Corte di Cassazione, sez. II Civile, Ordinanza n.18509 del 30/06/2021

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LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SECONDA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. MANNA Felice – Presidente –

Dott. SCARPA Antonio – Consigliere –

Dott. GIANNACCARI Rossana – Consigliere –

Dott. FORTUNATO Giuseppe – Consigliere –

Dott. CRISCUOLO Mauro – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 22494-2016 proposto da:

C.B., elettivamente domiciliata in ROMA, VIA GALLIA 2, presso lo studio degli avvocati CESARE E LAURA BERTI, che la rappresentano e difendono giusta procura a margine del ricorso;

– ricorrente –

contro

COMPAGNIA ITALIANA APPALTI COSTRUZIONI CIVILI ED INDUSTRIALI SRL, elettivamente domiciliata in ROMA, VIALE BRUNO BUOZZI 99, presso lo studio dell’avvocato CARMINE PUNZI, che la rappresenta e difende, giusta procura in calce al controricorso;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 4868/2015 della CORTE D’APPELLO di ROMA, depositata il 28/08/2015;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del 19/01/2021 dal Consigliere Dott. CRISCUOLO MAURO;

Lette le memorie depositate dalle parti.

RAGIONI IN FATTO DELLA DECISIONE C.B. evocava in giudizio dinanzi al Tribunale di Viterbo la Compagnia Italiana Appalti e Costruzioni Civili ed Industriali S.r.l., affinchè fosse condannata al risarcimento dei danni, quantificati in complessivi Euro 577.955,00, oltre interessi. Deduceva di avere acquistato dalla convenuta un appartamento in Sutri al prezzo di Euro 183.342,00, del quale la convenuta era anche costruttrice, ma che a pochi mesi dalla consegna si erano manifestati gravi vizi e difetti, costituiti da episodi di infiltrazioni di acqua dai muri, dal soffitto e dai pavimenti, che avevano reso l’immobile inutilizzabile.

In data 15/4/2003 era stato sottoscritto un accordo per effetto del quale la venditrice si impegnava a rimuovere i vizi e le relative cause a sua cura e spese ma che, anche a seguito degli interventi concordati, protrattisi ben più del tempo previsto, i lavori non erano stati completati, sicchè era stata l’attrice a sua cura e spese a terminare l’esecuzione dei lavori al terrazzo esterno.

Assumeva che, una volta rientrata nell’appartamento, i vizi si erano nuovamente manifestati e che, malgrado la tempestiva denuncia, la convenuta era rimasta inerte.

Quindi, eseguito un accertamento tecnico preventivo, aveva incaricato altra ditta di eseguire il totale risanamento del bene, sostenendo i relativi costi, e dovendo sobbarcarsi ben due traslochi al fine di sgomberare l’appartamento onde rendere possibili gli interventi manutentivi.

Inoltre, il protrarsi della situazione di inagibilità del bene aveva procurato gravi danni al sistema nervoso dell’attrice, con necessità di cure e spese mediche.

Nella resistenza della convenuta, il Tribunale adito con la sentenza n. 567 del 14/6/2007 accoglieva la domanda quantificando i danni nella complessiva somma di Euro 243.922,86. Avverso tale sentenza proponeva appello la società, chiedendo in ogni caso la riduzione delle somme liquidate a titolo risarcitorio.

Si costituiva l’appellata che, oltre a contestare la fondatezza dell’appello principale, in via incidentale chiedeva il riconoscimento anche dei danni negati dal Tribunale.

La Corte d’Appello di Roma, con la sentenza n. 4868 del 28/8/2015, in parziale riforma della sentenza appellata, ha condannato la venditrice al risarcimento del danno nella cifra di Euro 41.398,34, con la condanna dell’attrice alla restituzione delle somme incassate in eccesso rispetto a quanto liquidato in appello, per effetto della provvisoria esecuzione della sentenza del Tribunale, condannando l’appellante principale al rimborso del 50% delle spese del grado, dichiarando compensata la residua parte.

La Corte disatteso il motivo di appello principale con il quale si deduceva che l’accordo del 15/4/2003 consisteva in una novazione della preesistente obbligazione di garanzia, non potendosi riscontrare la volontà delle parti di dare vita ad un nuovo rapporto obbligatorio, quanto piuttosto di regolamentare il preesistente rapporto, lasciando impregiudicata la garanzia scaturente dal contratto di vendita, riteneva fondato il secondo motivo che invece investiva la corretta quantificazione dei danni.

