LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE PRIMA CIVILE
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. DE CHIARA Carlo – Presidente –
Dott. SCOTTI Umberto Luigi Cesare Giuseppe – Consigliere –
Dott. TRICOMI Laura – Consigliere –
Dott. IOFRIDA Giulia – Consigliere –
Dott. FALABELLA Massimo – rel. Consigliere –
ha pronunciato la seguente:
SENTENZA
sul ricorso 10037/2018 proposto da:
Banca Monte Paschi Siena Spa, in persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in Roma, Via Barnaba Tortolini 30, presso lo studio dell’avvocato Placidi Alfredo, rappresentata e difesa dall’avvocato Avino Giuseppe, giusta procura in calce al ricorso;
– ricorrente –
contro
Emmeti Auto Srl, in Liquidazione, M Immobiliare Srl, M.G., Me.Gi., M.M., elettivamente domiciliati in Roma, Corso Trieste 87, presso lo studio dell’avvocato Antonucci Arturo, che li rappresenta e difende unitamente agli avvocati Vassalle Roberto, Virgili Francesca, giusta procura in atti;
– controricorrenti incidentali –
avverso la sentenza n. 199/2018 della CORTE D’APPELLO di BRESCIA, depositata il 07/03/2018;
udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 07/01/2020 da Dott. FALABELLA MASSIMO;
udito il P.M., in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. CAPASSO Lucio, che ha concluso per il rigetto di entrambi i ricorsi;
udito l’Avvocato Giuseppe Avino per la ricorrente, che si riporta agli atti e chiede la rimessione alle SS.UU.;
udito l’Avvocato Antonucci Arturo per i controricorrenti, che si riporta agli atti.
FATTI DI CAUSA
1. – Il Tribunale di Mantova, con sentenza del 15 giugno 2015, revocava il decreto ingiuntivo emesso in favore della Banca Monte dei Paschi di Siena s.p.a. nei confronti di Emmeti Auto s.r.l., TO.ME.CAR. s.r.l. (poi M Immobiliare s.r.l.), Me.Gi., G. e M.; accertava l’illegittimità degli addebiti a titolo di interessi ultralegali, interessi anatocistici e commissioni effettuati sui conti correnti nn. ***** e *****, nonchè la nullità di sei distinti negozi che regolavano altre operazioni bancarie e l’inadempimento dell’istituto di credito in relazione a contratti finanziari di interes rate swap. Condannava quindi la banca al pagamento della somma di Euro 274.353,00, oltre accessori, in favore di M Immobiliare; condannava altresì lo stesso istituto di credito al pagamento della somma di Euro 813.511,48, sempre oltre accessori, in favore di Emmeti Auto.
2. – La sentenza era impugnata in via principale dalla banca e in via incidentale dalle altre parti.
In esito al giudizio di gravame la pronuncia di prime cure era riformata con esclusivo riguardo ai contratti di swap, che venivano risolti per inadempimento (laddove il Tribunale aveva sul punto reso una pronuncia risarcitoria).
3. – Contro questa sentenza, emessa dalla Corte di appello di Brescia in data 7 marzo 2018, ha proposto ricorso principale Banca Monte dei Paschi di Siena; hanno spiegato ricorso incidentale Emmeti, M Immobiliare, Me.Gi., G. e M.. Entrambe le impugnazioni constano di quattro motivi.
Con due memorie le parti hanno richiamato le deduzioni già svolte.
RAGIONI DELLA DECISIONE
1. – Col primo motivo di ricorso principale è dedotta la violazione dell’art. 2697 c.c. e dell’art. 2033 c.c.. La banca istante censura la sentenza impugnata nella parte in cui ha ritenuto che il convenuto in senso sostanziale nell’azione di pagamento del saldo di conto corrente, il quale abbia domandato in via riconvenzionale l’accertamento negativo del credito e la ripetizione degli interessi indebitamente corrisposti, non sia onerato della produzione degli estratti conto integrali, a partire dal momento iniziale del rapporto. Assume la ricorrente che l’accertata nullità dei contratti collegati a quelli di conto corrente, su cui era fondata la domanda monitoria, non dispensava la controparte dall’onere di provare l’ammontare degli indebiti pagamenti. Nè, ad avviso dell’istante, poteva assumere rilievo la circostanza, valorizzata dalla Corte di merito, per cui non era stata svolta alcuna specifica contestazione, in sede di consulenza tecnica, quanto alle modalità operative che il c.t.u. aveva adottato per rimediare alle lacune riscontrate con riguardo all’andamento dei conti correnti nn. ***** e *****.
1.1. – Il motivo va disatteso.
1.2. – La Corte di appello, pronunciando sul primo motivo di gravame dell’odierna ricorrente, ha evidenziato che alla banca incombeva di provare il credito maturato in relazione ai conti correnti nn. ***** e ***** attraverso la produzione degli estratti conto, giacchè la medesima aveva pur sempre agito in via monitoria, domandando il saldo dei detti conti. Ha comunque rilevato che il consulente aveva provveduto ad apportare correzioni a fronte di alcune lacune presenti nella serie degli estratti conto relativi a quei rapporti, introducendo “movimentazioni a compensazione delle differenze fra i saldi contabili che (attenevano) agli estratti conto mancanti” e che tale modalità operativa era stata approvata dal consulente tecnico di parte della banca; ha inoltre osservato che il Tribunale aveva espunto gli addebiti, operati sui detti conti nn. ***** e *****, riferiti a somme rivenienti da altri conti correnti i cui contratti erano da ritenere nulli per difetto di forma.
1.3. – La banca e il correntista, a seconda che assumano, o non assumano, la posizione di attori nei giudizi aventi ad oggetto l’accertamento del saldo, sono onerati della prova delle movimentazioni del conto (sull’onere della banca: Cass. 18 settembre 2014, n. 19696; Cass. 20 aprile 2016, n. 7972; Cass. 25 maggio 2017, n. 13258; sull’onere del correntista: Cass. 7 maggio 2015, n. 9201; Cass. 13 ottobre 2016, n. 20693; Cass. 23 ottobre 2017, n. 24948).
