Corte di Cassazione, sez. III Civile, Ordinanza n.14246 del 08/07/2020

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LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TERZA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. ARMANO Uliana – Presidente –

Dott. SESTINI Danilo – Consigliere –

Dott. OLIVIERI Stefano – Consigliere –

Dott. POSITANO Gabriele – Consigliere –

Dott. GORGONI Marilena – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 21997/2018 proposto da:

S.G., domiciliato ex lege in ROMA, presso la CANCELLERIA DELLA CORTE DI CASSAZIONE, rappresentato e difeso dagli avvocati GIANNICOLA SCARCIOLLA, SONIA LUCIANI;

– ricorrente –

contro

AZIENDA UNITA’ SANITARIA LOCALE DI TERAMO, in persona del suo legale rappresentante pro tempore, domiciliata ex lege in ROMA, presso la CANCELLERIA DELLA CORTE DI CASSAZIONE, rappresentata e difesa dall’avvocato FRANCESCO M. DANESI DE LUCA;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 91/2018 della CORTE D’APPELLO di L’AQUILA, depositata il 18/01/2018;

udita la relazione della causa svolta nella Camera di consiglio del 12/02/2020 dal Consigliere Dott. MARILENA GORGONI.

FATTI DI CAUSA

S.G. ricorre per la cassazione della sentenza n. 91/2018 della Corte d’Appello di L’Aquila, pubblicata il 18 gennaio 2028 (non notificata), articolando due motivi.

Resiste con controricorso l’Azienda Unità Sanitaria Locale di Teramo.

Il ricorrente espone in fatto di avere convenuto in giudizio dinanzi al Tribunale di Teramo, Sezione distaccata di Giulianova, la AUSL di Teramo per sentirla condannare al risarcimento dei gravi danni patiti e patiendi a seguito dell’intervento chirurgico di aponevrectomia palmare alla mano destra, eseguito presso l’Ospedale civile *****, in data *****, per il trattamento del morbo di Dupuytren precedentemente diagnosticatogli: intervento che non solo non correggeva la deformità a carico delle dita esterne della mano, ma ne cagionava un vistoso peggioramento ed una compromissione pressochè totale della funzionalità ed una sintomatologia dolorosa intensa, entrambe riconducibili ad una incompleta asportazione della aponEurosi palmare e ad una fibromatosi derivante da cattiva gestione del decorso postoperatorio.

La AUSL convenuta deduceva l’infondatezza della domanda attorea nell’an e nel quantum.

Il Tribunale adito, con sentenza n. 134/2012, ritenuta pienamente raggiunta la prova del nesso causale tra la inesatta esecuzione dell’intervento e l’insorgenza della malattia, accoglieva parzialmente la domanda attorea e condannava la convenuta al pagamento di Euro 84.415,20 per i danni non patrimoniali (tale somma veniva determinata tenendo conto dell’invalidità permanente del 20%, liquidata ricorrendo alle tabelle di Milano ed assumendo il valore del punto base di invalidità di Euro 4.089,35, aumentato del 30%, attesa la particolare afflittività delle lesioni, dell’invalidità temporanea totale, quantificata in Euro 6.000,00, e dell’invalidità temporanea parziale, pari ad Euro 1.800,00), di Euro 40.788,75 (liquidati tenendo conto dell’accertata incidenza delle lesioni permanenti nella misura del 50%, sulla capacità di produrre reddito della vittima che svolgeva l’attività di operaio specializzato idraulico, dell’età, della scolarizzazione, detratta la somma già corrisposta a titolo di provvisionale di Euro 30.000,00, e tenuto conto della rivalutazione per il periodo compreso tra la data di versamento della provvisionale e quella del sinistro), 211,19 e 315,00 (per le due visite medico-legali), a titolo di danno patrimoniale, con rivalutazione ed interessi secondo i criteri stabiliti in sentenza, oltre alle spese legali e a quelle di CTU.

La sentenza veniva impugnata dinanzi alla Corte d’Appello di L’Aquila dall’odierno ricorrente che lamentava, quanto alla liquidazione del danno non patrimoniale, che non gli fossero stati riconosciuti il danno morale, il danno esistenziale, il danno estetico, cioè le varie voci confluenti nel danno non patrimoniale, e, quanto al danno patrimoniale, insisteva affinchè si tenesse conto che non aveva svolto dopo l’intervento alcuna attività e che non poteva più svolgerne una confacente alle sue capacità e si doleva della mancata liquidazione del danno pensionistico, cioè della riduzione del trattamento pensionistico quale conseguenza della minore anzianità contributiva e assicurativa, stimato, avuto riguardo per lo scarto tra vita fisica e vita lavorativa e per la presumibile perdita reddituale e contributiva, in Euro 150.000,00.

