Corte di Cassazione, sez. III Civile, Ordinanza n.7357 del 15/03/2019

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LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TERZA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. SPIRITO Angelo – Presidente –

Dott. DI FLORIO Antonella – Consigliere –

Dott. PELLECCHIA Antonella – Consigliere –

Dott. PORRECA Paola – Consigliere –

Dott. GIAIME GUIZZI Stefano – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 9556-2016 proposto da:

F.P., A.M., elettivamente domiciliati in ROMA, VIA FLAMINIA 441, presso lo studio dell’avvocato MARIA SOFIA TONOLO, rappresentati e difesi dall’avvocato GABRIELE MELANI giusta procura in calce al ricorso;

– ricorrenti –

contro

SAN GIOVANNI DEL DOTT B.M. & C SOCIETA’ DI INTERMEDIAZIONE MOBILIARE SPA IN LCA, in persona del Commissario Liquidatore, Avv. VITTORIO D. GESMUNDO, elettivamente domiciliata in ROMA, VIA DEGLI SCIPIONI 281, presso lo studio dell’avvocato GIULIO BERTACCHI, rappresentata e difesa dagli avvocati ALBERTO BIGLIARDI, NICOLA PABIS TICCI giusta procura in calce al controricorso;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 23/2016 della CORTE D’APPELLO di FIRENZE, depositata il 08/01/2016;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del 12/06/2018 dal Consigliere Dott. STEFANO GIAIME GUIZZI;

FATTI DI CAUSA

1. A.M. e F.P.P. ricorrono, sulla base di tre motivi, per la cassazione della sentenza n. 23/16 dell’8 gennaio 2016, della Corte di Appello di Firenze, che – rigettando il gravame dagli stessi esperito contro la sentenza n. 3777/09 del 13 dicembre 2009 del Tribunale di Firenze – ha confermato l’inefficacia ex art. 2901 c.c., nei confronti della società San Giovanni del Dott. B.M. & C. Società di Intermediazione Mobiliare S.p.a., in liquidazione coatta amministrativa (d’ora in poi, “SIM San Giovanni”), dell’atto di costituzione del fondo patrimoniale posto in essere dagli odierni ricorrenti in data 19 gennaio 2001.

2. Riferiscono, in punto di fatto, gli odierni ricorrenti di essere stati convenuti in giudizio, innanzi al Tribunale fiorentino, dalla SIM San Giovanni, sul presupposto che il suddetto atto dispositivo fosse stato realizzato per vanificare le pretese creditorie derivanti da azione di responsabilità professionale dalla stessa società esercitata nei confronti dell’ A., quale suo ex sindaco, in separato giudizio, nel corso del quale era stato richiesto (e concesso) sequestro conservativo ai danni dei già componenti il collegio sindacale.

Costituitisi i convenuti nel giudizio ex art. 2901 c.c., gli stessi eccepivano non esservi alcun accertamento dell’esistenza del credito della SIM e, inoltre, che, al momento della costituzione del fondo patrimoniale, non sussisteva alcun elemento dal quale l’ A. avrebbe potuto desumere l’insorgenza di una propria responsabilità. In ogni caso, poi, a dire degli allora convenuti, il supposto credito risarcitorio (ove eventualmente accertato come dovuto) sarebbe stato da ritenere adeguatamente garantito da polizze assicurative, fideiussioni bancarie e beni sequestrati per valore di molto superiore alla pretesa creditoria posta a fondamento della proposta azione revocatoria.

Accolta la domanda dal giudice di prime cure, esperito gravame dai convenuti soccombenti, nel corso del giudizio di appello veniva prodotta sentenza resa dal medesimo Tribunale fiorentino all’esito del giudizio di responsabilità professionale dell’ A., nonchè copia dell’appello proposto dalla SIM San Giovanni avverso tale decisione.

Anche la Corte di Appello toscana – come detto – confermava la sussistenza dei presupposti per l’esercizio della cd. “actio pauliana”, accogliendola.

3. Avverso tale sentenza hanno proposto ricorso per cassazione l’ A. e la F.P., sulla base di tre motivi.

3.1. Con il primo motivo si deduce “violazione e/o falsa interpretazione delle norme di diritto (anche) con riferimento agli artt. 2697 e 2901 c.c.”, oltre che degli “artt. 2727 c.c. e segg.” e dell’art. 112 c.p.c..

3.1.1. Si censura, in particolare, la sentenza impugnata laddove ha riconosciuto la posteriorità dell’atto dispositivo, oggetto dell’azione revocatoria, rispetto al sorgere della pretesa creditoria; circostanza ritenuta “dirimente” dai ricorrenti, giacchè solo in questo caso la consapevolezza del pregiudizio arrecato può assumere – stante la gratuità dell’atto – il connotato di un mero dolo generico, la cui prova può essere raggiunta a mezzo di presunzioni.

Ciò premesso, la sentenza del giudice di prime cure, secondo i ricorrenti, avrebbe circoscritto la “consapevolezza” dell’ A. “ante atto revocando” – di essere “soggetto ad un’azione di responsabilità da parte della SIM” esclusivamente in relazione ad un episodio “di grave infedeltà patrimoniale verificatosi tra gli ultimi mesi del 1999 e i primi mesi del 2000”, avente come protagonista un promotore finanziario (tale F., successivamente radiato, in forza di provvedimento adottato dalla CONSOB), il cui operato non sarebbe stato oggetto di adeguato controllo da parte dei componenti il collegio sindacale.

