolo in questione stabilisce la nullità delle "intese non abbia inteso dar rilevanza esclusivamente all'eventuale negozio giuridico originario postosi all'origine della successiva sequenza comportamentale, ma a tutta la più complessiva situazione - anche successiva al negozio originario - la quale - in quanto tale - realizzi un ostacolo al gioco della concorrenza";

pertanto, qualsiasi forma di distorsione della competizione di mercato, in qualunque forma essa venga posta in essere, costituisce comportamento rilevante ai fini dell'accertamento della violazione dell'art. 2 della legge antitrust;

ora, nel caso di specie, il ricorrente aveva invocato la nullità del tasso applicato nel contratto di leasing in quanto determinato per relationem, facendo riferimento al tasso Euribor fissato attraverso un accordo manipolativo della concorrenza da un certo numero di istituti bancari, come accertato dalla Commissione Antitrust Europea con decisione del 4/12/2013 (la quale aveva ravvisato l'avvenuta violazione dell'art. 101 Trattato CE nella parte in cui dispone che "Sono incompatibili con il mercato interno e vietati tutti gli accordi tra imprese, tutte le associazioni di imprese e tutte le pratiche concordate che possano pregiudicare il commercio tra stati membri e che abbiano per oggetto o per l'effetto di impedire, restringere o falsare il gioco della concorrenza ed in particolare quelli consistenti nel: a) fissare direttamente o indirettamente i prezzi d'acquisto o di vendita ovvero altre condizioni della transazione... Gli accordi o decisioni, vietati in virtù del presente articolo, sono nulli di pieno diritto";

detta decisione avrebbe dovuto considerarsi prova privilegiata (Cass. 31/08/2021, n. 23655; Cass. 05/07/2019, n. 18176; Cass. n. 13846 del 22/05/2019, n. 13846; Cass. 28/05/2014, n. 11904; Cass. 22/05/2013, n. 12551; Cass. 09/05/2012, n. 7039; Cass. 18/08/2011, n. 17362) a supporto della domanda volta alla declaratoria di nullità dei tassi "manipolati" ed alla rideterminazione degli interessi nel periodo coinvolto dalla manipolazione, a prescindere dal fatto che all'intesa illecita avesse o meno partecipato il Banco Bpm S.p.A., giacché raggiunta dal divieto di cui alla L. n. 287 del 1990, art. 2 è qualunque contratto o negozio a valle che costituisca applicazione delle intese illecite concluse a monte (Cass. 12/12/2017, n. 29810);

la Corte d'appello ha errato, dunque, nel ritenere genericamente enunciata la censura di violazione della normativa antitrust;

4) con il quarto motivo è denunciata la falsa applicazione degli artt. 112 e 183 c.p.c., per avere la Corte d'Appello ritenuto assorbito il motivo d'appello proposto avverso il capo della sentenza di primo grado che aveva rigettato per tardività le contestazioni sollevate in punto di corretta determinazione del corrispettivo richiesto; secondo parte ricorrente, il giudice a quo ha riconosciuto implicitamente la tempestività della contestazione ed ha errato interpretandone la portata, perché essa non riguardava l'indeterminatezza del credito in relazione all'incompletezza della documentazione fornita, ma atteneva all'inserimento, negli estratti conto prodotti dalla controparte, di voci aggiuntive rispetto al canone pattuito e predeterminato;

il motivo è inammissibile;

l'assunto della ricorrente è sguarnito di supporti di ogni genere: fa riferimento a voci aggiuntive negli estratti conto rispetto al canone convenzionalmente convenuto, ma non sono rispettate le prescrizioni di cui all'art. 366 c.p.c., comma 1, n. 6; ciò basta per condannare il motivo all'inammissibilità, risultando superfluo tanto accertare la tempestività o meno delle contestazioni e/o se la Corte territoriale ne avesse già decretato implicitamente la tempestività - essendovi stata una statuizione di assorbimento, in verità, ciò è da escludere - quanto verificare l'eventuale errore della Corte territoriale nella interpretazione del contenuto delle stesse;