Secondo i giudici di appello dalla consulenza tecnica espletata in primo grado emergeva che gli interventi posti in essere dall’attrice si erano presentati come drastici e radicali, ma sicuramente più dispendiosi rispetto a quelli che, anche se dilazionati nel tempo, avrebbero assicurato parimenti risultati positivi.

Pertanto, si sarebbe potuto rimuovere gli inconvenienti riscontrati anche in sede di indagini peritali, mediante un esborso pari ad Euro 20.278,34, sicchè il ristoro dell’attrice andava contenuto in tale somma.

Alla stessa occorreva poi aggiungere le spese sostenute per la necessità di eseguire gli interventi (e cioè le spese di trasloco, facchinaggio e magazzinaggio mobili), non potendo invece essere riconosciute altre somme, perchè prive di nesso causale con i difetti dell’immobile compravenduto.

Del pari meritevole di accoglimento era il terzo motivo che contestava la ricorrenza del danno legato ai disagi ed allo stress psico-fisico subito dalla C. e dai componenti del suo nucleo familiare.

Infatti, il potere di liquidazione del danno in via equitativa non esonera la parte dal dover fornire gli elementi probatori ed i dati di fatto dai quali inferire la concreta sussistenza del danno. Nella specie tale prova era carente.

Passando all’appello incidentale, la sentenza rilevava che la spesa sostenuta per i lavori di definitivo risanamento come da contratto concluso con l’impresa SAFE per un importo di Euro 149.760,00 non le poteva essere riconosciuta in quanto non era necessaria al fine di emendare i difetti del bene acquistato. Del pari era disatteso il secondo motivo del gravame incidentale, vertente sulle spese sostenute, come da documenti sub 12, ai punti v, vi, e vii, trattandosi anche in tal caso di spese che esulavano da quelle strettamente necessarie per rimuovere i vizi riscontrati, essendo analoga la conclusione anche per le somme richieste dalla SAFE a saldo dei lavori extra preventivo.

Il rigetto investiva anche il motivo con il quale si lamentava una erronea liquidazione delle spese di lite, non risultando dedotta la violazione dei minimi tariffari, essendo comunque del tutto generico, come del pari era rigettata la richiesta di liquidazione del danno all’integrità psico-fisica, accertato in epoca successiva alla pronuncia del Tribunale, in quanto la certificazione medica versata in atti non permetteva di affermare che la patologia riscontrata fosse effettivamente ricollegabile ai fatti di causa.

Avverso detta sentenza ha proposto ricorso per cassazione C.B. sulla base di sei motivi.

L’intimata resiste con controricorso.

Entrambe le parti hanno depositato memorie in prossimità dell’udienza.

RAGIONI IN DIRITTO DELLA DECISIONE Con il primo motivo di ricorso si deduce la violazione e falsa applicazione dell’art. 1218 c.c. e art. 14786 c.c. n. 3, artt. 1490 e 1494 c.c., in quanto la sentenza gravata, nel ridurre i danni liquidati all’attrice rispetto a quanto effettuato dal Tribunale, non ha tenuto conto della pacifica giurisprudenza di legittimità che riconosce il diritto del compratore ad agire anche in via autonoma per il risarcimento del danno derivante dai vizi della cosa venduta, sicchè del tutto erronea si presenta la decisione impugnata che ha limitato i danni alle sole spese collegate all’esecuzione dei lavori assolutamente indispensabili per eliminare i vizi lamentati.

Il risarcimento del danno è uno strumento che in realtà si aggiunge alle normali azioni edilizie, sicchè il giudice avrebbe dovuto estendere la condanna della venditrice a tutti i danni subiti dalla ricorrente.

Il secondo motivo denuncia la violazione e falsa applicazione dell’art. 115 c.p.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3 e 4. Si deduce che dalla documentazione versata in atti emergeva che i lavori eseguiti dall’attrice erano proprio imposti dall’esigenza di pervenire ad una risoluzione definitiva del problema generato dall’inadempimento della venditrice, come evidenziato nella perizia di parte.

Ne consegue che il ristoro accordato in sentenza è del tutto riduttivo rispetto all’effettiva entità dei danni patiti, non potendo essere condivise le erronee conclusioni della consulenza tecnica d’ufficio collegiale.