In presenza, come nel caso in esame, di domande contrapposte, entrambe le parti sono onerate della prova delle pretese che si fronteggiano, aventi rispettivamente ad oggetto l’inesistenza e l’esistenza del credito dedotto in lite (per l’ipotesi di contrapposte domande, di pagamento e di accertamento negativo: Cass. 16 giugno 2005, n. 12963; Cass. 15 febbraio 2007, n. 3374; con specifico riguardo al caso in cui il correntista agisca in giudizio chiedendo di rideterminarsi il saldo del conto e la ripetizione degli importi da lui indebitamente versati, mentre la banca spieghi riconvenzionale per la corresponsione degli importi di cui si assuma creditrice: Cass. 7 maggio 2015, n. 9201 cit.). Ciò significa, in concreto, che ciascuno dei due contendenti ha l’onere di dar prova delle operazioni da cui si origina il saldo che assume essergli favorevole.
Nondimeno, a fronte di una produzione non integrale degli estratti conto è sempre possibile, per il giudice del merito, ricostruire i saldi attraverso altri elementi di prova (Cass. 2 maggio 2019, n. 11543; Cass. 4 aprile 2019, n. 9526). In particolare, per far fronte alla necessità di elaborazione di dati incompleti, detto giudice ben può avvalersi di un consulente d’ufficio, essendo sicuramente consentito svolgere un accertamento tecnico contabile al fine di rideterminare il saldo del conto in base a quanto comunque emergente dai documenti prodotti in giudizio (Cass. 1 giugno 2018, n. 14074, ove il richiamo a Cass. 15 marzo 2016, n. 5091: nel medesimo senso anche Cass. 3 dicembre 2018, n. 31187).
Nella fattispecie, come si è visto, risulta che il consulente tecnico abbia proceduto ad apportare correttivi ai saldi dei due conti correnti di cui alla domanda monitoria. Ora, per un verso, in termini generali, come si è visto, l’utilizzo di un tale rimedio ai fini della ricostruzione del saldo, a fronte di una produzione incompleta di estratti conto non incontra ragioni assolute di preclusione. Per altro verso, spettava alla ricorrente principale specificare, in osservanza del principio di autosufficienza, in cosa consistesse l’operazione correttiva posta in atto dal consulente: in assenza di congrue indicazioni al riguardo, la censura risulta quindi inammissibile, in quanto carente di specificità e mancante degli elementi che consentano di apprezzarne la decisività; il difetto di autosufficienza non consente, in altri termini, di affermare l’erroneità dell’operato del c.t.u. che si sarebbe trasfuso nella decisione impugnata.
1.4. – Quanto, poi, all’elisione, dal saldo dei conti correnti nn. ***** e *****, degli addebiti per operazioni poste in atto su altri conti, i cui contratti erano da ritenere nulli per vizio di forma, la decisione assunta dai giudici di merito deve ritenersi pienamente corretta: poichè il contratto nullo non produce alcun effetto, la banca non poteva pretendere, con la propria azione contrattuale (quella introdotta col procedimento monitorio), di far valere addebiti che si originavano da movimentazioni prive di un valido titolo giuridico (addebiti poi refluiti nei saldi dei conti correnti di cui essa ha domandato il pagamento col ricorso per ingiunzione).
2. – Col secondo mezzo è denunciata la violazione degli artt. 1284,820,821, 1282 e 2033 c.c.. La doglianza investe la detrazione delle competenze relative a sei rapporti di conto che erano confluiti in quelli cui si riferiva la domanda monitoria. La ricorrente rileva, in proposito, che aveva errato la Corte di appello nell’escludere che le società correntiste fossero tenute a corrisponderle gli interessi legali con riguardo ai sei contratti di finanziamento collegati ai due contratti di conto corrente da essa azionati: con riferimento ai primi, difatti, gli interessi riferiti alle singole operazioni poste in atto dovevano essere corrisposti nella misura di cui all’art. 1284 c.c. e non potevano integrare un indebito (essendo soggetti a ripetizione i soli interessi ultralegali).
2.1. – La censura è inammissibile.
Essa si correla a quella appena esaminata, dal momento che investe il tema del mancato addebito, sui conti correnti nn. ***** e *****, degli interessi legali riferiti a operazioni poste in atto sui sei rapporti di conto aventi origine da altrettanti contratti ritenuti nulli per difetto di forma.
2.2. – La Corte di appello, dopo aver dato atto della richiamata nullità, ha evidenziato che la deduzione della banca appellante, la quale aveva lamentato lo storno di tutti gli interessi maturati sui rapporti di conto collegati a quelli principali, azionati dalla stessa odierna ricorrente, non aveva fondamento: secondo il giudice distrettuale la conversione dei tassi dei detti interessi a quelli legali, previsti dall’art. 117 t.u.b. e art. 1284 c.c., non poteva aver luogo, dal momento che “tali norme disciplinano la nullità della singola clausola contrattuale che accede ad un contratto valido, e quindi a fattispecie diversa da quella in esame”.
2.3. – La ricorrente pare fondare la propria doglianza sul rilievo per cui l’addebito degli interessi riferiti a finanziamenti (in forma di sconto, sembra di intendere: cfr. pag. 21 del ricorso, ove si parla di “titoli od effetti scontati”) che erano stati posti in atto in esecuzione dei contratti nulli, sebbene non dovuti nella misura pattiziamente convenuta, avrebbero dovuto essere riconosciuti nella misura legale fissata dall’art. 1284 c.c..
La censura è tuttavia priva della necessaria specificità. Stante la nullità dei contratti che regolavano le singole operazioni, è incontestabile che alle odierne controricorrenti non potessero essere addebitati gli importi convenzionalmente pattuiti, a titolo di interessi, per le operazioni di finanziamento: sicchè essi sono stati giustamente stornati in favore delle società correntiste. La banca, per parte sua – avendo provveduto ad effettuare finanziamenti del cui rimborso non si discute (e che evidentemente sono stati restituiti all’istituto di credito prima dell’introduzione del presente giudizio) – avrebbe ragione di pretendere interessi commisurati all’entità delle somme (le anticipazioni) percepite sine titulo dalla controparte con riguardo al periodo intercorrente tra l’indebito pagamento e la restituzione: ma ciò nella sola ipotesi in cui l’importo in questione fosse stato riscosso in mala fede (art. 2033 c.c.). Ora l’istante, oltre a non indicare le operazioni da cui si originerebbe il credito per interessi fatto valere col motivo, e a non fornire alcuna indicazione quanto al tempo che sarebbe intercorso tra le anticipazioni e il soddisfacimento della pretesa avente ad oggetto il rimborso di quanto erogato, nemmeno chiarisce se nella pregressa fase del giudizio abbia invocato, a fondamento della propria pretesa, la mala fede delle società che avevano riscosso gli importi versati in forza dei contratti nulli.