L’AUSL di Teramo chiedeva il rigetto dell’appello e proponeva, a sua volta, appello incidentale.

Con la sentenza qui impugnata, la Corte d’Appello rigettava l’appello principale e quello incidentale e compensava le spese di lite.

In particolare, il giudice a quo riteneva che la liquidazione del danno biologico fosse avvenuta sulla base delle tabelle del Tribunale di Milano che già tenevano conto, in ossequio alla pronuncia a Sezioni Unite n. 26972 dell’11/11/2008, del danno morale, da intendersi in termini di dolore e di turbamento interiore, nella determinazione del punto base di invalidità e che il Tribunale avesse già provveduto alla personalizzazione del danno biologico standard, incrementando il valore del punto di invalidità nella misura massima prevista per tener conto della specificità del caso concreto; rigettava la domanda relativa al danno pensionistico, in assenza di prova circa quale fosse la posizione contributiva e previdenziale della vittima, e quella avente ad oggetto il danno patrimoniale per l’impossibilità di svolgere attività lavorativa, non solo per difetto di prova, ma anche per la mancata contestazione delle conclusioni della CTU, su cui si era basata la decisione del giudice di prime cure, che avevano riscontrato una riduzione della capacità lavorativa non totale, ma pari al 50%. Anche la richiesta di riconoscimento del danno da perdita di chance veniva rigettata, perchè non sorretta da deduzioni specifiche, atteso che le stesse si reggevano su una circostanza, quella della assoluta incapacità lavorativa a svolgere qualsiasi lavoro, contrastante con le esultanze processuali, e non supportata dalla specifica indicazione di quali danni, diversi ed ulteriori rispetto a quelli già liquidati, sarebbero spettati alla vittima e per quali motivi.

RAGIONI DELLA DECISIONE

1. Con il primo motivo il ricorrente deduce la “violazione e falsa applicazione di legge, ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, artt. 2059 e 1126 c.c., artt. 2 e 31 Cost.”.

La tesi prospettata è che la Corte d’Appello, come già il Tribunale, abbiano ritenuto erroneamente sufficiente la liquidazione di tutte le voci areddittuali di danno alla persona secondo le tabelle di Milano, con la personalizzazione nella misura del 30%, la massima consentita, tralasciando di prendere in considerazione altre voci di danno, quello morale, quello esistenziale e quello estetico, benchè la loro ricorrenza fosse stata provata attraverso le prove testimoniali e la CTU.

1.1. Il motivo, ad avviso di questo Collegio, è infondato.

La giurisprudenza di questa Corte, ed in particolare di questa Sezione, anche di recente, ha precisato quali sono gli ambiti del compito liquidatorio del giudice in caso di danno non patrimoniale, specificando che la considerazione separata delle componenti del pur sempre unitario concetto di danno non patrimoniale in tanto è ammessa in quanto sia evidente la diversità del bene o interesse oggetto della lesione.

In particolare, se è vero che le cosiddette sentenze di San Martino – Cass. 11/11/2008, nn. 26972, 26973, 26974, 26975 – hanno imposto la liquidazione unitaria del danno non patrimoniale, ritenendolo una “categoria generale non suscettiva di suddivisione in sottocategorie variamente etichettate”, potendo, però, a seconda della fattispecie o del tipo di interesse leso, assumere contenuto diverso con funzione descrittiva delle conseguenze negative verificatesi, la giurisprudenza successiva ha ulteriormente specificato che il danno non patrimoniale è categoria unitaria dal punto di vista giuridico, ma non lo è dal punto di vista fenomenologico (Cass. 17/01/2018, n. 901; Cass. 27/03/2018, n. 7513).