5) con il quinto motivo è denunziata l'omessa pronunzia e quindi la violazione dell'art. 112 c.p.c.;

l'assunto della ricorrente è che la Corte d'Appello abbia omesso di pronunciarsi sul motivo con cui era stato lamentato che il Tribunale avesse dimenticato l'eccezione relativa alla mancata imputazione della somma di Euro 50.000,00 ricavata attraverso l'escussione del pegno al credito ingiunto;

il motivo non può accogliersi;

lo stesso ricorrente riferisce a p. 4, punto 3, del ricorso che la concedente costituitasi in giudizio aveva chiesto "il rigetto della domanda di ripetizione delle somme asseritamente incamerate incassate in esecuzione del pegno essendo dette somme state già accreditate alla controparte";

nonostante l'assenza di una statuizione espressa, deve dunque ritenersi che la Corte d'appello abbia implicitamente rigettato il motivo di appello;

6) con sesto motivo, rubricato "Violazione dell'art. 1945 c.c.. - Violazione e falsa applicazione degli artt. 112 e 183 c.p.c.", si ascrivono alla Corte d'Appello: la violazione dell'art. 1945 c.c., a mente del quale al fideiussore spettano le medesime eccezioni sulla sussistenza e consistenza del credito attribuite al debitore principale, compresa quella di compensazione legale; il travisamento del motivo di appello, con cui si voleva censurare il fatto che la Corte d'Appello avesse applicato l'art. 16 del contratto nonostante la domanda di pagamento dei canoni scaduti, "essendo venuta meno la causa corrispettiva per effetto della risoluzione, non trovasse titolo nella penale contrattuale della quale la parte attrice non si era avvalsa, avendo di contro l'attrice formulato una domanda di riconoscimento dell'equo compenso" (p. 34);

infatti - aggiunge parte ricorrente - la penale contrattuale deve essere espressamente azionata dalla parte e l'allegazione della sua esistenza non costituisce una mera difesa, soggetta al rilievo officioso del giudice, pertanto, avendo chiesto sia l'equo compenso sia il risarcimento del danno controparte aveva dato prova di non volersi avvalere della clausola penale, ma della previsione generale di legge che regola il risarcimento del danno e il diritto all'equo compenso;

quanto alla dedotta violazione dell'art. 1945 c.c., deve rilevarsi che certamente è incorsa in errore la Corte d'Appello quando ha ritenuto che il fideiussore non era legittimato a far valere neppure l'eccezione di compensazione; la statuizione va dunque corretta, perché la Corte d'Appello è incorsa nella violazione denunciata, attesto che "il carattere accessorio della obbligazione fideiussoria consente al fideiussore di opporre al creditore tutte le eccezioni che spettano al debitore principale, ma non comporta l'attribuzione di una legittimazione sostitutiva per proporre le azioni che competono a quest'ultimo nei confronti del creditore, neppure quando le stesse si riferiscano alla posizione debitoria per la quale è stata prestata la garanzia, ostandovi il principio generale sancito dall'art. 81 c.p.c., secondo cui, in mancanza di un valido titolo che consenta la sostituzione, legittimato ad agire in giudizio è solo il titolare dell'interesse leso" (Cass. 4/12/2018, n. 31653);

l'assunto cassatorio con cui si denuncia il travisamento del motivo di appello è viziato in iure, perché l'applicazione analogica dell'art. 1526 c.c., prevista dalla giurisprudenza di legittimità per disciplinare le conseguenze derivanti dalla risoluzione per inadempimento del contratto di leasing è lo strumento del quale il giudice si avvale per verificare la liceità della eventuale pattuizione delle parti e per ridurla anche d'ufficio al fine di ristabilire l'equilibrio del contratto; in sostanza, l'art. 1526 c.c., non si applica solo là dove le parti non abbiano pattuito le conseguenze dell'inadempimento, in ordine all'equo compenso e/o al risarcimento del danno, ma è un parametro che serve per garantire l'equilibrio contrattuale alterato dall'inadempimento (Cass. 22/03/2022, n. 9211; Cass., Sez. Un., 28/01/2021, n. 2061); "il meccanismo normativo previsto dall'art. 1526 c.c. è infatti destinato a operare in un quadro di rispetto del sinallagma contrattuale", tant'e' che non è data alle parti la facoltà di prevedere pattiziamente la sua non applicazione (Cass. 8/10/2019, n. 25031);