3. – Il terzo motivo del ricorso principale oppone la violazione dell’art. 120 t.u.b. e della Delib. CICR 9 febbraio 2000, art. 7, nonchè dell’art. 1418 c.c.. E’ lamentato lo scomputo degli addebiti per capitalizzazione trimestrale degli interessi passivi nel periodo anteriore alla rinegoziazione dei rapporti, occorsa il 20 giugno 2005. L’istante censura la sentenza impugnata nella parte in cui ha ritenuto che, nel fare applicazione dell’art. 7 cit., il peggioramento delle condizioni contrattuali, ivi previsto, andasse rapportato alla nullità della clausola anatocistica: secondo la ricorrente, la Corte di appello avrebbe dovuto invece far riferimento alle condizioni “concretamente applicate dalla banca e non ancora dichiarate nulle” (pag. 29 del ricorso), posto che la nullità avrebbe assunto rilievo solo col passaggio in giudicato della sentenza che avesse dichiarato tale invalidità.
3.1. – Il motivo non merita accoglimento.
3.2 – Le previsioni della Delib. CICR 9 febbraio 2000, trovano il loro fondamento, sul piano legislativo, nel D.Lgs. n. 342 del 1999, art. 25, commi 2 e 3 (che doveva attuare una ampia delega legislativa, comprensiva dell’emanazione di “diposizioni integrative e correttive” del testo unico bancario emanato con D.Lgs. n. 385 del 1993). Il detto art. 25, comma 2, ha modificato l’art. 120 t.u.b. (D.Lgs. n. 385 del 1993), prevedendo, per l’appunto, che il CICR stabilisse “modalità e criteri per la produzione di interessi sugli interessi maturati nelle operazioni poste in essere nell’esercizio dell’attività bancaria”, disponendo in ogni caso che nelle operazioni in conto corrente fosse assicurata nei confronti della clientela la stessa periodicità nel conteggio degli interessi sia debitori che creditori. Il cit. art. 25, comma 3, ha previsto, per quanto qui interessa, che le clausole relative alla produzione di interessi sugli interessi maturati, contenute nei contratti stipulati anteriormente alla data di entrata in vigore della Delib. di cui al comma 2, dovessero essere adeguate al disposto del detto atto normativo secondario, il quale avrebbe altresì stabilito le modalità e i tempi dell’adeguamento.
Il CICR, con la nominata Delib., ha poi stabilito (art. 2) che nel conto corrente dovesse essere stabilita la stessa periodicità nel conteggio degli interessi creditori e debitori e che le condizioni applicate sulla base dei contratti stipulati anteriormente alla data di entrata in vigore della presente Delib. dovessero essere adeguate alle disposizioni in questa contenute entro il 30 giugno 2000, con effetto dal successivo 1 luglio (art. 7, comma 1); in particolare, ove le nuove condizioni contrattuali non comportassero un peggioramento delle condizioni precedentemente applicate, le banche e gli intermediari finanziari, entro il medesimo termine del 30 giugno 2000, avrebbero potuto provvedere all’adeguamento mediante pubblicazione nella Gazzetta Ufficiale e previa comunicazione per iscritto alla clientela alla prima occasione utile, comunque entro il 31 dicembre 2000 (art. 7, comma 2). L’approvazione specifica da parte del correntista (e quindi la conclusione di un nuovo accordo fondato sulla specifica adesione da parte di quel soggetto) era richiesta per la diversa ipotesi in cui le nuove condizioni contrattuali comportassero un peggioramento delle condizioni precedentemente applicate (art. 7, comma 3).
3.3. – La Corte di merito ha ritenuto che nella presente fattispecie fosse necessaria tale nuova approvazione, la quale intervenne solo il 20 giugno 2005, allorquando i due rapporti di conto corrente vennero rinegoziati: e ciò ha affermato basandosi sul dato giuridico della nullità delle clausole anatocistiche originariamente convenute.
3.4. – L’approdo della sentenza impugnata è quello guadagnato da una giurisprudenza recente di questa Corte (Cass. 21 ottobre 2019, n. 26769, non massimata; Cass. 21 ottobre 2019, n. 26779, non massimata): giurisprudenza cui il Collegio ritiene di dover dare continuità, pur con le precisazioni che ci si accinge a formulare.
Prima è necessario rilevare, però, che la questione posta col motivo non giustifica la rimessione della causa alle Sezioni Unite: rimessione che la ricorrente ha domandato con la propria memoria del 17 dicembre 2019. Il tema oggetto del motivo non ha carattere di novità, essendo stato già affrontato dalla Corte, come testè osservato, e la rilevanza dello stesso, sul piano nomofilattico, è stata del resto debitamente valutata dall’ufficio avviando la causa alla trattazione in pubblica udienza, in conformità di quanto prescritto dall’art. 375 c.p.c., comma 3.
3.5. – Ciò detto, la Delib. CICR 9 febbraio 2000, è stata emanata prima che fosse dichiarata l’incostituzionalità della previsione, contenuta nel D.Lgs. n. 342 del 1999, art. 25, comma 3, con cui erano state dichiarate valide ed efficaci le clausole relative alla produzione di interessi sugli interessi maturati, contenute nei contratti stipulati anteriormente alla data di entrata in vigore della Delib. stessa (Corte Cost. 17 ottobre 2000, n. 425).