Di conseguenza, il fatto che la liquidazione debba essere unitaria (nel senso chiarito da Cass. 17/01/2018, n. 901) non è lo schermo dietro cui celare liquidazioni astratte e non trasparenti e men che mai può tradursi in una arbitraria ed immotivata contrazione del risarcimento. Ad impedire tale ultima eventualità, che è quella lamentata nel caso di specie, vi è il fatto che oltre che unitario il danno non patrimoniale deve essere omnicomprensivo, cioè deve garantire che la vittima ottenga l’integrale risarcimento del danno, venendo compensata di tutte le conseguenze pregiudizievoli cagionate dall’illecito. In aggiunta, ove ricorra il danno biologico deve escludersi che esso esaurisca il danno non patrimoniale alla persona (Cass. 21/09/2017, n. 21939; Cass. 07/11/2014, n. 23778). Solo una logica deformante di panbiologizzazione che, per di più, fraintende il significato della omnicocomprensività, potrebbe indurre a credere che il danno biologico abbia carattere assorbente ed esclusivo di ogni altra voce di danno alla persona (Cass. 17/01/2018, n. 901 sottolinea che tale tesi è stata sconfessata, al massimo livello interpretativo, da Corte Cost. 16/10/2014, n. 235 e dalla recente riforma del 2016 – cd. legge di stabilità- che, nel modificare la stessa rubrica degli artt. 138 e 139 del C.d.A., ha esplicitamente riconosciuto l’autonomia del danno morale rispetto a quello dinamico-relazionale: in argomento, funditus, Cass. 27/03/2018, n. 7513, cit.).

Il perimetro di valutazione del danno è contenuto tra il divieto di automatismi risarcitori e il divieto di duplicazioni, all’interno si collocano l’integrale riparazione del danno e la esigenza di garantirne la personalizzazione; con quest’ultima si perfeziona il percorso liquidativo, il quale deve garantire e coniugare l’uniformità di base, cioè assicurare che vittime della stessa età e con la stessa percentuale di invalidità permanente ottengano lo stesso risarcimento, con la valorizzazione del vissuto individuale in vista della realizzazione di una eguaglianza che sia anche sostanziale. In concreto ciò significa che ove le proiezioni negative patite non divergano da quelle subite da altre vittime della stessa età e con lo stesso grado di invalidità permanente la vittima non avrà diritto al riconoscimento di un quid pluris rispetto a quanto liquidato ricorrendo al metodo del punto di invalidità.

La richiesta risarcitoria di poste ulteriori andrà presa in considerazione, pertanto, ove siano soddisfatte due condizioni: 1) la posta pretesa non sia stata già riconosciuta; 2) vi sia la prova della ricorrenza di una situazione che giustifichi la liquidazione di un quid pluris, cioè occorre che la vittima alleghi situazioni circostanziate, non bastando enunciazioni generiche, astratte od ipotetiche, e che dimostri – può avvalersi, a tal fine, di ogni mezzo di prova, anche del fatto notorio, delle massime di esperienza e della logica inferenziale – la ricorrenza di conseguenze peculiari del caso concreto che abbiano reso il pregiudizio sofferto diverso e maggiore rispetto ai casi consimili (Cass. 13/12/2019, n. 32787; Cass. 11/11/2019, n. 28989; Cass. 11/11/2019, n. 28988; Cass. 27/03/2018, n. 7513).

Orbene, nel caso di specie, assume carattere assorbente il fatto che alla vittima sia stato riconosciuto, proprio in ragione della ritenuta esigenza di personalizzazione del danno, cioè di adeguamento della liquidazione in considerazione delle circostanze particolari che avevano reso le conseguenze derivanti dalla lesione più gravi rispetto a quello standard, un aumento percentuale del 30% del valore del punto base di invalidità (Cass. 29/05/2019, n. 14746).

Perciò, la richiesta di liquidazione anche del danno morale, del danno esistenziale e del danno estetico non può essere presa in considerazione.