Delimitato, pertanto, il profilo di responsabilità dell’ A. a questo singolo episodio, le circostanze ulteriori, valorizzate dal secondo giudice per corroborare la tesi della posteriorità dell’atto dispositivo rispetto al sorgere del credito, deporrebbero all’opposto secondo i ricorrenti – per la tesi difensiva da essi svolta. Difatti, il giudice di appello avrebbe, per un verso, considerato una serie di ispezioni della CONSOB e della Banca d’Italia, espletate anteriormente alla vicenda F., ma tradottesi nell’irrogazione di sanzioni di modesta entità (ed oltretutto per violazioni estranee a quelle oggetto dell’azione di responsabilità verso il sindaco A.) e, come tali, irrilevanti. Per altro verso, poi, la Corte territoriale avrebbe dato anche rilievo alle illecite appropriazioni di un ulteriore dipendente infedele della SIM (tale P.), fatto venuto alla luce solo nel 2002 e nel quale identificare la vera causa della situazione che condusse, poi, al dissesto della società; episodio, pertanto, successivo alla costituzione del fondo patrimoniale. Il tutto, peraltro, senza tacere della circostanza che la SIM San Giovanni si era autonomamente munita di un “controller” interno ed era, ovviamente, soggetta a revisione contabile esterna (da parte addirittura di due società), di talchè – anche in ragione del fatto che il profilo di responsabilità imputato ai sindaci non consiste in una loro complicità nell’attività criminosa dei promotori, bensì nell’averla agevolata, omettendo un’attività di efficace controllo – “poco consequenziale” risulterebbe la decisione della Corte fiorentina di individuare il presupposto del credito risarcitorio verso l’ A. nel mancato rilievo di fatti che erano sfuggiti anche al “controller” interno ed alle due società di revisione e, persino, alle autorità (Banca d’Italia e CONSOB) istituzionalmente preposte al controllo delle SIM. Esse, infatti, pur monitorando da tempo la San Giovanni, intervennero – su richiesta della stessa – solo quando la SIM, nell’ottobre 2002, rilevò l’ammanco conseguente al “caso P.”.

3.1.2. D’altra parte, la decisione del giudice di appello si presenterebbe erronea pure nell’aver ritenuto “irrilevante” la circostanza – emergente da nota integrativa al bilancio di esercizio della società dell’anno 2001 (e, dunque, in epoca nuovamente successiva alla costituzione del fondo patrimoniale) – che la perdita di esercizio, conseguente alla transazione conclusa dagli amministratori della SIM con gli investitori truffati dal F., fosse stata “azzerata mediante utilizzo della riserva legale e statutaria e versamento soci a copertura integrale del residuo”. Si contesta, sul punto, la motivazione della Corte fiorentina, secondo cui “il danno complessivo subito dalla SIM (…) nulla ha a che vedere con il minore importo delle perdite di bilancio al 31.12.1999 e al 31.12.2000”, avendo il giudice di appello ritenuto, appunto, “irrilevante” il fatto che queste minori perdite di bilancio “fossero state “ricoperte” mediante “appositi versamenti nelle casse sociali da parte dei soci” nonchè mediante l’utilizzo di riserve sociale”, ed, infine, con “l’utilizzo di utili non distribuiti e portati a nuovo”. Secondo il giudice di appello, siffatte condotte dei soci e della società “sono state riferite dagli stessi appellanti in termini assolutamente generici ed aspecifici circa la qualificazione giuridica da attribuire”, sol che si pensi che “un versamento da parte dei soci può essere un finanziamento, come tale implicante un obbligo restitutorio.

Tuttavia, l’erroneità di tale affermazioni, secondo i ricorrenti, discenderebbe dal duplice rilievo che “la denominazione con cui sono stati annotati gli apporti finanziari dei soci non è di per sè sufficiente a qualificare il conferimento”, così come “i versamenti in conto capitale (od analoga altra dizione) hanno una causa diversa da quella del mutuo”, giacchè “assimilabile sostanzialmente a quella del capitale di rischio”; pertanto, contrariamente a quanto ritenuto dalla sentenza impugnata, siffatti versamenti “non danno luogo a crediti esigibili nel corso della vita sociale e possono essere richiesti in restituzione dai soci solo per effetto dello scioglimento della società e nei limiti dell’eventuale residuo attivo del bilancio di liquidazione”.

Di conseguenza, la Corte fiorentina – anche in ragione del fatto che, nel caso della SIM San Giovanni, “non vi è stato alcun residuo attivo” al momento della liquidazione, ed inoltre che “gli apporti finanziari dei soci per il ripianamento delle perdite per cd. “caso F.” non sono stati richiesti dai conferenti nè, tampoco, restituiti dalla società o dagli Organi della Procedura” fallimentare – avrebbe dovuto attribuire rilievo a tali versamenti, in quanto risulterebbero aver “contribuito ad evitare l’erosione del capitale sociale” o, quantomeno, “a ridurre il danno” subito dalla società.

3.1.3. Sulla base, dunque, di tali rilievi i ricorrenti reputano che il giudice di appello abbia fatto malgoverno delle regole in tema di presunzioni, dovendosi escludere – sulla scorta delle circostanze testè delineate – che l’ A. fosse consapevole, già alla fine del 1999 (e dunque anteriormente al compimento dell’atto dispositivo), dell’insorgenza della pretesa creditoria della SIM, in relazione ad una sua responsabilità professionale. Circostanza, come detto, dirimente, perchè l’indagine sull’elemento soggettivo, richiesto ai fini dell’accoglimento dell’azione ex art. 2901 c.c., possa limitarsi come ritenuto dalla sentenza impugnata – alla verifica di un mero “dolo generico” e non, invece, “specifico”, come sarebbe stato, invece, necessario, secondo quanto prospettato dall’ A. e dalla F.- P..

3.2. Con il secondo motivo si deduce – ai sensi, congiuntamente, dell’art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3) e 5) (quantunque tali norme processali non siano espressamente richiamate) – “omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che ha formato oggetto di discussione tra le parti”, nonchè “violazione e/o falsa interpretazione delle norme di diritto con riferimento (anche) all’art. 2735 c.c.”.