La richiamata pronuncia di incostituzionalità non ha interessato, per la verità, quella parte del cit. art. 25, comma 3, in cui è stato regolamentato l’adeguamento dei vecchi contratti alle prescrizioni della Delib. CICR: infatti, la pronuncia del giudice delle leggi si è fondata sull’eccesso di delega (rispetto alla cit. L. n. 128 del 1998, art. 1, comma 5), avendo la Corte costituzionale escluso “che la suddetta delega legittimi una disciplina retroattiva e genericamente validante”. Appare anzi manifesto che l’intervento caducatorio riguardasse il solo regime di sanatoria che il legislatore aveva previsto per il periodo che precedeva proprio l’entrata in vigore della Delib. CICR. Va notato, al riguardo, che il venir meno della “continuità logica con la delega”, con la conseguente rottura della “necessaria consonanza che deve intercorrere tra quest’ultima e la norma delegata”, sia stata individuata dal giudice delle leggi in ciò: “il legislatore delegato, da un lato sancisce (pro praeterito), per qualsiasi tipo di vizio, una generale sanatoria delle clausole anatocistiche illegittime contenute nei contratti bancari anteriori al 19 ottobre 1999, con effetti temporalmente limitati sino al 22 aprile 2000 (data di entrata in vigore della Delib. del CICR); dall’altro attribuisce (pro futuro), sia pure nell’identico limite temporale, la stessa indiscriminata “validità ed efficacia” alle clausole poste in essere nel periodo tra il 19 ottobre 1999 ed il 21 aprile 2000" (Corte Cost. 17 ottobre 2000, n. 425 cit.). Occorre considerare, in proposito, che nelle sentenze dichiarative dell’illegittimità costituzionale di una norma di legge, la statuizione precettiva avente valore di accertamento costitutivo ed estintivo con efficacia erga omnes è contenuta nel dispositivo della sentenza, da ritenersi, peraltro, posto in rapporto di correlazione necessaria con la motivazione le volte in cui soltanto quest’ultima consenta di determinare con precisione, al fine di individuare l’esatta portata e il preciso oggetto della pronuncia, quali disposizioni di legge debbano ritenersi caducate (Cass. 17 dicembre 2004, n. 23506).
La pronuncia di incostituzionalità ha investito, così, il solo tema della validazione delle clausole anatocistiche fino al momento in cui è divenuta operante la Delib. 9 febbraio 2000 e non ha direttamente inciso sull’attribuzione al CICR del potere di regolamentare il transito dei vecchi contratti nel nuovo regime: profilo della disciplina, quest’ultimo, che presentava una propria innegabile autonomia logica e giuridica rispetto alla sanzionata previsione della sanatoria dei contratti contenenti clausole anatocistiche conclusi prima del 21 aprile 2000. Non potrebbe d’altro canto sostenersi che un adeguamento dei contratti contenenti le disposizioni vietate fosse incompatibile con lo scenario consegnato dalla richiamata pronuncia della Corte costituzionale: il traghettamento dei contratti contenenti le disposizioni nulle verso la nuova disciplina, introdotta dall’art. 25, comma 2, cit. (incentrata dalla pari periodicità nella contabilizzazione degli interessi sia debitori che creditori) trovava anzi una sicura giustificazione, consentendo di superare, per il futuro, la condizione di patologia che affliggeva le clausole relative alla capitalizzazione.
3.6. – Il fatto che il potere regolamentare del CICR non sia stato messo in discussione dalla nominata pronuncia di incostituzionalità non implica, però, che quest’ultima abbia mancato di incidere sulla portata della Delib. 9 febbraio 2000, che di tale potere regolamentare ha costituito espressione.
E’ precisamente in tale prospettiva che il riferimento alle “condizioni precedentemente applicate”, contenuta nell’art. 7, comma 2, della Delib., cui la banca ricorrente mostra di attribuire tanto valore, non può essere enfatizzato.
La Delib. è anteriore alla sentenza di incostituzionalità e si colloca in un quadro storico contrassegnato dal dato della conformità al diritto (giusta la sanatoria disposta dal D.Lgs. n. 342 del 1998, art. 25, comma 3, primo periodo) delle clausole anatocistiche, che dunque presuppone.
In ragione della pronuncia di incostituzionalità (che ha ovviamente avuto – è davvero inutile rilevarlo – efficacia retroattiva) le clausole anatocistiche inserite in contratti conclusi prima dell’entrata in vigore della Delib. CICR non possono che considerarsi nulle: e cioè colpite da quell’invalidità che l’art. 25, aveva inteso rimuovere (alla condizione del successivo adeguamento dei contratti, specificata nell’ultima parte del comma 3) con la più volte richiamata sanatoria. E’ quindi alla nullità delle clausole anatocistiche che bisogna guardare quanto si prendono in considerazione le disposizioni transitorie di cui all’art. 7 della Delib..
E’, invece, incongruo ritenere che il CICR, con la disposizione in esame, abbia inteso far riferimento alla mera applicazione delle predette clausole, indipendentemente dalla validità ed efficacia delle medesime. Una tale lettura del testo normativo è priva di giustificazione sul piano logico; infatti, l’autorità emanatrice del provvedimento non aveva alcuna necessità di dissociare il regime giuridico della clausola anatocistica dalla applicazione che le parti ne avessero fatto in concreto: e ciò perchè, come più volte osservato, la Delib. venne ad esistenza quando le clausole in questione erano state oggetto di sanatoria, onde l’atto si situava, storicamente, in una cornice normativa in cui la capitalizzazione posta in essere nel passato era da considerarsi ancora legittima. In altri termini, la scelta di conferire rilievo al dato della applicazione in facto della clausola, siccome scisso dalla condizione di invalidità in jure che la connota, poteva trovare una sua motivazione all’indomani della pronuncia di incostituzionalità, ma poichè la Delib. è anteriore rispetto a tale momento la soluzione interpretativa suggerita dalla banca ricorrente appare priva di ragionevole fondamento.
L’esegesi proposta finisce del resto per conferire rilevanza a un dato – l’esecuzione della disposizione negoziale nulla – che è normalmente, salve le note eccezioni (ad es.: artt. 590,799,2126 c.c.), sprovvisto di rilevanza giuridica e che, nella specie, in quanto confliggente col principio di natura generale per cui la pattuizione nulla è priva di ogni efficacia, la Delib. CICR non avrebbe potuto nemmeno autonomamente introdurre.