In particolare, quanto al danno morale, che il ricorrente ha chiesto venisse liquidato in ragione della metà di quanto riconosciutogli a titolo di danno biologico, mette conto rilevare che: a) ove il giudice, come nel caso di specie, si avvalga del punto variabile di invalidità permanente, il quale cristallizza le conseguenze dannose normali e prevedibili, secondo l’id quod plerumque accidit, rispetto a due parametri dati, l’età della vittima e la percentuale dei postumi permanenti, compendiato nelle tabelle milanesi, si dovrà tener conto del fatto che tali tabelle, dopo le sentenze di San Martino, cioè a far data dal 2009, hanno provveduto a determinare il punto di invalidità permanente sintetizzandovi la liquidazione del danno biologico e di quello provocato dal dolore e dalla sofferenza soggettiva: ciò significa che il giudice che determini l’entità del danno servendosi delle tabelle milanesi mostra di aver già tenuto conto, sia pur implicitamente tanto del danno biologico quanto del danno morale, in considerazione degli importi in concreto liquidati (ex multis cfr. Cass. 27/04/2018, n. 10156); b) nel caso di specie non risulta neppure che il danneggiato abbia invocato il c.d. danno dinamico relazionale che si è guadagnato, a seguito della pronuncia della Corte costituzionale n. 235 del 2014, punto 10.1 e ss., di quella della Corte di Giustizia nella causa C-371/2012 del 23/01/2014 e della nuova formulazione dell’art. 138 del Codice delle Assicurazioni private, alla lettera e, introdotta dalla legge di stabilità del 2016, autonomia sotto il profilo fenomenologico rispetto al danno morale tout court – il primo destinato ad incidere in senso peggiorativo su tutte le relazioni di vita esterne del soggetto, il secondo confinato all’aspetto interiore del danno sofferto sub specie del dolore, della vergogna, della disistima di sè, della paura, della disperazione – nè, al di là dell’etichetta nominalistica utilizzata, che si sia fatto carico del relativo specifico onere probatorio (Cass. 29/03/2019, n. 8755; Cass. 11/11/2019, n. 28998, cit.).

Quando al danno esistenziale, la sua liquidazione, essendo stato già riconosciuto e liquidato il danno biologico, inteso, secondo la stessa definizione legislativa, come danno che esplica incidenza sulla vita quotidiana del soggetto e sulle sue attività dinamico relazionali, costituirebbe una inammissibile duplicazione risarcitoria (Cass. 29/03/2019, n. 8755).

Per finire, in ordine al danno estetico, questa Corte regolatrice intende ribadire che i postumi di carattere estetico possono ricevere un eventuale trattamento risarcitorio autonomo sotto l’aspetto strettamente patrimoniale a favore di chi a causa della lesione estetica abbia subito una ripercussione negativa su un’attività lavorativa già svolta o su un’attività futura, precludendola o rendendola di più difficile conseguimento, in relazione all’età, al sesso del danneggiato ed ad ogni altra utile circostanza particolare; in ogni altro caso, il danno estetico non può mai essere considerato una voce di danno a sè, aggiuntiva ed ulteriore rispetto al danno biologico.

2. Con il secondo motivo il ricorrente censura la sentenza gravata per “violazione e falsa applicazione di legge, ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, artt. 1223,1126,2043 e 2056 c.c., art. 2 Cost.”.

La Corte d’Appello avrebbe ritenuto erroneamente passata in giudicato, per non essere stata censurata, la percentuale di incapacità lavorativa accertata dal CTU, senza tener conto che, proprio partendo dalle risultanze della CTU, era stata formulata la richiesta di risarcimento del danno in termini di perdita di chance e di danno pensionistico.

In aggiunta, il giudice a quo non avrebbe opportunamente tenuto conto del fatto che egli non aveva riportato la riduzione della capacità di svolgere una mansione determinata, ma quella di svolgere un qualsiasi lavoro confacente alle capacità e professionalità maturate come operaio specializzato idraulico.

Essendo un soggetto destrimane in possesso della licenza di scuola media inferiore, la accertata limitazione della funzione di pinza, della presa a piatto e di quella ad uncino oltre alla perdita di forza della mano destra gli avrebbero impedito di svolgere qualsiasi lavoro manuale, sia di fatica che di precisione, perciò la Corte territoriale avrebbe dovuto tener conto che fino all’età pensionabile, 65 anni, aveva subito un danno patrimoniale futuro, in termini di perdita di chance, quale entità giuridicamente ed economicamente valutabile, la cui perdita produce un danno non già futuro, ma certo ed attuale in proiezione futura.

Inoltre, l’azzeramento del reddito gli aveva provocato anche una minore anzianità assicurativa e contributiva con inevitabile perdita e/o riduzione della pensione che avrebbe potuto percepire, una volta raggiunta l’età.