Si censura la sentenza impugnata per non avere “speso una riga” sulla missiva della Banca d’Italia (sulla quale, invece, i ricorrenti “lungamente si erano soffermati” nella “proprie comparse conclusionali e memorie di replica”) che – in risposta a tre lettere inviate dal commissario liquidatore della SIM il 15 aprile, il 19 maggio e il 18 giugno 2003 – dava atto della volontà della procedura di non esercitare l’azione di responsabilità verso l’amministratore della società, “in considerazione del fatto che questi aveva presentato le proprie dimissioni nel giugno 2000 prima che si verificassero le gravissime irregolarità che hanno condotto alla crisi irreversibile della SIM”.

Tale documentazione, il cui esame sarebbe stato omesso dalla Corte fiorentina, attesterebbe l’esistenza di una confessione stragiudiziale, resa ad un terzo, circa il fatto che solo le irregolarità verificatesi dopo il giugno 2000 (mentre il cd. “caso F.”, all’origine della pretesa creditoria verso l’ A., risale agli ultimi mesi del 1999 ed ai primi mesi dell’anno 2000) fossero suscettibili di assumere rilievo ai finì della responsabilità dei soggetti che, a vario titolo, risultavano impegnati professionalmente nella SIM.

Di qui, dunque, l’ipotizzata violazione dell’art. 2735 c.c..

D’altra parte, la Corte fiorentina sarebbe incorsa pure in un’ulteriore omissione, non avendo preso in considerazione che nel giudizio di responsabilità a carico dell’ A. risultano presenti “polizze assicurative per oltre Euro 3.500.000,00, fideiussione bancaria per Euro 500.000,00 e beni sequestrati per Euro 2.000.000,00”, di talchè non sussisterebbe pericolo alcuno – alla cui neutralizzazione è diretta l’azione revocatoria – che un’eventuale azione esecutiva verso l’ A. possa rivelarsi infruttuosa.

3.3. Infine, con il terzo motivo si deduce – di nuovo, ai sensi, congiuntamente, dell’art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3) e 5) (norme anche in questo caso, peraltro, non menzionate) “omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che ha formato oggetto di discussione tra le parti”, nonchè “violazione e/o falsa interpretazione delle norme di diritto con riferimento all’art. 2901 c.c.”.

Si censura la sentenza impugnata per non avere statuito alcunchè in relazione alla circostanza che il giudizio di responsabilità professionale a carico dell’ A., pendente innanzi al Tribunale di Firenze, si è concluso con sentenza n. 2472/13 che ha dichiarato estinto lo stesso.

Orbene, se è vero che il credito a tutela del quale è esperibile l’azione revocatoria – osservano i ricorrenti – non deve essere necessariamente certo, liquido ed esigibile, è pur sempre necessario che lo stesso “possa valutarsi come probabile”.

Siffatta evenienza, tuttavia, sarebbe da escludere nel caso di specie, in ragione dell’intervenuta declaratoria di estinzione del giudizio sulla responsabilità professionale dell’ A.. A sostegno dell’assunto i ricorrenti richiamano un recente arresto di questa Corte (Cass. Sez. 3, sent. 10 febbraio 2016, n. 6273) che – nel ribadire come la pendenza del giudizio di accertamento del credito non imponga la sospensione, ex art. 295 c.p.c., di quello revocatorio – ha dato rilievo alla circostanza che, con sentenza di secondo grado, fosse stata accertata l’esistenza del credito, ovvero l’esatto contrario di quanto accaduto nel caso di specie.

D’altra parte, irrilevante sarebbe la circostanza che con sentenza pronunciata da questa Corte in sede penale (Cass. Sez. 5 Pen., sent. del 3 marzo 2015, n. 9266) l’ A. sia stato riconosciuto definitivamente responsabile dei reati di cui al R.D. 16 marzo 1942, n. 267, artt. 216 e 223, con annullamento – e conseguente rinvio al giudice di merito – della statuizione che escludeva il suo obbligo di risarcire alla SIM San Giovanni il danno non patrimoniale. Per un verso, infatti, la statuizione relativa agli effetti civili della sentenza penale di condanna non implica ancora riconoscimento del credito risarcitorio della SIM, essendosi questa Corte limitata, con la citata sentenza, solo ad enunciare il principio di diritto della risarcibilità del danno non patrimoniale cagionato ad una persona giuridica (rimettendone il concreto accertamento, nel caso di specie, al giudice di merito). Per altro verso, poi, la circostanza “de qua” sarebbe, comunque, irrilevante, atteso che il presente giudizio ex art. 2901 c.c. ha come presupposto il credito risarcitorio azionato nel giudizio già pendente innanzi al Tribunale fiorentino e concluso dalla citata sentenza n. 2472/13.

4. Ha resistito all’impugnazione, con controricorso, la società SIM San Giovanni, chiedendo che la stessa sia dichiarata inammissibile o infondata.

In punto di fatto, essa precisa alcune circostanze, ed in particolare come la CONSOB avesse evidenziato – con nota del 28 luglio 2000 – che “le disfunzioni rilevate in sede di controllo interno ed emerse in occasione della vicenda F.” erano state, in sostanza, accertate “già in sede ispettiva nel corso della verifica effettuata dalla scrivente Commissione nel 1996-1997”.

Evidenzia, inoltre, che il diritto di essa SIM San Giovanni al risarcimento (quantomeno) del danno non patrimoniale cagionatogli dall’ A., risulta ormai – all’esito della summenzionata sentenza penale di questa Corte – definitivamente riconosciuto, essendosi il giudizio di rinvio concluso con sentenza n. 4383/15 del 13 gennaio 2015 della Corte di Appello di Firenze, tanto che l’odierna controricorrente ha radicato innanzi al Tribunale della stessa città il giudizio volto ad ottenerne la quantificazione.