3.7. – Non appare del resto condivisibile il rilevo della ricorrente per cui, ai fini che qui interessano, la sola nullità che conterebbe sarebbe quella dichiarata giudizialmente con sentenza passata in giudicato: l’assunto trascura infatti di considerare che la nullità si produce indipendentemente dall’accertamento giudiziale – tant’è che la relativa pronuncia ha natura dichiarativa -, sicchè non ha senso privare il giudice del potere e dovere di tener conto di essa in un momento precedente (salvo, ovviamente, non si sia prodotto un giudicato in senso contrario).
3.8. – Una volta appurato che, contrariamente a quanto ritenuto dalla ricorrente, la Delib. CICR non ha affatto valorizzato (come le era del resto precluso) la circostanza della mera applicazione di fatto della clausola anatocistica nulla, occorre verificare se, in base a quanto affermato dalla Corte di appello, fosse necessario procedere a una nuova pattuizione in tema di capitalizzazione o se, all’opposto, fosse sufficiente attendere alla pubblicizzazione delle nuove condizioni contrattuali nella Gazzetta Ufficiale e alla comunicazione di queste al cliente alla prima occasione utile (art. 7, comma 2, cit.).
Il presupposto di questa seconda forma di adeguamento è, come in precedenza accennato, il fatto che “le nuove condizioni contrattuali non comportino un peggioramento delle condizioni precedentemente applicate”.
Il raffronto deve avere naturalmente ad oggetto la sola clausola anatocistica, dal momento che la Delib. CICR 9 febbraio 2000, si occupa di tali disposizioni pattizie e solo di tali disposizioni pattizie: è escluso, pertanto, che il peggioramento o meno delle nuove condizioni possa essere apprezzato avendo riguardo a clausole del contatto di diverso contenuto.
Nel contratto di conto corrente la comparazione deve investire, poi, la clausola nel suo complesso, e quindi la disciplina della capitalizzazione degli interessi sia attivi che passivi; e non potrebbe essere altrimenti, dal momento che la clausola da regolarizzare deve compararsi alla clausola che prevede la “stessa periodicità nel conteggio degli interessi creditori e debitori” (art. 2, comma 2, della Delib., indirettamente richiamata dall’art. 7, comma 1): sicchè è con riguardo a tali condizioni (che riguardano, dunque, entrambe le indicate tipologie di interessi) che deve accertarsi se vi sia stato o meno il peggioramento di cui è parola nell’art. 7, commi 2 e 3.
Ciò posto, è da rilevare che nella situazione determinatasi a seguito della nominata pronuncia di incostituzionalità l’operazione di raffronto imposta dalla Delib. si dimostra inattuabile.
La banca istante muove dal presupposto, assunto come pacifico, che le condizioni contrattuali applicate in precedenza prevedevano la “capitalizzazione disgiunta” (cfr. ricorso, pag. 28): e quindi – è da intendere – una diversa periodicità della capitalizzazione degli interessi creditori e debitori. Ma poichè, in assenza di usi normativi contrari, le nominate condizioni contrattuali sono nulle, in base all’art. 1283 c.c., le condizioni indicate dalla disposizione della Delib. CICR circa la pari periodicità del conteggio degli interessi stessi non possono essere confrontate con una valida disposizione anatocistica, contenuta nel contratto di conto corrente, da considerarsi tamquam non esset.
3.9. – L’unico raffronto teoricamente possibile, in un contesto giuridico in cui le clausole anatocistiche pattuite nel passato sono da considerarsi nulle, potrebbe riguardare la capitalizzazione con eguale periodicità (di cui all’art. 2, comma 2, cit.), da un lato, e la totale assenza di capitalizzazione (derivata dalla nullità), dall’altro.
La Delib. CICR non prende però in considerazione una tale giustapposizione.
Va ricordato, in proposito, che l’art. 7 di tale Delib. allude specificamente a delle vere e proprie “condizioni”, e dunque a quanto le parti avessero puntualmente stabilito in punto di capitalizzazione, e ciò sul chiaro presupposto, più volte indicato, della precorsa valida stipulazione di clausole anatocistiche. Come si è detto, l’art. 2, comma 2, subordina poi, per il futuro, la pratica anatocistica al fatto che nel conto corrente sia stabilita la medesima periodicità nel conteggio degli interessi creditori e debitori. Appare dunque evidente che il carattere deteriore delle “condizioni precedentemente applicate” si debba misurare sul piano della capitalizzazione e della sua cadenza. Tale raffronto sarebbe stato concretamente attuabile in assenza della declaratoria di incostituzionalità dell’art. 25, comma 3, più volte citato, dal momento che in base alle norme bancarie uniformi del passato veniva normalmente praticata la capitalizzazione annuale degli interessi creditori e la capitalizzazione trimestrale di quelli debitori. Per contro, in mancanza di una clausola, valida, che preveda, per almeno una delle due tipologie di interesse (attivo o passivo) una capitalizzazione da attuarsi con una data frequenza, è impossibile stabilire se il criterio della pari periodicità, di cui all’art. 2, comma 2, della Delib., sia favorevole o sfavorevole per il correntista.
La conclusione è logica conseguenza del fatto che la norma transitoria di cui all’art. 7 mira a regolare la mera modificazione delle condizioni anatocistiche (in cui assume centralità proprio il dato della periodicità della capitalizzazione degli interessi), ma non l’inserimento, nel contratto, di una clausola anatocistica prima inesistente.
3.10. – La condizione di inapplicabilità delle previsioni della Delib. che sono basate sul raffronto tra le condizioni di capitalizzazione è, d’altro canto, insuperabile. Non si rinviene, infatti, alcuna soddisfacente regola che sia idonea ad assegnare una qualche consistenza di significato, ai fini della comparazione che l’art. 7 cit. esige, alla clausola anatocistica nulla.