2.1. In primo luogo, va rilevato che la sentenza gravata, in ordine al danno patrimoniale, contiene due statuizioni: a) la prima riguarda la richiesta di liquidazione del danno pensionistico, con riferimento alla quale la Corte d’Appello rileva, oltre alla assenza di prova della posizione contributiva e previdenziale anteriore all’intervento chirurgico e dell’impossibilità di svolgere alcuna attività lavorativa, la mancata contestazione delle risultanze della CTU che avevano individuato una riduzione della capacità lavorativa del 50% in un soggetto con una invalidità permanente del 20% – la sentenza precisa che le argomentazioni portate soprattutto in sede di memorie e conclusionali e di repliche non erano state sufficienti non tanto e non solo perchè i detti mezzi di difesa non possono essere utilizzati per ampliare il contenuto dell’atto di appello, ma anche perchè, non essendo stata contestata, con l’atto di impugnazione la percentuale di invalidità lavorativa con accertata in primo grado essa doveva ritenersi passata in giudicato -; b) la seconda è relativa al dedotto mancato riconoscimento della perdita di chance.

2.2. La prima statuizione non è stata adeguatamente censurata dal ricorrente, il quale si è limitato a denunciare “la non corretta applicazione, rectius falsa applicazione, della normativa in materia di risarcimento del danno patrimoniale” (P. 19 del ricorso) e ad insistere (p. 21) con la pretesa di avere, contrariamente a quanto rilevato dalla Corte d’Appello, provato, pure per testi, il totale azzeramento del reddito e quale sua conseguenza naturale la minore anzianità contributiva ed assicurativa, in aggiunta alla denuncia a carico del giudice a quo di non avere provveduto alla liquidazione equitativa del danno richiesto.

In particolare, la censura risulta inammissibile: a) perchè non si confronta con la ratio decidendi della sentenza impugnata, confutando il passaggio in giudicato della percentuale di incapacità lavorativa riconosciuta dal giudice di prime cure e l’inidoneità ed insufficienza delle argomentazioni contenute nelle memorie conclusionali e nelle repliche; b) perchè il vizio di violazione di legge consiste in un’erronea ricognizione da parte del provvedimento impugnato della fattispecie astratta recata da una norma di legge implicando necessariamente un problema interpretativo della stessa; viceversa, l’allegazione di un’erronea ricognizione della fattispecie concreta, mediante le risultanze di causa, inerisce alla tipica valutazione del giudice di merito la cui censura è possibile, in sede di legittimità, solo attraverso il vizio di motivazione (Cass. 30/12/2015, n. 26110); c) perchè pretende una inammissibile rivalutazione del compendio probatorio con esito confacente ai propri desiderata; d) perchè erra nell’invocare la liquidazione equitativa del danno in ipotesi, come quella in esame, in cui la domanda risarcitoria è stata rigettata non per la difficoltà di quantificare il danno, bensì per la manca prova della sua ricorrenza. Costituisce, infatti, ius receptum che la valutazione equitativa del danno – ai sensi dell’art. 1226 c.c., espressione del più generale potere di cui all’art. 115 c.p.c. – non può sopperire a un difetto di prova circa la ricorrenza del danno, ma soccorre sussidiariamente ove, provato il danno, sia difficile o impossibile quantificarlo (ex multis cfr. Cass. 13/11/2019, n. 29330).

2.3. Buona parte dell’apparato argomentativo del ricorrente fa leva sulla autonomia del danno da perdita di chance rispetto al danno da riduzione della capacità lavorativa specifica (su cui cfr. Cass. n. 28988/2019, cit.) che troverebbe riscontro nella giurisprudenza di questa Corte, in particolare nelle sentenze n. 12211 del 12/06/2015 e nella n. 27367 del 12/02/2015.

Anche sotto tale profilo il motivo non può essere accolto.

Il danno da perdita di chance, dalla giurisprudenza di questa Corte, è stato riconosciuto in questi termini: “il danneggiato ha diritto a vedersi risarciti non solo i danni patrimoniali subiti in ragione della derivata incapacità di continuare ad esercitare l’attività lavorativa prestata all’epoca del verificarsi del medesimo (danni da incapacità lavorativa specifica) ma anche i danni gli eventuali danni patrimoniali ulteriori, derivanti dalla perdita o dalla riduzione della capacità lavorativa generica, allorquando il grado di invalidità, affettante il danneggiato non consenta al medesimo la possibilità di attendere (anche) ad altri lavori, confacenti alle attitudini e condizioni personali ed ambientali dell’infortunato, idonei alla produzione di fonti di reddito”.