In relazione, poi, ai singoli motivi, si deduce – innanzitutto l’inammissibilità del primo, in quanto teso ad una non consentita rivalutazione dei fatti di causa. In ogni caso, tuttavia, se ne assume anche l’infondatezza, avendo la sentenza impugnata adeguatamente argomentato – in special modo attraverso la valorizzazione della già citata nota CONSOB del 28 luglio 2000 e delle deposizioni testimoniali, rese in sede penale, dall’Ispettore della Banca d’Italia, M. – le ragioni della sussistenza dei presupposti oggettivi e soggettivi dell’azione revocatoria, attraverso la valutazione di una molteplicità di elementi indiziari (ai quali l’odierna controricorrente non manca di aggiungere la circostanza che, al momento della costituzione del fondo patrimoniale, i figli dell’ A. avevano già trenta, ventisei e ventitrè anni, donde l’assenza di una convincente ragione per costituirlo).

Quanto al secondo motivo, ancor prima che l’infondatezza se ne deduce l’inammissibilità, atteso che esso tenderebbe a mettere in discussione l’esistenza del credito risarcitorio a garanzia del quale l’esperita “actio pauliana” era diretta (e, dunque, un tema, semmai, da porre nel giudizio di responsabilità dell’ A.), mentre la Corte di Appello era chiamata ad accertarne, esclusivamente, la “litigiosità”. Di qui, dunque, la sua decisione di non entrare nel merito dell’apprezzamento della missiva della Banca d’Italia. In ogni caso, poi, la ricorrente avrebbe omesso di segnalare come detta missiva fosse proprio quella che ha autorizzato l’esercizio dell’azione di responsabilità nei confronti dell’ A..

Infine, quanto al terzo motivo, se ne deduce l’inammissibilità ai sensi dell’art. 360-bis c.p.c., comma 1, n. 1), essendosi la sentenza impugnata uniformata ad un consolidato orientamento che esclude la necessità della sospensione – ex art. 295 c.p.c. qualora sia “sub iudice” la questione relativa all’esistenza del credito a garanzia del quale l’azione revocatoria sia proposta; evenienza, questa, tuttora sussistente, essendo stato proposto gravame avverso la citata sentenza n. 2472/13 del Tribunale fiorentino che ha dichiarato estinto il giudizio di responsabilità professionale nei confronti dell’ A..

5. Hanno presentato memoria entrambe le parti, insistendo nelle proprie argomentazioni e replicando a quelle avversarie.

RAGIONI DELLA DECISIONE

6. Il ricorso va rigettato.

6.1. Il primo motivo – che si articola, in realtà, in due diverse censure (entrambe proposte ai sensi, congiuntamente, dell’art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3 e 5) – risulta in parte non fondato e in parte inammissibile.

Difatti, una prima censura è quella che investe l’apprezzamento relativo all’anteriorità del credito risarcitorio – o meglio, del suo fatto generatore – rispetto al compimento dell’atto dispositivo (costituzione di fondo patrimoniale, risalente al 19 gennaio 2001) oggetto dell’azione revocatoria; circostanza, questa, dalla quale si pretende di far discendere un’erronea applicazione della prova, presuntiva, circa il presupposto soggettivo dell’azione revocatoria, anche in relazione alla consapevolezza dell’ A. di dover rispondere verso la SIM San Giovanni del proprio operato.

L’assunto è che la Corte territoriale abbia individuato il fatto generatore della responsabilità dell’ A. (e quindi del credito risarcitorio della SIM, della quale egli era sindaco) in una “grave infedeltà patrimoniale verificatosi tra gli ultimi mesi del 1999 e i primi mesi del 2000” da parte di un promotore finanziario, infedeltà che il collegio sindacale avrebbe omesso di rilevare (come, peraltro, pure il “controller” cui la società si era affidata, e con esso le società preposte alla revisione dei conti), mentre, in realtà, il dissesto della società, secondo i ricorrenti, sarebbe da attribuire a fatti – e quindi a condotte omissive dei sindaci – di molto successive a quell’epoca e, quindi, al compimento dell’atto dispositivo.

Una seconda censura, invece, è quella che investe il mancato apprezzamento di condotte che – in relazione proprio al profilo di responsabilità ipotizzato in capo all’ A. – avrebbero (almeno in parte) eliso il pregiudizio subito dalla SIM, tanto da escludere il cd. “eventus damni”.

6.1.1. Orbene, nell’esaminare la prima censura, si deve muovere dalla constatazione che “il requisito dell’anteriorità del credito rispetto all’atto dispositivo del debitore va riscontrato in riferimento al momento di insorgenza” dello stesso (cfr., da ultimo, Cass. Sez. 3, sent. 18 agosto 2011, n. 17356, Rv. 619126-01).

Si tratta, tuttavia, di accertamento “in fatto”, compiuto alla stregua delle risultanze istruttorie del giudizio di merito, e come tale non sindacabile in sede di legittimità, quantunque dallo stesso derivino conseguenze in diritto in punto di prova dei presupposti soggettivi della cd. “actio pauliana”, nel senso che – come ribadito ancora di recente da questa Corte – in caso “di fondo patrimoniale costituito successivamente all’assunzione del debito, è sufficiente, ai fini della cd. “scientia damni”, la semplice consapevolezza del debitore di arrecare pregiudizio agli interessi del creditore, ovvero la previsione di un mero danno potenziale, rimanendo, invece, irrilevanti tanto l’intenzione del debitore di ledere la garanzia patrimoniale generica del creditore, quanto la relativa conoscenza o partecipazione da parte del terzo” (cfr. Cass. Sez. 3, sent. 30 giugno 2015, n. 13343, Rv. 635807-01).