E’ da escludere, in particolare, che l’apprezzamento circa l’esistenza del peggioramento di cui all’art. 7, commi 2 e 3, possa farsi dipendere dall’andamento del conto e assumersi, così, che, a fronte dell’assenza di una valida previsione circa la capitalizzazione degli interessi debitori e creditori, tale peggioramento sussista se il conto risulti in passivo, mentre non sussista se sia, invece, attivo. Tale impostazione – che si fonda sul rilievo per cui il transito da una condizione di mancata capitalizzazione a una condizione di capitalizzazione è vantaggiosa per il cliente se allo stesso debbano essere accreditati interessi e sfavorevole se gli si debbano invece addebitare – finisce per far dipendere il peggioramento delle condizioni contrattuali da una situazione meramente contingente, che potrebbe essere presente in un dato momento (quello dell’entrata in vigore della Delib. CICR) e mancare in un frangente successivo: il che, oltre a contrastare con l’art. 7 cit., che fissa un criterio univoco e astratto, dipendente dal solo tenore delle pattuizioni intercorse, finisce per veicolare, come è ovvio, esiti ben poco ragionevoli sul piano applicativo.
Se si reputa, poi, come in precedenza rilevato, che il parametro assunto dalla Delib. CICR per valutare l’esistenza o meno del peggioramento delle condizioni contrattuali sia costituito dalla capitalizzazione con una data periodicità, deve pure escludersi possa assumere rilievo, ai fini che qui interessano, la misura dei due tassi da applicarsi per gli interessi debitori e creditori. La valorizzazione di tale dato porterebbe, peraltro, a concludere nel senso che, a fronte della capitalizzazione di cui all’art. 2, comma 2, della Delib., sarebbe sempre necessaria una nuova pattuizione (conclusione che è, poi, la medesima cui si perviene se si ritiene che l’art. 7 sia radicalmente inapplicabile): e infatti, considerando i tassi applicati, si dovrebbe ritenere costantemente peggiorativa, rispetto all’originaria nullità della clausola anatocistica, la previsione della capitalizzazione con eguale periodicità, giacchè la misura (il tasso) degli interessi debitori applicati al correntista è sempre superiore a quella degli interessi creditori (con la conseguenza che rispetto alle condizioni preesistenti, il detto soggetto si troverebbe a dover corrispondere più interessi di quanti ne debba ricevere).
3.11. – L’impossibilità di correlare la disciplina transitoria di cui al cit. art. 7 al contatto di conto corrente contenente la clausola anatocistica nulla implica che le parti potessero applicare al contratto una nuova disciplina della capitalizzazione solo addivenendo a una specifica pattuizione conforme all’art. 2 della Delib. CICR. Tale conclusione allinea la disciplina dei vecchi contratti contenti clausole anatocistiche colpite da nullità a quella dei contratti di conto corrente conclusi dopo l’entrata in vigore della Delib. CICR: ma tale operazione appare giustificata, se si tiene conto che nell’uno come nell’altro caso la disciplina della capitalizzazione degli interessi che le parti intendono fissare non si innesta su altra valida pattuizione e non ha, quindi, contenuto modificativo rispetto a una precedente regolamentazione pattizia. Rileva, in altre parole, la prossimità, e – in definitiva – la sostanziale assimilabilità tra due fattispecie: quella della stipula di un contratto di conto corrente che le parti intendano munire di una clausola anatocistica e quella dell’inserzione di una tale clausola in un contratto vecchio che ne sia privo (per la nullità della relativa pattuizione). In entrambi i casi è necessario che il correntista esprima la propria volontà circa l’introduzione, nel contratto, della clausola di capitalizzazione con pari periodicità, giacchè sul punto non è previsto alcun automatismo, ma è rimesso all’autonomia delle parti decidere se il contratto debba produrre, alla detta condizione, interessi anatocistici.
3.12. – In conclusione, una volta affermato che ai fini della Delib. CICR 9 febbraio 2000, art. 7, assume rilievo non già l’applicazione de facto delle condizioni anatocistiche pattuite in precedenza, ma la nullità che affligge le stesse, il criterio posto dai commi 2 e 3 dello stesso articolo, che presuppone la validità di tali pattuizioni e l’intervenuta modificazione delle stesse, risulta essere inapplicabile, con la conseguenza che per munire un contratto di conto corrente concluso prima dell’entrata in vigore del D.Lgs. n. 342 del 1999, art. 25, comma 2, dell’attitudine a produrre interessi anatocistici era necessario addivenire a una nuova pattuizione avente ad oggetto la capitalizzazione degli interessi, nel rispetto dell’art. 2 della nominata Delib..
4. – Col quarto motivo del ricorso principale la banca oppone la violazione dell’art. 21 t.u.f., artt. 26 e 31 reg. Consob n. 11522/1998, con riguardo all’inadempimento dell’intermediario in ordine al contratto di interest rete swap del 7 novembre 2006. Secondo la ricorrente, la Corte distrettuale, pur prendendo atto che il contratto mancava dell’indicazione dei “tassi correlati”, avrebbe dovuto apprezzare altri elementi probatori, circa le conoscenze e l’esperienza dell’investitore, che compensavano detta carenza: in conseguenza, il giudice del gravame non avrebbe dovuto postulare che fosse necessario acquisire “prova piena” dell’adempimento dell’obbligo informativo da parte dell’intermediario.
4.1. – Il motivo è infondato.
4.2. – La Corte di appello ha ampiamente argomentato quanto all’inadempimento della banca al proprio obbligo di agire con diligenza, correttezza e trasparenza: obbligo che – ha precisato -faceva carico all’istante quand’anche le controricorrenti fossero da considerare operatori qualificati. La Corte di merito non si è poi soffermata sulla sola mancata informazione fornita dall’intermediario circa i “tassi correlati”, ma ha evidenziato come le indicazioni date dalla banca con riferimento all’operazione di swap in discorso risultassero comunque carenti e come, inoltre, la stessa banca, che ben conosceva la situazione dei propri clienti, alla luce delle posizioni aperte da tempo, non avesse posto in atto una “valutazione sull’adeguatezza dei “prodotti” offerti, in relazione alla situazione finanziaria influenzata in modo decisivo dall’indebitamento verso la medesima banca”.