Il terzo motivo denuncia l’omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, in quanto la Corte d’Appello avrebbe omesso di considerare lo stato concreto in cui si trovava l’immobile, come risulta anche dagli accertamenti tecnici eseguiti, senza avvedersi che la soluzione tecnica suggerita dall’ausiliario d’ufficio avrebbe determinato una riduzione di valore del bene.

Il quarto motivo denuncia la violazione e falsa applicazione degli artt. 1223,1226,2043,2056 e 2059 c.c., nonchè degli artt. 115 e 132 c.p.c., in quanto la somma liquidata non avrebbe tenuto conto dell’esigenza di riconoscere oltre al danno emergente il lucro cessante.

All’attrice competeva l’integrale ristoro dei danni da identificare in quelli effettivamente richiesti.

In tal senso non poteva escludersi il risarcimento dei danni per le spese relative al definitivo risanamento dell’immobile.

Inoltre, sarebbe pervenuta alla soluzione avversata senza una reale motivazione e senza una effettiva disamina delle prove raccolte.

La sentenza è del pari illegittima nella parte in cui ha negato il ristoro del danno non patrimoniale, ricollegabile al maggior disagio psico-fisico subito dall’attrice quale conseguenza degli inconvenienti dell’appartamento, posto che tale danno poteva tranquillamente essere liquidato in via equitativa.

Il quinto motivo denuncia la violazione e falsa applicazione degli artt. 2043 e 2056 c.c. e dell’art. 115 c.p.c., quanto al mancato riconoscimento del danno alla salute, oggetto di richiesta avanzata in grado di appello, sulla scorta della documentazione sanitaria ivi prodotta.

Si deduce che trattasi di domanda già inclusa tra quelle avanzate con la domanda originaria, essendo quindi erronea la mancata liquidazione della somma volta a compensare tale pregiudizio.

I motivi che possono essere congiuntamente esaminati per la loro connessione, sono infondati, in quanto nel loro insieme, lungi dal denunciare un’effettiva violazione di legge, mirano nella sostanza a contestare l’apprezzamento delle risultanze probatorie, come operato dal giudice di merito, con valutazione che invece soddisfa il requisito del minimo costituzionale della motivazione, e che come tale non è suscettibile di sindacato in sede di legittimità.

A tal fine deve ricordarsi che per dedurre la violazione del paradigma dell’art. 115 è necessario denunciare che il giudice non abbia posto a fondamento della decisione le prove dedotte dalle parti, cioè abbia giudicato in contraddizione con la prescrizione della norma, il che significa che per realizzare la violazione deve avere giudicato o contraddicendo espressamente la regola di cui alla norma, cioè dichiarando di non doverla osservare, o contraddicendola implicitamente, cioè giudicando sulla base di prove non introdotte dalle parti e disposte invece di sua iniziativa al di fuori dei casi in cui gli sia riconosciuto un potere officioso di disposizione del mezzo probatorio (fermo restando il dovere di considerare i fatti non contestati e la possibilità di ricorrere al notorio, previsti dallo stesso art. 115 c.p.c.), mentre detta violazione non si può ravvisare nella mera circostanza che il giudice abbia valutato le prove proposte dalle parti attribuendo maggior forza di convincimento ad alcune piuttosto che ad altre, essendo tale attività consentita dal paradigma dell’art. 116 c.p.c., che non a caso è rubricato alla “valutazione delle prove” (Cass. n. 11892 del 2016; Cass. S.U. n. 16598/2016).