la decisione del Tribunale ha infatti ritenuto che la clausola n. 16 del contratto non violasse il divieto di ingiustificati arricchimenti che costituisce la ratio sottesa dall'art. 1526 c.c., realizzando un equilibrato contemperamento degli interessi in conflitto; ha aggiunto che "il richiamo all'art. 1526 c.c., perde, quindi, rilievo a fronte di una regolazione pattizia conforme ai principi dell'ordinamento";

il che esclude che la Corte d'Appello sia incorsa nel vizio di cui all'art. 112 c.p.c.; va, infatti, precisato che l'interpretazione e la qualificazione delle domande e delle eccezioni è un'attività riservata al giudice di merito e che un errore del giudice in tal senso integra gli estremi della violazione del principio di corrispondenza tra chiesto e pronunciato solo quando si traduca nell'attribuzione di un bene della vita diverso da quello richiesto dalla parte; tanto non è avvenuto nel caso di specie;

considerato che la statuizione di rigetto della Corte d'Appello si è articolata in due rationes decidendi - l'una di rito e l'altra di merito - autonome l'una dall'altra, e ciascuna, di per sé sola, idonea a supportare il relativo dictum, per poterne ottenere la cassazione parte ricorrente avrebbe dovuto formulare uno spettro di censure tale da investire, e da investire utilmente, entrambi gli ordini di ragione cennati, posto che la mancata critica di uno di questi e/o la relativa attitudine a resistere agli appunti comporterebbero che la decisione dovrebbe essere tenuta ferma sulla base del profilo della sua ratio non, o mal, censurato e priver ebbero il gravame dell'idoneità al raggiungimento del suo obiettivo funzionale, rappresentato dalla rimozione della pronuncia contestata (Cass. 19/05/2021, n. 13595);

7) con il settimo motivo è dedotta la violazione del principio di corrispondenza tra chiesto e pronunziato, in quanto la Corte d'Appello non si è espressa sul motivo di gravame con cui era stato dedotto il mancato esercizio del potere di riduzione della penale da parte del Tribunale;

anche senza considerare che non è chiaro se alla Corte d'Appello si imputi il travisamento del motivo di appello o l'omessa pronunzia, è preliminare ed assorbente rilevare che il giudice a quo ha confermato la statuizione del primo giudice nella parte in cui ha ritenuto l'accordo tra le parti rispettoso della ratio sottesa dall'art. 1526 c.c., perché tale da non consentire alla società concedente di ottenere un arricchimento ingiustificato; ciò esclude cha la Corte d'Appello abbia omesso di pronunciarsi sul motivo di appello;

8) la Corte, accogliendo per quanto di ragione il terzo motivo di ricorso, cassa in relazione la sentenza impugnata e rinvia alla Corte d'Appello di Milano, che in diversa in diversa composizione procederà a nuovo esame, e provvederà anche in ordine alle spese del giudizio di cassazione.

P.Q.M.

La Corte accoglie per quanto di ragione il terzo motivo di ricorso, inammissibili o rigettati gi altri nei termini di cui in motivazione. Cassa in relazione la sentenza impugnata e rinvia alla Corte d'Appello di Milano, in diversa composizione, anche per le spese del giudizio di cassazione.

Così deciso in Roma, nella Camera di Consiglio dalla Terza Sezione civile della Corte di Cassazione, il 12 ottobre 2023.

Depositato in Cancelleria il 13 dicembre 2023.

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