4.3. – Lo stesso giudice distrettuale, dunque, non ha affatto omesso di considerare la dichiarazione autoreferenziale delle controricorrenti quanto al loro essere “operatori qualificati”: ha invece correttamente valorizzato la complessiva condotta dell’intermediario allo scopo di verificare se esso avesse agito nel rispetto dei nominati obblighi di diligenza, correttezza e trasparenza. E’ infatti da considerare che l’art. 31, comma 1, reg. Consob n. 11522/1998, non esclude che agli operatori qualificati, tra cui è ricompresa “ogni società o persona giuridica in possesso di una specifica competenza ed esperienza in materia di operazioni in strumenti finanziari espressamente dichiarata per iscritto dal legale rappresentante” (art. cit., comma 2) sia applicabile l’art. 26 del predetto regolamento, il quale, alla lett. e), fa obbligo all’intermediario di acquisire “una conoscenza degli strumenti finanziari, dei servizi nonchè dei prodotti diversi dai servizi di investimento, propri o di terzi, da essi stessi offerti, adeguata al tipo di prestazione da fornire”. L’accertamento svolto sul punto si sottrae, poi, al sindacato di legittimità, giacchè inerisce a profili fattuali.
5. – Il primo motivo di ricorso incidentale denuncia la violazione dell’art. 1284 c.c., relativamente agli interessi ultralegali dovuti sui conti correnti nn. ***** e ***** per il periodo successivo al 20 giugno 2005. Sostengono i ricorrenti per incidente che i contratti del 20 giugno 2005, relativi ai detti rapporti, essendo privi della sottoscrizione della banca, non potevano prevedere interessi eccedenti il saggio legale: e ciò in quanto l’art. 1284 cit. esigerebbe che la pattuizione degli interessi ultralegali sia sottoscritta da entrambe le parti.
5.1 – La censura va disattesa.
5.2. – L’art. 1284 c.c., non viene in questione ove si abbia riguardo a contratti bancari, i quali sono integralmente regolamentati, per quanto attiene alla forma, dall’art. 117 t.u.b. (sempre che, beninteso, tali contratti siano stati stipulati nel periodo di vigenza di tale norma: ma questo punto non è in contestazione). Ne discende che con riferimento a tali contratti va fatta applicazione del principio secondo cui l’omessa sottoscrizione del documento da parte dell’istituto di credito non determina la nullità del contratto per difetto della forma scritta, essendo il requisito formale posto a garanzia della più ampia conoscenza, da parte del cliente, del contratto predisposto dalla banca, la cui mancata sottoscrizione è dunque priva di rilievo, in presenza di comportamenti concludenti dell’istituto di credito idonei a dimostrare la sua volontà di avvalersi di quel contratto (Cass. 18 giugno 2018, n. 16070; Cass. 6 giugno 2018, n. 14646). A tale regola si è conformata la Corte di appello, sicchè la sentenza impugnata si sottrae alla censura svolta.
6. – Il secondo mezzo di ricorso incidentale oppone la violazione dell’art. 1283 c.c. e la falsa applicazione della delib. CICR 9 febbraio 2000, art. 6. La censura investe l’affermazione, contenuta nella pronuncia impugnata, secondo cui la pattuizione anatocistica era stata specificamente approvata: ciò che gli istanti negano, osservando come la firma sui contratti fosse stata apposta avendo riguardo a più clausole (alcune delle quali vessatorie ed altre no), oggetto di approvazione cumulativa.
6.1. – Il motivo non è fondato.
6.2. – La Corte di appello ha evidenziato che la clausola attinente alla capitalizzazione era stata indicata col numero d’ordine e con il richiamo a quanto ne costituiva oggetto.
6.3. – Ciò detto, secondo la giurisprudenza di questa S.C., si deve negare, bensì, la legittimità di un mero richiamo cumulativo, a clausole vessatorie e non, ma soltanto se questo si esaurisca nella mera indicazione del numero e non anche, benchè sommariamente, del loro contenuto (per tutte: Cass. 9 luglio 2018, n. 17939; Cass. 11 novembre 2015, n. 22984). La conclusione cui è pervenuta la Corte distrettuale è quindi corretta.
7. – Col terzo motivo i ricorrenti incidentali lamentano la violazione dell’art. 2697 c.c., comma 2, per l’inversione dell’onere della prova in relazione agli elementi costitutivi dell’eccezione di prescrizione della banca, dell’art. 2727 c.c., in relazione alla ritenuta insussistenza degli affidamenti, nonchè dell’art. 1194 c.c., con riguardo all’affermata natura di “pagamenti” dei versamenti effettuati sui conti per cui è causa. Assumono gli istanti: che, contrariamente a quanto ritenuto dalla Corte di merito, era la banca a dover provare la natura solutoria dei pagamenti ai fini della prescrizione del diritto di ripetizione, e quindi a dover dare dimostrazione dell’assenza di un contratto di apertura di credito; che le rimesse eseguite dovevano presumersi ripristinatorie della provvista, in assenza di altri elementi; che competeva alla banca fornire precisa indicazione delle rimesse solutorie il cui indebito assumeva prescritto; che il credito della banca stessa verso il correntista diviene certo, liquido ed esigibile per effetto del recesso della medesima dal contratto, onde prima di quel momento la prescrizione non poteva decorrere.
7.1. – Nessuna delle indicate censure è meritevole di accoglimento.
7.2. – Quanto alla prima, occorre osservare che è colui che agisce in ripetizione a dover provare l’apertura di credito che gli è stata concessa, poichè questa evenienza integra un fatto idoneo a incidere sulla decorrenza dell’eccepita prescrizione: fatto che costituisce materia di una controeccezione da opporsi alla banca convenuta in ripetizione. Difatti, la rimessa del correntista, che avrebbe natura solutoria in assenza di una apertura di credito, potrà assumere, in presenza di quest’ultima, natura ripristinatoria: ciò accadrà, precisamente, nei casi in cui tale rimessa ripiani l’esposizione maturata nel limite dell’affidamento, operando quindi su di un conto “passivo”, e non “scoperto”. Il contratto di apertura di credito si mostra pertanto idoneo ad escludere che la prescrizione del diritto alla ripetizione della somma oggetto della rimessa decorra dal momento dell’attuato versamento: e in base alla regola generale posta dall’art. 2697 c.c., sarà il correntista che intenda contrastare l’eccezione di prescrizione (avendo proprio riguardo al contestato suo decorso) ad essere onerato di provare l’esistenza del detto contratto. Il principio per cui, eccepita dalla banca la prescrizione del diritto alla ripetizione dell’indebito per decorso del termine decennale dal pagamento, è onere del cliente provare l’esistenza di un contratto di apertura di credito, che qualifichi quel versamento come mero ripristino della disponibilità accordata, è stato del resto già affermato da questa Corte (Cass. 30 gennaio 2019, n. 2660; Cass. 30 ottobre 2018, n. 27704).