6.1.1.1. Ciò esclude, dunque, l’ammissibilità della censura, almeno come formulata – in riferimento all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3), – “sub specie” di violazione e/o falsa applicazione degli artt. 2697,2727 e 2901 c.c..

Trova, infatti, applicazione il principio secondo cui “il vizio di violazione di legge consiste nella deduzione di un’erronea ricognizione, da parte del provvedimento impugnato, della fattispecie astratta recata da una norma di legge e implica necessariamente un problema interpretativo della stessa; l’allegazione di un’erronea ricognizione della fattispecie concreta a mezzo delle risultanze di causa” – che è quanto si lamenta nel caso di specie – “è, invece, esterna all’esatta interpretazione della norma e inerisce alla tipica valutazione del giudice di merito, sottratta al sindacato di legittimità” (da ultimo, Cass. Sez. 1, ord. 13 ottobre 2017, n. 24155, Rv. 645538-03).

D’altra parte, per quanto attiene specificamente alla dedotta violazione degli artt. 2697 e 2727 c.c., deve aggiuntivamente rilevarsi quanto segue.

Va, infatti, per un verso ribadito che la “violazione del precetto di cui all’art. 2697 c.c., censurabile per cassazione ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3), è configurabile soltanto nell’ipotesi in cui il giudice abbia attribuito l’onere della prova ad una parte diversa da quella che ne era onerata secondo le regole di scomposizione delle fattispecie basate sulla differenza tra fatti costitutivi ed eccezioni” (così, da ultimo, Cass. Sez. 3, ord. 29 maggio 2018, n. 13395, Rv. 649038-01); evenienza, quella appena indicata, che non risulta lamentata nel caso di specie.

Per altro verso, invece, occorre evidenziare che – come ancora di recente confermato da questa Corte – “qualora il giudice di merito sussuma erroneamente sotto i tre caratteri individuatori della presunzione (gravità, precisione e concordanza) fatti concreti che non sono invece rispondenti a quei requisiti, il relativo ragionamento è censurabile in base all’art. 360 c.p.c., n. 3, (e non già alla stregua del n. 5 dello stesso art. 360), competendo alla Corte di cassazione, nell’esercizio della funzione di nomofilachia, controllare se la norma dell’art. 2729 c.c., oltre ad essere applicata esattamente a livello di proclamazione astratta, lo sia stata anche sotto il profilo dell’applicazione a fattispecie concrete che effettivamente risultino ascrivibili alla fattispecie astratta” (Cass. Sez. 3, sent. 4 agosto 2017, n. 19485, Rv. 645496-02; in senso sostanzialmente analogo pure Cass. Sez. 6-5, ord. 5 maggio 2017, n. 10973, Rv. 643968-01; nonchè Cass. Sez. 3, sent. 26 giugno 2008, n. 17535, Rv. 603893-01 e Cass. Sez. 3, sent. 19 agosto 2007, n. 17457, non massimata sul punto).

Nondimeno, sebbene astrattamente ammissibile, la censura “de qua”, in concreto, non si rivela tale.

Sul punto va, infatti, rammentato che in relazione ai caratteri della gravità, precisione e concordanza, che debbono connotare le presunzioni, questa Corte ha chiarito quanto segue. In particolare, si è ritenuto che “la gravità allude ad un concetto logico, generale o speciale (cioè rispondente a principi di logica in genere oppure a principi di una qualche logica particolare, per esempio di natura scientifica o propria di una qualche “lex artis”)”, esprimendo nient’altro che “la presunzione si deve fondare su un ragionamento probabilistico, per cui, dato un fatto A noto è probabile che si sia verificato il fatto B”, non essendo, invece, “condivisibile invece l’idea che vorrebbe sotteso alla gravità che l’inferenza presuntiva sia “certa”” (così Cass. sez. 3, sent. 19485 del 2017, cit.). Difatti, “per la configurazione di una presunzione giuridicamente valida non occorre che l’esistenza del fatto ignoto rappresenti l’unica conseguenza possibile di quello noto secondo un legame di necessarietà assoluta ed esclusiva (sulla scorta della regola della inferenza necessaria), ma è sufficiente che dal fatto noto sia desumibile univocamente quello ignoto, alla stregua di un giudizio di probabilità basato sull'”id quod plerumque accidit” (in virtù della regola dell’inferenza probabilistica), sicchè il giudice può trarre il suo libero convincimento dall’apprezzamento discrezionale degli elementi indiziari prescelti, purchè dotati dei requisiti legali della gravita, precisione e concordanza”, dovendosi solo escludere “che possa attribuirsi valore probatorio ad una presunzione fondata su dati meramente ipotetici” (Cass. Sez. 3, sent. n. 17457 del 2007, cit.).

Quanto, invece, alla precisione, essa “esprime l’idea che l’inferenza probabilistica conduca alla conoscenza del fatto ignoto con un grado di probabilità che si indirizzi solo verso” di esso, mentre “non lasci spazio, sempre al livello della probabilità, ad un indirizzarsi in senso diverso, cioè anche verso un altro o altri fatti”; infine, la concordanza individua un “requisito del ragionamento presuntivo, che non lo concerne in modo assoluto, cioè di per sè considerato, come invece gli altri due elementi, bensì in modo relativo, cioè nel quadro della possibile sussistenza di altri elementi probatori, volendo esprimere l’idea che, intanto la presunzione è ammissibile, in quanto indirizzi alla conoscenza del fatto in modo concordante con altri elementi probatori, che, peraltro, possono essere o meno anche altri ragionamenti presuntivi” (così, nuovamente, Cass. sez. 3, sent. 19485 del 2017, cit.).

La censura di violazione dell’art. 2727 c.c., non risulta, però, posta in questi termini, donde la sua inammissibilità.