In particolare, in tema di ricorso per cassazione, per dedurre la violazione dell’art. 115 c.p.c., occorre denunciare che il giudice, in contraddizione espressa o implicita con la prescrizione della norma, abbia posto a fondamento della decisione prove non introdotte dalle parti, ma disposte di sua iniziativa fuori dei poteri officiosi riconosciutigli (salvo il dovere di considerare i fatti non contestati e la possibilità di ricorrere al notorio), mentre è inammissibile la diversa doglianza che egli, nel valutare le prove proposte dalle parti, abbia attribuito maggior forza di convincimento ad alcune piuttosto che ad altre, essendo tale attività valutativa consentita dall’art. 116 c.p.c. (Cass. S.U. n. 20867/2020, secondo cui in tema di ricorso per cassazione, la doglianza circa la violazione dell’art. 116 c.p.c. è ammissibile solo ove si alleghi che il giudice, nel valutare una prova o, comunque, una risultanza probatoria, non abbia operato – in assenza di diversa indicazione normativa secondo il suo “prudente apprezzamento”, pretendendo di attribuirle un altro e diverso valore oppure il valore che il legislatore attribuisce ad una differente risultanza probatoria (come, ad esempio, valore di prova legale), oppure, qualora la prova sia soggetta ad una specifica regola di valutazione, abbia dichiarato di valutare la stessa secondo il suo prudente apprezzamento, mentre, ove si deduca che il giudice ha solamente male esercitato il proprio prudente apprezzamento della prova, la censura è ammissibile, ai sensi del novellato art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, solo nei rigorosi limiti in cui esso ancora consente il sindacato di legittimità sui vizi di motivazione).

Va altresì evidenziato che, secondo il costante orientamento di questa Corte (cfr. Cass. 25 gennaio 2012 n. 1028) l’accertamento dell’esistenza o dell’esclusione del rapporto di causalità tra i comportamenti dei singoli soggetti e l’evento dannoso, si concreta in un giudizio di mero fatto, che resta sottratto al sindacato di legittimità, qualora il ragionamento posto a base delle conclusioni sia caratterizzato da completezza, correttezza e coerenza dal punto di vista logico-giuridico (conf. ex multis Cass. 23 febbraio 2006 n. 4009, secondo cui la ricostruzione delle modalità del fatto generatore del danno, la valutazione della condotta dei singoli soggetti che vi sono coinvolti, l’accertamento e la graduazione della colpa, l’esistenza o l’esclusione del rapporto di causalità tra i comportamenti dei singoli soggetti e l’evento dannoso, integrano altrettanti giudizi di merito, come tali sottratti al sindacato di legittimità se il ragionamento posto a base delle conclusioni sia caratterizzato da completezza, correttezza e coerenza dal punto di vista logico-giuridico; Cass. 5 aprile 2005 n. 7086; Cass. 16 maggio 2003 n. 7637; Cass. 23 luglio 2003 n. 11453).

Va pertanto ribadito che (Cass. n. 20961/2017) in tema di responsabilità contrattuale, l’accertamento tanto del nesso di causalità tra l’inadempimento e il danno, quanto della prevedibilità del danno medesimo costituisce un apprezzamento di fatto, insindacabile in sede di legittimità, ove sorretto da motivazione adeguata e immune da errori (conf. Cass. n. 9985/2019, secondo cui mentre l’errore compiuto dal giudice di merito nell’individuare la regola giuridica in base alla quale accertare la sussistenza del nesso causale tra fatto illecito ed evento è censurabile in sede di giudizio di legittimità ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, viceversa l’eventuale errore nell’individuazione delle conseguenze derivanti dall’illecito, alla luce della regola giuridica applicata, costituisce una valutazione di fatto, come tale sottratta al sindacato di legittimità se adeguatamente motivate).

Tali principi, sebbene di norma applicati in tema di causalità materiale valgono anche al fine di verificare la corretta applicazione del nesso di causalità giuridica, alla luce della precisazione secondo cui (Cass. n. 21255/2013; Cass. n. 4439/2014) la ricostruzione del nesso di derivazione eziologica esistente tra la condotta del danneggiante e la conseguenza dannosa risarcibile implica la scomposizione del giudizio causale in due autonomi e consecutivi segmenti, il primo volto ad identificare – in applicazione del criterio del “più probabile che non” – il nesso di causalità materiale che lega la condotta all’evento di danno, il secondo essendo diretto, invece, ad accertare il nesso di causalità giuridica che lega tale evento alle conseguenze dannose risarcibili, accertamento, quest’ultimo, da compiersi in applicazione dell’art. 1223 c.c., norma che pone essa stessa una regola eziologica.

Una volta poste tali premesse in punto di diritto, si rivela con immediatezza l’inammissibilità delle censure sollevate dalla ricorrente che nella sostanza denotano la personale insoddisfazione per la quantificazione e liquidazione dei danni come operata dal giudice di appello, aspirando i motivi nel loro complesso ad una rideterminazione del quantum in maniera più appagante, ma in palese contrasto con la valutazione rimessa in esclusiva al giudice di merito.