7.3. – Non è del resto corretto ritenere che i versamenti eseguiti sul conto corrente abbiano normalmente funzione ripristinatoria della provvista: all’opposto, se il conto non è collegato a un’apertura di credito (che, si è visto, compete al correntista provare), le rimesse eseguite in presenza di un passivo del conto sono da riferirsi a un conto scoperto e risultano, per ciò solo, solutorie.
Sulle modalità con cui formulare l’eccezione di prescrizione soccorre, poi, la recente pronuncia delle Sezioni Unite, secondo cui l’onere di allegazione gravante sull’istituto di credito che voglia opporre l’eccezione di prescrizione al correntista che abbia esperito l’azione di ripetizione di somme indebitamente pagate nel corso del rapporto di conto corrente assistito da apertura di credito, è soddisfatto con l’affermazione dell’inerzia del titolare del diritto, unita alla dichiarazione di volerne profittare, senza che sia necessaria l’indicazione delle specifiche rimesse solutorie ritenute prescritte (Cass. Sez. U. 13 giugno 2019, n. 15895).
7.4. – Da ultimo, non può condividersi quanto dedotto con riguardo alla decorrenza della prescrizione del diritto di ripetizione. L’affermazione dai ricorrenti incidentali contrasta, infatti, con il principio secondo cui la detta prescrizione decorre, per le rimesse solutorie, dal momento in cui è attuato il pagamento (Cass. Sez. U. 2 dicembre 2010, n. 24418; Cass. 26 settembre 2019, n. 24051). D’altro canto, non è nemmeno corretto l’assunto secondo cui il disposto dell’art. 1194 c.c., non sarebbe mai operante all’interno del rapporto di conto corrente: infatti, il criterio posto da tale norma trova sicura applicazione se al conto acceda un’apertura di credito, ex art. 1842 c.c., ove il correntista abbia effettuato versamenti su conto scoperto, destinati a coprire un passivo eccedente i limiti dell’accreditamento, ovvero su conto in passivo a cui non acceda l’apertura di credito (Cass. 26 maggio 2016, n. 10941): e la doglianza riguarda proprio le rimesse solutorie (quindi versamenti rientranti nelle due ipotesi indicate).
8. – Col quarto motivo dell’impugnazione incidentale è lamentato un vizio di extrapetizione ex art. 112 c.p.c. e la nullità della sentenza in relazione alla detrazione degli accrediti effettuati dalla banca sui conti correnti in esecuzione dei contratti di swap risolti per inadempimento. E’ rilevato che la Corte di merito non avrebbe potuto procedere al detto storno in assenza di una domanda della controparte.
8.1. – La doglianza è inammissibile.
8.2. – La critica portata alla sentenza impugnata concerne la statuizione con cui la Corte di appello, nel dichiarare risolti per inadempimento i contratti di interest rate swap del 7 novembre 2006, ha riconosciuto il diritto delle ricorrenti incidentali alla restituzione delle somme loro addebitate sine titulo in esecuzione dei due contratti, ma al netto degli importi dagli stessi ricevuti.
La pronuncia di appello ha riformato la sentenza in punto di risoluzione, ma non nella parte relativa al regolamento delle spettanze pecuniarie (prima accordate a titolo risarcitorio e poi di ripetizione di indebito): e ciò, evidentemente, in quanto detto regolamento risultava essere in tutto conforme a quello adottato dal Tribunale in chiave risarcitoria.
Poichè è stato il Tribunale ad attuare la compensazione, era necessario che i ricorrenti incidentali chiarissero come avessero censurato, in appello, la detta statuizione. Nel corpo del motivo non si rinvengono, tuttavia, appropriate indicazioni in tale senso; nè può rilevare il richiamo, a pag. 39 del controricorso, al contenuto della comparsa di risposta depositata in fase di gravame, la quale reca un riferimento alla mancata proposizione da parte della banca della domanda di ripetizione dell’indebito: infatti, gli odierni istanti avrebbero dovuto argomentare, nella circostanza, che mancavano i presupposti della compensazione, giacchè il Tribunale si era pronunciato rispetto ad essa, e non con riguardo a una domanda di restituzione della banca.
9. – In conclusione, vanno respinti sia il ricorso principale che quello incidentale.
10. – Le spese di giudizio devono essere compensate, stante la reciproca soccombenza dei contendenti.
P.Q.M.
La Corte rigetta sia il ricorso principale che quello incidentale; compensa le spese di giudizio di legittimità; ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, inserito dalla L. n. 228 del 2012, art. 1, comma 17, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte della ricorrente principale e dei ricorrenti incidentali, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello, ove dovuto, per il ricorso.
Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Sezione Prima Civile, il 7 gennaio 2020.
Depositato in Cancelleria il 19 maggio 2020
Codice Civile > Articolo 799 - Conferma ed esecuzione volontaria di donazioni nulle | Codice Civile
Codice Civile > Articolo 820 - Frutti naturali e frutti civili | Codice Civile
Codice Civile > Articolo 821 - Acquisto dei frutti | Codice Civile
Codice Civile > Articolo 1194 - Imputazione del pagamento agli interessi | Codice Civile
Codice Civile > Articolo 1282 - Interessi nelle obbligazioni pecunarie | Codice Civile
Codice Civile > Articolo 1283 - Anatocismo | Codice Civile
Codice Civile > Articolo 1284 - Saggio degli interessi | Codice Civile
Codice Civile > Articolo 1418 - Cause di nullita' del contratto | Codice Civile
Codice Civile > Articolo 1842 - Nozione | Codice Civile
Codice Civile > Articolo 2033 - Indebito oggettivo | Codice Civile
Codice Civile > Articolo 2126 - Prestazione di fatto con violazione di legge | Codice Civile
Codice Civile > Articolo 2697 - Onere della prova | Codice Civile