6.1.1.2. Come sopra osservato, tuttavia, la doglianza che investe l’apprezzamento compiuto dalla Corte fiorentina relativo all’anteriorità del credito risarcitorio rispetto all’atto di costituzione del fondo patrimoniale, ed ai suoi riflessi ai fini della prova del presupposto soggettivo dell’azione revocatoria, è prospettata anche ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5).

Al riguardo, tuttavia, è sufficiente osservare che, intesa tale censura come omesso “esame di un fatto” (la supposta posteriorità dell’atto dispositivo, rispetto all’insorgere del credito risarcitorio), l’esito del suo scrutinio oscilla, nuovamente, tra infondatezza e inammissibilità. Infondatezza, perchè quel “fatto” è stato sicuramente esaminato (ed escluso); inammissibilità perchè, ove la censura sia da intendere come riferita non a quel fatto “principale” nella sua interezza, bensì ad una serie di fatti secondari – relativi soprattutto alla duplice circostanza che le autorità (Banca d’Italia e CONSOB) istituzionalmente preposte al controllo delle SIM, pur monitorando da tempo la San Giovanni, intervennero solo nell’ottobre 2002, nulla rilevando neppure il “controller” interno alla SIM e le due società di revisione contabile – dalla cui esistenza risalire alla prova di esso, l’esito dell’inammissibilità discende dell’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 6), e art. 369 c.p.c., comma 2, n. 4).

Invero, i ricorrenti non si sarebbero dovuti limitare, come hanno fatto, a dedurre l’omesso esame di tali fatti e la loro (supposta) “decisività”, ma anche – ciò che non risulta, invece, avvenuto – il “dato”, testuale o extratestuale, da cui essi risultino esistenti, e, soprattutto il “come” e il “quando” i medesimi siano stati oggetto di discussione processuale (cfr., Cass. Sez. Un., sent. 7 aprile 2014, n. 8054, Rv. 629831-01; in senso conforme, tra le più recenti, Cass. Sez. 3, sent. 11 aprile 2017, n. 9253, Rv. 643845-01; Cass. Sez. 6-3, ord. 10 agosto 2017, n. 19987, Rv. 645359-01).

Nè, infine, il riferimento all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5), può utilmente intendersi – come il ricorso parrebbe alludere, nel censurare il carattere “poco consequenziale” della motivazione della Corte fiorentina – come deduzione di un vizio motivazionale della sentenza impugnata.

Sul punto, infatti, è sufficiente osservare che dopo la “novellazione” del testo dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5), (operata dal D.L. 22 giugno 2012, n. 83, art. 54, comma 1, lett. b, convertito con modificazioni dalla L. 7 agosto 2012, 134, norma applicabile “ratione temporis” al presente giudizio), lo scrutinio di questa Corte non può tradursi in un scrutinio sulla “sufficienza” dell’apparato motivazionale che sorregge la sentenza impugnata, stante l’avvenuta riduzione al “minimo costituzionale” del sindacato di legittimità sulla motivazione (cfr. Cass. Sez. Un., sent. 7 aprile 2014, n. 8053, Rv. 629830-01, nonchè – ex multis – Cass. Sez. 3, ord. 20 novembre 2015, n. 23828, Rv. 637781-01; Cass. Sez. 3, sent. 5 luglio 2017, n. 16502, Rv. 637781-01; Cass. Sez. 3, sent. 12 ottobre 2017, n. 23940, Rv. 645828-01).

In particolare, è stato chiarito che il difetto di motivazione è ormai configurabile solo quando la parte motiva della sentenza “benchè graficamente esistente, non renda, tuttavia, percepibile il fondamento della decisione, perchè recante argomentazioni obbiettivamente inidonee a far conoscere il ragionamento seguito dal giudice per la formazione del proprio convincimento, non potendosi lasciare all’interprete il compito di integrarla con le più varie, ipotetiche congetture” (Cass. Sez. Un., sent. 3 novembre 2016, n. 22232, Rv. 641526-01).

Siffatta evenienza va esclusa, però, nel caso di specie, visto che la Corte fiorentina – nel ricostruire, anche sul piano cronologico, il comportamento dell’ A. fonte di responsabilità dello stesso verso la SIM – ha fatto riferimento ad una sua inerzia “ad implementare idonei controlli su “condotte illecite del promotore F.”, poste in essere da costui “dall’agosto 1999 al febbraio 2000”, sottolineando come “tale omissione” fosse “particolarmente grave”, essendo state già rilevate dalla CONSOB (come dalla medesima attestato con comunicazione del 28 luglio 2000, e dunque anteriore, essa stessa, all’atto di costituzione del fondo patrimoniale), “nel corso di verifiche effettuate” già “nel 1996-1997”. D’altra parte, la Corte fiorentina ha pure ritenuto di valorizzare – a conferma di una motivazione tutt’altro che “apparente”, nel senso dianzi chiarito – la deposizione resa, nel giudizio penale celebrato a carico, tra gli altri, dello stesso A., dall’ispettore della Banca d’Italia M.. Costui, in particolare, ha riferito come già “dal 1997” vi fossero state “numerose sollecitazioni da parte degli organi di controllo agli amministratori e ai sindaci”, i quali, nondimeno, “tutti mostrarono scarsa consapevolezza del rischio conseguente all’attività dei promotori”.

Il ragionamento, dunque, in base al quale la Corte fiorentina è giunta a ritenere tanto l’anteriorità del credito risarcitorio rispetto all’atto dispositivo oggetto della cd. “actio pauliana”, quanto la consapevolezza che, al momento della sua realizzazione, l’ A. avesse in ordine alla possibilità per la SIM San Giovanni di far valere quel credito (“id est”, in ordine alla possibilità di evocarne la responsabilità per comportamenti omissivi connessi al suo ruolo di sindaco della società) è ben lungi dal poter essere ritenuto “obiettivamente perplesso” o “irriducibilmente contraddittorio”.