La Corte d’Appello, senza in alcun modo negare l’autonomia della pretesa risarcitoria di cui all’art. 1494 c.c., nè escludere che accanto al pregiudizio derivante dalla riduzione di valore del bene in conseguenza dei vizi della cosa venduta, il compratore possa altresì chiedere il ristoro del danno comunque causalmente ricollegabile alla presenza del vizio, ha in concreto proceduto ad una complessiva rivalutazione della vicenda, pervenendo ad un giudizio di eccessività delle richieste risarcitorie della C..

Alcuna violazione delle norme in tema di garanzia per vizi e di risarcimento del danno da inadempimento del contratto di vendita risulta configurabile nella fattispecie, alla luce delle congrue ed argomentate motivazioni del giudice di appello, che, avvalendosi degli esiti della consulenza tecnica d’ufficio, ha riscontrato come il pregiudizio derivante dalla presenza dei vizi, ed i costi necessari per rimuovere gli stessi fossero di importo ben inferiore rispetto a quello che l’attrice assume di avere sostenuto, rilevando altresì come le somme richieste e la stessa tipologia di interventi eseguiti siano assolutamente eccedenti rispetto ai costi effettivamente necessari per rimuovere i vizi della cosa venduta.

Va poi ricordato come il giudice di appello, lungi dal limitarsi a riconoscere i soli danni legati ai costi da sostenere per eliminare i vizi dell’appartamento, ha altresì accordato il risarcimento per quegli altri esborsi sostenuti dall’attrice, e ritenuti causalmente riconducibili al fatto illecito della venditrice, quali i costi per il trasloco, per la custodia dei beni mobili, mostrando in tal modo di aver ben presente la necessità di dover riconoscere il danno in maniera integrale (e cioè non limitata solo al costo per rimuovere il vizio, ma esteso a tutte le conseguenze comunque derivanti dall’illecito), avendo tuttavia effettuato, con valutazione in merito, al medesimo riservata, la selezione tra le varie richieste dell’attrice, di quelle che effettivamente si ponevano in nesso di causalità giuridica con il fatto del veditore.

La sentenza impugnata nel contenere il risarcimento dovuto nei limiti della somma in concreto liquidata, lungi dal violare le norme in tema di rapporto di causalità giuridica tra evento dannoso e conseguenze dannose, ha viceversa applicato la regola elementare che mira ad impedire che il risarcimento del danno costituisce occasione di locupletazione del danneggiato, dovendo la legge assicurare l’effettivo ristoro del suo patrimonio, nei limiti in cii sia stato effettivamente leso dall’evento dannoso, non potendosi pertanto accordare il risarcimento per quelle pretese che appunto perchè frutto di una scelta del danneggiato, non causalmente riconducibile con un rapporto di necessarietà al fatto illecito, non trovano una giustificazione nelle previsioni in tema di disciplina del risarcimento del danno.

Del pari inammissibile si palesa la denuncia reiterata nel secondo e nel quarto motivo di violazione dell’art. 115 c.p.c., posto che la censura non presenta i requisiti che la giurisprudenza di questa Corte esige debba avere per poter legittimamente essere esaminata dal giudice di legittimità, risolvendosi le doglianze in una generica richiesta di rivalutazione delle risultanze istruttorie, non reputandosi invece appagante quella offerta nella sentenza gravata.

Nè ricorre un’omessa disamina di fatto decisivo, posto che la conclusione di limitare i danni scaturisce proprio dalla verifica della condizione dei luoghi come operata dagli ausiliari d’ufficio, contrapponendosi a tale valutazione quella personale offerta dalla ricorrente, che ritiene maggiormente attendibili le verifiche e le conclusioni dei propri consulenti.

Parimenti valutazione di merito è quella che attiene al mancato riconoscimento del danno alla salute avendo la sentenza rilevato che la certificazione medica, peraltro prodotta solo in appello, se attestava una patologia della quale il sanitario riscontrava essere affetta la C., non permetteva altresì di stabilire un nesso di derivazione causale dai fatti di causa, onere del quale risultava onerata l’attrice.