In generale sulla chance patrimoniale, questa Corte è tornata di recente, (Cass. 11/11/2019, n. 28993), allo scopo di precisare che essa postula la preesistenza di un quid favorevole nella sfera del danneggiato su cui il comportamento illecito altrui abbia inciso sfavorevolmente.

Non vi sono dubbi circa il fatto che esso si traduca in un aspetto del danno da lucro cessante (Cass. 13/7/2011, n. 15385) quale entità patrimoniale giuridicamente ed economicamente valutabile, la cui perdita produce un danno risarcibile da considerarsi certo ed attuale in proiezione futura, rappresentato dalla perdita di un’occasione favorevole di prestare altro e diverso lavoro confacente alle attitudini e condizioni personali ed ambientali del danneggiato idoneo alla produzione di fonte di reddito (Cass. 12/2/2015, n. 2737; Cass. 17/4/2008, n. 10111).

Ora, che si tratti di un danno diverso ed autonomo rispetto a quello derivante dalla lesione della capacità lavorativa specifica è stato più volte riconosciuto da questa Corte regolatrice (cfr. di recente Cass. 04/07/2019, n. 19931), ma non è affatto messo in discussione dalla Corte d’Appello che infatti rigetta la domanda del danneggiato “anche” sotto il profilo della perdita di chance, non per aver ritenuto che esso costituisse una duplicazione del danno biologico o del danno da incapacità lavorativa specifica, come lascia intendere il ragionamento del richiedente, ma per l’assenza di prova dell’incapacità di svolgere alcuna attività lavorativa, il cui onere probatorio gravava sul danneggiato (Cass. 13/7/2011, n. 15385; Cass. 11/5/2010, n. 11353; Cass. 19/2/2009, n. 4052; Cass. 30/1/2003, n. 1443).

Il ricorrente pretende di superare tale statuizione sottoponendo a questa Corte gli stralci della deposizione testimoniale di D.E.E., volta a dimostrare i suoi problemi economici, e alcuni passaggi della CTU che, comunque, erano serviti al perito per determinare la perdita, nella misura del 50%, della sua capacità lavorativa specifica, ed invocando un inammissibile loro rivalutazione, contrastante con i limiti morfologici e funzionali del giudizio di legittimità che non è un terzo giudizio di merito, nel quale ridiscutere il contenuto di fatti e di vicende del processo e dei convincimenti del giudice maturati in relazione ad essi – evidentemente non graditi – al fine di ottenere la sostituzione di questi ultimi con altri più collimanti con propri desiderata, rendendo, in ultima analisi, fungibile la ricostruzione dei fatti e le valutazioni di merito con il sindacato di legittimità avente ad oggetto i provvedimenti di merito.

Peraltro, la invalidità permanente nella misura del 20% rappresenta, secondo la giurisprudenza di questa Corte, un caso limite (così Cass. 4/07/2019, n. 19931) che non consente di ritenere altamente probabile se non addirittura certa la ricorrenza della perdita di chance. Perciò, il ricorrente non poteva considerarsi esonerato dall’onere di provare in via diretta la ricorrenza del danno in oggetto (si veda Cass. 22/05/2018, n. 12572 che in un caso analogo a quello per cui è causa, in cui la vittima aveva subito una invalidità permanente del 20%, ma non aveva provato di avere riportato una perdita irreparabile della sua capacità di svolgere un’attività confacente alle sua attitudine e condizione personale aveva rigettato la richiesta, limitandosi ad appesantire il valore del punto di invalidità permanente per tener conto della cenestesi lavorativa).

3. In definitiva, il ricorso deve essere rigettato.

4. Le spese del presente giudizio di cassazione – liquidate nella misura indicata in dispositivo – seguono la soccombenza, dandosi atto della sussistenza dei presupposti processuali di cui al D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, introdotto dalla L. n. 228 del 2012, art. 1, comma 17.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso e condanna la parte ricorrente al pagamento delle spese in favore della controricorrente, liquidandole in Euro 4.000,00 per compensi, oltre alle spese forfettarie nella misura del 15 per cento, agli esborsi liquidati in Euro 200,00 ed agli accessori di legge.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Sezione Terza Civile della Corte Suprema di Cassazione, il 12 febbraio 2020.

Depositato in Cancelleria il 8 luglio 2020

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