Nè, d’altra, parte ad una diversa conclusione potrebbe condurre la circostanza relativa ad – eventuali – omissioni imputabili al “controller” interno o alle due società di revisione, giacchè essa potrebbe valere, al massimo, a configurare ulteriori (ed autonomi) profili di responsabilità a carico di terzi, non certo ad escludere quella dei sindaci (peraltro, ormai accertata definitivamente, nella sua consistenza delittuosa, per effetto di sentenza penale di condanna confermata da questa stessa Corte).

6.1.2. Ciò posto quanto al primo profilo di censura (enucleabile dal primo motivo di ricorso), in relazione, invece, al secondo, ne va affermata “tout court” l’inammissibilità.

Difatti, in relazione alla circostanza che la perdita di esercizio, conseguente alla transazione conclusa dagli amministratori della SIM con gli investitori truffati dal F., fosse stata “azzerata mediante utilizzo della riserva legale e statutaria e versamento soci a copertura integrale del residuo”, la Corte fiorentina ha ritenuto che tali condotte dei soci e della società fossero state “riferite dagli appellanti in termini assolutamente generici ed aspecifi circa la qualificazione giuridica” da attribuirgli, così formulando una “ratio decidendi” di inammissibilità del motivo che non è stata adeguatamente censurata in questa sede (e dunque passata in giudicato, con effetto preclusivo della riproposizione della questione).

In ogni caso, poi, trattandosi di condotte non certo idonee a “neutralizzare” il credito risarcitorio della SIM verso l’ A. (ovvero, ad estinguerlo, ciò che potrebbe porre, in ipotesi, una questione di sopravvenuto difetto di interesse a proseguire l’azione revocatoria, rilevabile anche in sede di legittimità; Cass. Sez. 2, sent. 4 novembre 2004, n. 21100, Rv. 577948-01), non si vede quale rilevanza essa assuma nel presente giudizio, donde l’inammissibilità della censura anche sotto questo profilo.

6.1.3. Infine, per concludere sul primo motivo di ricorso, va notato che esso evoca pure la violazione dell’art. 112 c.p.c., senza, tuttavia, meglio chiarire in cosa essa si sarebbe sostanziata, risolvendosi, così in un “non motivo”, del quale va dichiarata l’inammissibilità ai sensi dell’art. 366 c.p.c., n. 4), (cfr. Cass. Sez. 3, sent. 31 agosto 2015, n. 17330, Rv. 636872-01).

6.2. Il secondo motivo di ricorso è inammissibile.

6.2.1. A tale esito conducono i seguenti rilievi.

Innanzitutto, la constatazione che, nella parte in cui esso si risolve nella denuncia di un’omissione di pronuncia su motivo di appello, la sua inammissibilità – peraltro, già postulabile in base al rilievo che non è dedotta la nullità della pronuncia ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4), (Cass. Sez. 6-3, ord. 16 marzo 2017, n. 6835, Rv. 643679-01) – discende dal principio secondo cui è “inammissibile, per violazione del criterio dell’autosufficienza, il ricorso per cassazione col quale si lamenti la mancata pronuncia del giudice di appello su uno o più motivi di gravame, se essi non siano compiutamente riportati nella loro integralità nel ricorso, sì da consentire alla Corte di verificare che le questioni sottoposte non siano “nuove” e di valutare la fondatezza dei motivi stessi senza dover procedere all’esame dei fascicoli di ufficio o di parte” (Cass. Sez. 2, sent. 20 agosto 2015, n. 17049, Rv. 636133-01).

In ogni caso, poi, il presente motivo – anche riguardato come “omesso esame di un fatto” (la pretesa confessione stragiudiziale resa ad un terzo), ovvero come violazione dell’art. 2735 c.c. – deve egualmente considerarsi inammissibile, ai sensi dell’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 6), e art. 369 c.p.c., comma 2, n. 4).

Quanto al primo profilo, infatti, deve rilevarsi come i ricorrenti non abbiano documentato il “come” e il “quando” la presunta confessione sia stata oggetto di discussione processuale (vale, sul punto, la giurisprudenza già citata, ovvero Cass. Sez. Un., sent. 7 aprile 2014, n. 8054, Rv. 629831-01; in senso conforme, tra le più recenti, Cass. Sez. 3, sent. 11 aprile 2017, n. 9253, Rv. 643845-01; Cass. Sez. 6-3, ord. 10 agosto 2017, n. 19987, Rv. 645359-01), ma soprattutto – ciò che vale anche per la censura di violazione di legge – non hanno riprodotto in ricorso (nè allegato allo stesso) i documenti contenenti la pretesa “confessione”, dando esclusivamente conto, e peraltro solo mediante riproduzione parziale della stessa, della “risposta” della Banca d’Italia.

Si trattava, per contro, di adempimento imposto, innanzitutto, sempre dalle norme processuali sopra menzionate, se è vero che “il ricorrente per cassazione, il quale intenda dolersi dell’omessa od erronea valutazione di un documento da parte del giudice di merito, ha il duplice onere – imposto dall’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 6), – di produrlo agli atti (indicando esattamente nel ricorso in quale fase processuale ed in quale fascicolo di parte si trovi il documento in questione) e di indicarne il contenuto (trascrivendolo o riassumendolo nel ricorso); la violazione anche di uno soltanto di tali oneri rende il ricorso inammissibile” (cfr. Cass. Sez. 6-3, sent. 28 settembre 2016, n. 19048, Rv. 642130-01).