Come del pari è incensurabile la decisione della Corte d’Appello quanto al mancato riconoscimento del danno da disagio psicofisico, la cui liquidazione viene pretesa in via equitativa dalla ricorrente, posto che la sentenza, lungi dal negare il principio (Cass. n. 11410/2008) secondo cui, in caso di inadempimento del venditore, oltre alla responsabilità contrattuale da inadempimento o da inesatto adempimento, è configurabile anche la responsabilità extracontrattuale del venditore stesso, qualora il pregiudizio arrecato al compratore abbia leso interessi di quest’ultimo che, essendo sorti al di fuori del contratto, hanno la consistenza di diritti assoluti (conf. Cass. n. 3021/2014), ha escluso che fosse stata offerta la prova della sua effettiva esistenza, alla luce del principio, parimenti affermato da questa Corte, secondo cui (Cass. n. 4310/2018) l’esercizio del potere discrezionale di liquidare il danno in via equitativa, conferito al giudice dagli artt. 1226 e 2056 c.c., sebbene non dia luogo ad un giudizio di equità, ma ad un giudizio di diritto caratterizzato dalla cosiddetta equità giudiziale correttiva od integrativa, è tuttavia subordinato alla condizione che per la parte interessata risulti obiettivamente impossibile, o particolarmente difficile, provare il danno nel suo ammontare, e dall’altro non ricomprende l’accertamento del pregiudizio della cui liquidazione si tratta, presupponendo già assolto l’onere della parte di dimostrare la sussistenza e l’entità materiale del danno (conf. Cass. n. 20990/2011; Cass. n. 16344/2020).

Il rigetto del risarcimento di tale posta di danno si presenta conseguenza non già di un’erronea applicazione di una norma di diritto, ma quale effetto della valutazione del giudice di merito circa il mancato soddisfacimento da parte della ricorrente, alla luce delle emergenze probatorie acquisite, della prova che alle vicende oggetto di causa avesse fatto seguito anche un danno non patrimoniale, quale quello dedotto in citazione.

Il sesto motivo di ricorso denuncia, infine, l’errore materiale commesso dal giudice di appello che, nel determinare il complessivo ammontare del danno subito dall’attrice, non avrebbe conteggiato anche la somma di Euro 25.667,06, che era stata invece accordata dal Tribunale quale rimborso delle spese per assistenza tecnica e legale affrontate ante causam, somma che non risultava investita dai motivi di appello.

Il motivo in disparte il difetto di specificità, nella parte in cui assume che anche il riconoscimento delle somme interessate dall’errore di calcolo, non sarebbe stato investito dai motivi di appello, senza peraltro riprodurre nè il contenuto della sentenza di primo grado nè i motivi di appello (e ciò in violazione del principio di specificità che deve essere rispettato anche nel caso in cui si deduca un error in procedendo, Cass. S.U. n. 8077/2002), ed anche a voler soprassedere sul fatto che il contenuto della sentenza impugnata, nel rideterminare il danno subito dall’attrice, risulta avere esaminato in maniera esaustiva tutti i profili di danno dedotti dall’attrice, è inammissibile, non potendo costituire un errore materiale o di calcolo commesso dal giudice di merito oggetto di ricorso per cassazione, avendo la legge a tale scopo previsto uno specifico rimedio (cfr. Cass. n. 28712/2013; Cass. n. 3843/1986; Cass. n. 5316/1987; Cass. n. 3551/1998; Cass. n. 8526/2000; Cass. n. 8287/2006).

4. Il ricorso deve quindi essere dichiarato rigettato e le spese seguono la soccombenza e si liquidano come da dispositivo.

5. Poichè il ricorso è stato proposto successivamente al 30 gennaio 2013 ed è dichiarato inammissibile, sussistono le condizioni per dare atto – ai sensi della L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17 (Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato – Legge di stabilità 2013), che ha aggiunto il comma 1-quater dell’art. 13 del testo unico di cui al D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115 – della sussistenza dell’obbligo di versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per la stessa impugnazione.

PQM

Rigetta il ricorso e condanna la ricorrente al rimborso delle spese che liquida in complessivi Euro 7.500,00, di cui Euro 200,00 per esborsi, oltre spese generali pari al 15% sui compensi ed accessori di legge;

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, inserito dalla L. n. 228 del 2012, art. 1, comma 17, dichiara la sussistenza dei presupposti processuali per il versamento di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato per il ricorso principale a norma dell’art. 1 bis dello stesso art. 13, se dovuto.

Così deciso in Roma, nella Camera di Consiglio della 2 Sezione Civile, il 19 gennaio 2021.

Depositato in Cancelleria il 30 giugno 2021

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