Tale adempimento, inoltre, era reso vieppiù necessario dalla stessa disciplina della confessione, ed in particolare del principio secondo cui “la confessione giudiziale o stragiudiziale richiede una esplicita dichiarazione della parte o del suo rappresentante in ordine alla verità di fatti ad essa sfavorevoli o favorevoli all’altra parte, e, pur potendo desumersi da un comportamento o da fatti concludenti, non può consistere in una dichiarazione solo implicitamente o indirettamente ammissiva dei fatti in discussione, che è utilizzabile quale elemento meramente presuntivo od indiziario” (cfr. Cass. Sez. 2, sent. 6 giugno 2006, n. 13212, Rv. 589812-01).

6.3. Il terzo motivo, infine, non è fondato.

6.3.1. La perdurante pendenza del giudizio di appello, nel quale la SIM Sangiovanni ha impugnato la declaratoria di estinzione del giudizio sul credito risarcitorio vantato dalla stessa verso l’ A. (ed a garanzia del quale è stata dichiarata l’inefficacia dell’atto dispositivo oggetto del presente giudizio), comporta che debba ritenersi persistente l’interesse dell’odierna controricorrente in relazione all’azione espletata a norma dell’art. 2901 c.c., giacchè tale norma “ha accolto una nozione lata di credito, comprensiva della ragione o aspettativa, con conseguente irrilevanza dei normali requisiti di certezza, liquidità ed esigibilità, sicchè anche il credito eventuale, nella veste di credito litigioso, è idoneo a determinare sia che si tratti di un credito di fonte contrattuale oggetto di contestazione in separato giudizio sia che si tratti di credito risarcitorio da fatto illecito – l’insorgere della qualità di creditore che abilita all’esperimento dell’azione revocatoria ordinaria avverso l’atto di disposizione compiuto dal debitore” (da ultimo, Cass. Sez. 3, sent. 22 marzo 2016, n. 5619, Rv. 639291-01).

7. Le spese seguono la soccombenza, essendo pertanto poste a carico dei ricorrenti e liquidate come da dispositivo.

8. I ricorrenti vanno, inoltre, condannati “ex officio” a pagare alla controricorrente, ai sensi dell’art. 96 c.p.c., comma 3, la somma ulteriore di Euro 15.000,00.

8.1. Va premesso, invero, che lo scopo di tale norma è quello di sanzionare una condotta “oggettivamente valutabile alla stregua di “abuso del processo”” (tra le più recenti, “ex multis”, Cass. Sez. 3, sent. 30 marzo 2018, n. 7901, Rv. 648311-01; Cass. Sez. 2, sent. 21 novembre 2017, n. 27623, Rv. 646080-01), e, dunque, nel giudizio di legittimità, di uso indebito dello strumento impugnatorio.

Siffatta evenienza è stata ravvisata in casi di vera e propria “giuridica insostenibilità” del ricorso (Cass. Sez. 3, sent. 14 ottobre 2016, n. 20732, Rv. 642925-01), “non essendo sufficiente la mera infondatezza, anche manifesta, delle tesi prospettate” con lo stesso (così, Cass. Sez. Un., sent. 20 aprile 2018, n. 9912, Rv. 648130-02), ovvero in presenza di altre condotte processuali – al pari indicative dello “sviamento del sistema giurisdizionale dai suoi fini istituzionali” – suscettibili, come tali, di determinare “un ingiustificato aumento del contenzioso”, così ostacolando “la ragionevole durata dei processi pendenti e il corretto impiego delle risorse necessarie per il buon andamento della giurisdizione”. Tra di esse, in particolare, questa Corte ha dato rilievo, esemplificativamente, alla “proposizione di un ricorso per cassazione basato su motivi manifestamente incoerenti con il contenuto della sentenza impugnata o completamente privo di autosufficienza oppure contenente una mera complessiva richiesta di rivalutazione nel merito della controversia o, ancora, fondato sulla deduzione del vizio di cui all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5), ove sia applicabile, “ratione temporis”, l’art. 348-ter c.p.c., comma 5, che ne esclude l’invocabilità” (Cass. Sez. 3, ord. 30 aprile 2018, n. 10327, Rv. 648432-01).

Orbene, nel caso in esame, i ricorrenti hanno operato attraverso ripetute forzature dei motivi di ricorso contemplati dall’art. 360 c.p.c. (come attestato dalle reiterate declaratorie di inammissibilità in cui sono incorsi), realizzando una “torsione” degli stessi, nel malcelato tentativo di introdurre un non consentito riesame del merito della vicenda.

Tanto giustifica, pertanto, la comminatoria della condanna ai sensi dell’art. 96 c.p.c., comma 3, in una misura che si reputa equo fissare, per le ragioni testè indicate, in Euro 15.000,00.

9. A carico dei ricorrenti, infine, sussiste l’obbligo di versare l’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater.

PQM

La Corte rigetta il ricorso e condanna A.M. e F.P.P. a rifondere alla società San Giovanni del Dott. B.M. & C. Società di Intermediazione Mobiliare S.p.a., in liquidazione coatta amministrativa, le spese del presente giudizio, che liquida in Euro 10.200,00, più Euro 200,00 per esborsi, oltre spese forfetarie nella misura del 15% ed accessori di legge.

Ai sensi dell’art. 96 c.p.c., comma 3, condanna A.M. e F.P.P. a pagare alla società San Giovanni del Dott. B.M. & C. Società di Intermediazione Mobiliare S.p.a., in liquidazione coatta amministrativa, la somma di Euro 15.000,00.

Ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater, nel testo introdotto dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17, la Corte dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte dei ricorrenti, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello dovuto per il ricorso, a norma del comma 1-bis dello stesso art. 13.

Così deciso in Roma, all’esito di adunanza camerale della Sezione Terza Civile della Corte di Cassazione, il 12 giugno 2018.

Depositato in Cancelleria il 15 marzo 2019

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